Nell’arco di un ristrettissimo numero di anni a cavallo fra Cinque e Seicento qualcuno scrisse un numero ingente di opere teatrali, fra le migliori della letteratura in lingua inglese, nascondendosi dietro il nome di William Shakespeare, un abitante di un paesino nei pressi di Londra. Nessun biografo che tenga alla propria credibilità ha mai osato mettere in dubbio i dati disponibili sulla vita di uno dei personaggi di cui meno si sa con sicurezza, né ha mai cercato prove concrete al di là della parola di biografi precedenti... semplicemente perché prove non ce ne sono!
Per quattrocento anni schiere di autori si sono alternati nell’immane sforzo di far combaciare le vaghe tracce di un artista che si faceva chiamare Shakespeare con le scarse tracce lasciate da un uomo che aveva un nome abbastanza simile (va infatti ricordato che la grafia del nome ha moltissime varianti: Shaxpear, Shaxpere, Shakespeyr, Shakyspere, Shaksper, Shakespear, Shaksper, Shakespere e via dicendo. Sono semplici varianti di scrittura o sono persone diverse? Se oggi qualcuno affermasse che Thomas More e Thomas Moore sono la stessa persona verrebbe preso per pazzo!)
A scrivere una biografia che onestamente dica che nulla si sa di chi ha scritto opere così meravigliose si rischia di rimetterci la carriera: figurarsi scriverne una in cui si afferma che dietro quello pseudonimo si nascondeva un autore siciliano! Decisamente meglio scriverci un romanzo: ecco quindi “Il manoscritto di Shakespeare” (Sellerio 2008) di Domenico Seminerio.
«In sostanza di Shakespeare si sa solamente che è nato, ha preso moglie, ha avuto tre figli, ha scritto commedie e tragedie ed è morto. Sono stupito in verità. Sapevo che c’era qualche controversia sulla sua biografia, ma non immaginavo che ci fosse così poco e per giunta confuso.» Seminerio riporta quasi identiche le parole che George Steevens scrisse nel Settecento, che finora sono quanto di più comprovato e sicuro sappiamo di Shakespeare-uomo. Poi però, giustamente, inizia la parte romanzata.
Sin dall’inizio del Novecento ai nomi papabili per smascherare la vera identità di Shakespeare si è aggiunto quello di un italiano del Cinquecento. «Michel Agnolo Florio. Così è scritto nella lingua del suo secolo. Michelangelo Florio, insomma.»
L’autore del romanzo immagina che un appassionato professore abbia trovato un’edizione del 1582 della commedia teatrale “Tantu scrusciu pi nenti”, scritta in dialetto siciliano: questa opera più di dieci anni dopo avrebbe visto la luce in lingua inglese con il titolo “Molto rumore per nulla” (Much Ado About Nothing), recante la firma di William Shakespeare. Specifichiamo che Seminerio ha inventato solo il ritrovamento del manoscritto, perché l’esistenza di questa commedia viene da sempre ventilato e addirittura nel 2000 lo scrittore Andrea Camilleri, per omaggiare il Florio, ha messo in atto un processo contrario: ha tradotto il testo inglese in dialetto siciliano, dando vita alla pièce teatrale “Troppu trafficu ppi nenti”.
Il professore spiega che l’Italia è presenza ingente e importante nelle opere shakespeariane, e vista l’esistenza dell’opera in dialetto siciliano poi tradotta fedelmente in inglese, avanza l’ipotesi che Shakespeare fosse in realtà uno pseudonimo adottato da un autore italiano. Ma Michelangelo Florio, autore della commedia, non poteva conoscere così bene l’inglese, quindi nella vicenda si inserisce un altro nome, un uomo di madre-lingua inglese. «Giovanni Florio. Figlio di un cugino del padre di Michelangelo, sembra. Il quale cugino, che si chiamava Michelangelo pure lui, s’era trasferito in quella nazione alcuni anni prima, s’era sposato e aveva avuto un figlio. Giovanni appunto, divenuto un grande letterato.»
Figuriamoci che vespaio solleverebbero gli inglesi di fronte alle prove che Shakespeare, la loro gloria nazionale, era in realtà un siciliano! Nel romanzo infatti ambasciatori e loschi figuri entrano in scena per mettere i bastoni fra le ruote al professore, il quale incita l’io narrante, uno scrittore di romanzi, a divulgare quanto ha scoperto e a far sapere al mondo l’incredibile scoperta.
Come ogni pseudobiblion che si rispetti, questo “libro falso” sarà il centro di una vicenda dalle tinte gialle che non potrà finire se non con la scomparsa del manoscritto che proverebbe l’origine siciliana del Bardo.
A questo punto nell’ingarbugliata vicenda raccontata dal professore del romanzo va fatta chiarezza: malgrado si basi molto su tesi reali proposte da autori come Martino Juvara, si tratta pure sempre di fiction, non di un saggio, quindi sono consentite ed anzi ben viste delle licenze. Va però sottolineato che al di là di possibili lontane origini, Michelangelo Florio fu un ecclesiastico toscano, non siciliano; fu costretto a fuggire dall’Italia per evitare persecuzioni religiose, e in seguito scrisse per gli inglesi un “Regle de la lingua Toschana”. Ben altro destino ebbe suo figlio, Giovanni Florio. Naturalizzatosi subito John - ed autodefinitosi “Il Risoluto” - fu uno dei principali e più importanti uomini di cultura dell’epoca: i suoi manuali di lingua italiana erano i più importanti dell’èra di Shakespeare, e proprio nell’opera di quest’ultimo “Pene d’amor perdute” molti critici hanno voluto vedere nel personaggio di Oloferne il ritratto di John Florio.
Nel romanzo viene detto che Florio pubblicò un’opera intitolata “I primi frutti” e un’altra “I secondi frutti”: la prima sarebbe in realtà la commedia divenuta poi “Molto rumore per nulla”; la seconda una raccolta di aforismi. Poi però in un altro punto si riferisce all’Amleto (segno forse che l’autore ha preso informazioni da diversi saggi, contrastanti fra di loro), comunque è sicuro che questi “frutti” siano opera di Michel Agnolo Florio.
In realtà nell’agosto 1578 John Florio (e non Michelangelo!) registra la sua prima opera: «Florio his First Frute, being Dialogues in Italian and English, with certen Instructions, & c. to the learning the Italian Tonge» (I primi frutti di Florio. Dialoghi in italiano e inglese, con iscruzioni ed altro per imparare la lingua italiana). Nel 1591 appare la sua seconda opera: «Florio second Frutes. To which is annexed his Garden of Recreation yeelding six thousand Italian Proverbs» (I secondi frutti di Florio. Con annesso il suo “Giardino di ricreazione” contenente seimila proverbi italiani).
Nel 1603 Florio pubblica la traduzione in inglese dei Saggi di Montaigne, i quali forniscono un passaggio celebre alla Tempesta di Shakespeare. Anzi, nel 1848 J. Payne Collier afferma in nota del suo “Extracts from the Registers of the Stationer’s Company” che «La copia privata di Shakespeare di questi Saggi, con il suo [di Florio] autografo, si trova nel British Museum»: visto che non ci sono prove di alcun oggetto appartenuto a Shakespeare, come fa Collier ad affermare che quel libro fu di sua proprietà?
Seminerio scrive un romanzo di gradevole lettura e inventa un gustoso pseudobiblion: una copia di “Tantu scrusciu pi nenti” sarebbe veramente esplosiva se esistesse. Condisce il tutto con riferimenti a vere teorie, e vere leggende, ma bisogna sempre ricordarsi che null’altro sono: teorie e leggende.
Leggenda è quella che l’esistente toponimo Cadotèl voglia dire “Casa di Otello”. Teoria molto confusa è quella dell’identificazione di Shakespeare con Florio, mischiando i nomi di Michelangelo e Giovanni e invertendo spesso l’ordine di familiarità: a volte Michelangelo è il padre, a volte lo è Giovanni, altre volte sono parenti in altro modo. La teoria comunque risale al 1925 quando Santi Paladino (giornalista ma anche, non va dimenticato, autore di letteratura fantastica) sul quotidiano L’Impero affermava di aver trovato in un testo di Michelangelo Florio alcuni proverbi usati identici nell’Amleto shakespeariano. Scrisse anche due saggi sull’argomento, in seguito, ma probabilmente si rifaceva alla tesi di laurea del 1921 che l’americana Clara Longworth de Chambrun presentò alla Sorbona di Parigi, in cui identificava i proverbi italiani di Florio (John, non Michelangelo!) nell’Amleto. Come abbiamo detto, però, nella Londra di fine Cinquecento qualsiasi autore volesse inserire frasi o proverbi italiani nella propria opera doveva affidarsi ai manuali di John Florio. La tesi di Paladino, in piena epoca fascista, può forse riflettere il desiderio di dare volto italiano ad un nome illustre.
C’è poi la questione della madre del Florio che discendeva dall’antica casata siciliana dei Crollalanza: la coincidenza che Shakespeare è la traduzione esatta di questo cognome (shake, scrollare; speare, lancia) è incredibile. Diremmo noi che è troppo bella per essere vera... e come vedremo più avanti, quando si parla di Shakespeare tutte le teorie troppo belle per essere vere, non sono vere! Nel 1936, comunque, il medium Luigi Bellotti rilasciò un’intervista al quotidiano La Stampa in cui affermava che Shakespeare gli aveva rivelato personalmente di chiamarsi in realtà Guglielmo Crollalanza...
L’eterno scoglio contro cui naufraga chiunque cerchi di fare luce sul mistero di Shakespeare viene definito da Seminerio “La maledizione di Shakespeare”. L’iscrizione sulla sua tomba, infatti, tutt’oggi recita: «Caro amico per amore di Gesù rinuncia a scavare la polvere qui rinchiusa. Benedetto chi risparmia queste pietre, maledetto chi muoverà le mie ossa». In aggiunta, François-René de Châteaubriand (in Saggio su la letteratura inglese, 1836) racconta che, apertasi una crepa nella tomba del poeta, il sacrestano che fu messo a custodia vi sbirciò dentro... e non trovò null’altro che polvere. Né ossa, né resti, né altro: solo la polvere di Shakespeare. Amleto, dopo aver esaltato l’Uomo, lo liquida brevemente come «la quintessenza della polvere» (quintessence of dust, atto secondo, scena seconda), ed è questo tutto ciò che ci rimane del suo autore, ed è questo tutto ciò che ottiene chi, in barba alla “maledizione”, cerca di scavare nella sua vita.
In attesa di ricevere in sogno la Memoria di Shakespeare, come nel delizioso racconto omonimo di Borges, sospendiamo le ricerche e lasciamo lo scrittore alla sua polvere: solo essa saprà a chi è veramente appartenuta.
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