Per una volta non sono io a proporvi un personaggio ma mi siedo al ‘tavolo degli imputati’ pronto a rispondere alle domande di una lunga intervista realizzata da Riccardo Falcetta. Chi è questo personaggio che avete visto comparire spesso sulla mia bacheca? Un agente dell’SVR, della Savak? un Doktor della CIA sfuggito da qualche carcere centro americano? No, un amico e un professionista che ha realizzato questa Intervista–carriera con grandissima professionalità. Per motivi di spazio la divideremo in tre puntate. Ne sentirete delle belle. Ma prima conosciamo Riccardo attraverso la sua auto-presentazione. Laureatosi al DAMS di Bologna con una tesi sui rapporti tra la letteratura e il cinema e gli adattamenti cineletterari, Riccardo Falcetta è da sempre appassionato di musica estrema e d’avanguardia, cinema, letteratura tout court, fumetto e serialità. Ha cominciato scrivendo recensioni musicali e cinematografiche per riviste elettroniche e cartacee. Ha avuto l’onore di intervistare il grande musicista e compositore Luis E. Bacalov per una lunga videointervista di cui un frammento è presente nella riedizione del Dvd del film ‘Milano Calibro 9’. Regista, sceneggiatore e produttore creativo di video low budget tra i quali un cortometraggio, ‘Notte fuori’, premiato nel 2003 al Festival del Cinema di Villa Basilica, e ‘Danzese’, video ufficiale per la emergente Sottosuono Band (finalista a Sanremo Rock. Dopo essersi diplomato al Master in Radio e Tv di Roma3 con Riti di Passaggio, un progetto di micro fiction a basso costo, lo scorso anno ha collaborato con la SACT e il Roma Fiction Festival per il convegno internazionale degli autori televisivi sul Created By, producendo una piccola clip per l’apertura del convegno e ha realizzato l’adattamento scenico per il monologo teatrale Giuramento Notturno, che porterà in scena assieme all’autore del testo, il poeta e drammaturgo Francesco Di Niccolo. È al lavoro su un soggetto cinematografico ambientato tra il ventennio e il periodo post bellico e su una storia di vampiri ambientata in Puglia. La presente intervista è il suo omaggio a un autore vero del nostro panorama culturale, oltre che una tra le personalità più belle e significative incontrate nell’ambiente.
Andate pure in libreria ad acquistarvi l’ultimo tronfio best seller posto davanti all’entrata. Oppure rimanete qui con noi, discuteremo la storia e l’evoluzione di un certo modo di narrare “a tinte forti” con un italiano dai molti nomi che da qui a qualche anno peseranno come macigni. Stefano Di Marino è lo spy e il thriller high-concept, nella narrativa italiana. Attraverso un percorso seminale, fatto di due decenni di fervente attività e diverse decine di libri (romanzi e racconti, ma anche saggi sul cinema, un reportage su Hong Kong e diversi manuali di combattimento), nel “silenzio” della cosiddetta narrativa di genere, l’autore milanese ha dato un nuovo significato alla letteratura d’azione, elevandola a livelli di espressività difficilmente rintracciabili altrove e generando tutta una scuola che attinge alla tradizione avventurosa. Di Marino guarda all’Avventura attraverso tutte le dimensioni della medialità pop contemporanea (i generi, i formati del libro, del cinema e della serialità, nel fumetto e nella tv). Nell’incontro con il grosso calibro, tutto questo e anche molto altro.
Vorrei che cominciassi raccontandoci un po’ dei tuoi inizi e del tuo lavoro come redattore in Mondadori.
SDM: Ho iniziato a scrivere per passione. Diciamo con regolarità da quando avevo 15-16 anni. Sinceramente non credevo di arrivare a fare questo lavoro. Ho perso un sacco di tempo, con l’università e altre cose che, invece, si sono rivelate utili solo in seguito. Ho cominciato poi a pubblicare qualche racconto o articolo su riviste sportive. Tra le altre, collaboravo anche con ‘Febbre Gialla’, una rivista che dirigeva Moscati, ai tempi consulente Mondadori e amico di Orsi della Libreria del Giallo. Visto che ero lì tutti i santi giorni a rompere, mi procurarono questo contatto, sospetto un po’ per tenermi buono. Poi un giorno sento che Moscati sarebbe passato per la libreria. Allora che faccio? Mi fermo e lo avvicino. Simpatizziamo e la collaborazione con la rivista si rinsalda. Intanto mi parla di questo progetto per gli Oscar che si chiamava Nero Italiano, di cui però non dovevo parlare con la redazione del Giallo (la storica collana da edicola della Mondadori, ndr). Insomma ebbi il contratto con gli Oscar e nella redazione dei periodici si erano creati dei posti liberi per l’uscita di Marco Tropea e Laura Grimaldi che, intanto avevano fondato Interno Giallo. Mi offrirono un posto da redattore ordinario - non giornalista. Accettai, dovevo lavorare tutti i giorni e il responsabile amministrativo mi disse che quello era un lavoro un po’ da frustrati. Non sapevo ancora quanto il mondo dell’editoria fosse chiuso e classista: pagai in seguito. Il lavoro alla redazione di Urania (dove volevano uno che non fosse “troppo” appassionato di fantascienza e per il quale ero quindi perfetto) mi è servito, per vedere dal basso come vengono fatti i libri, e per farmi un po’ di conoscenze. Ho resistito quattro anni e mezzo, poi ho cominciato a lavorare come free lance mantenendo sempre un rapporto di cordialità con Mondadori. Non c’era ragione che fosse altrimenti. Purtroppo non è stato così con altre case editrici con cui ho collaborato. In poche parole: lavorare fisso non è “cosa” mia. Un po’ come per Il Professionista.
Ecco, veniamo alla tua creazione principale: Il Professionista. Una saga lunga ormai più di venticinque libri, più svariati racconti e romanzi brevi tuoi e di altri scrittori, che hanno visto Chance Renard attraversare gli scenari internazionali più sofferti. Esperienze affascinanti e durissime che hanno inevitabilmente portato una evoluzione in seno al personaggio. Vuoi parlarcene?
SDM. Con grande piacere. Il Professionista nasce quindici anni fa. Avevo già scritto Julius Colleoni, una breve serie di spionaggio firmata Kaman, per la Garden e ne ho create altre in seguito come Vlad e Montecristo ma Chance Renard è quello che considero il ‘mio’ personaggio. Quando ho concepito la serie per Segretissimo devo ammettere, che non pensavo di fare più di tre episodi. Mi fecero quel tipo di contratto con lo pseudonimo (Stephen Gunn, primo e storico pseudonimo dell’autore, ndr). Intanto, ero appena uscito in libreria con ‘Lacrime di Drago’ e credevo di essere arrivato in serie A. Poi mi sono accorto che è tutto un campionato dove si gioca con le carte truccate e pubblicare un libro senza promozione non vuol dire nulla. Intanto, Chance cominciava a riscuotere un certo successo e lì ho deciso di continuare. Anni dopo, con la possibilità di ristampare la serie per la libreria (da TEA, ndr), ho quasi completamente riscritto i primi due episodi ‘Raid a Kouru’ e ‘L’Eredità Cargese’, re-intitolati per l’occasione ‘Commando Ombra’ e ‘Corsican Option,’ mentre le altre ristampe differiscono di pochissimo dagli originali. La serie, inizialmente, era concepita a metà tra 007 e SAS (celebre e longevo personaggio spionistico francese, ndr) ma aveva, più o meno consapevolmente, molte altre influenze che risalivano ai miei anni di formazione. Oggi, quando rileggo certe avventure mi sembra impossibile non rivederci dei riferimenti, direi nello spirito, a libri come ‘Al Servizio di Chi mi Vuole’ di Giorgio Scerbanenco, ma soprattutto a fumetti come ‘Lo Sconosciuto’ di Magnus e a una storia di Bilal che lessi su Pilot (importante rivista a fumetti degli anni 80, ndr), ‘Le Falangi dell’Ordine Nero’. Ecco, volevo realizzare un serial di spionaggio apolitico, un po’ anarchico, serrato nell’azione. Con il trascorre degli anni le avventure del Professionista sono un po’ dilagate in altri generi. Non disdegno, infatti, racconti di impostazione più “noir” che firmo con il mio vero nome come Il Professionista Presenta. Il romanzo breve ‘Il Luparo’, riedizione aggiornata e ampliata di Giungla Mortale, riproposta di recente nel volume antologico ‘Professional Gun’ ne è un esempio. Poi, ancora, articoli o reportage come ‘Taglio di diamanti’ che Alacràn mi chiese di scrivere come “accompagnamento” a ‘Il traffico dei Diamanti’ di Fleming (Ian, autore di 007, ndr). Poi, dal 2006, ho avuto una folgorazione. Dopo aver “girato il mondo” con Il Professionista, ho riscoperto ambientazioni a noi vicine. Così è nato ‘Gangland’, che più che una spy story è una gangster-story con risvolti internazionali. Da quel momento Il Professionista alterna avventure più classiche, di respiro internazionale, con vicende che hanno un sapore più legato alla nostra cronaca. Questa differenza di tematiche si ripercuote anche sullo stile. Gli episodi più marcatamente neri, meno esotici preferisco raccontarli in prima persona al presente mentre quando il racconto assume toni più tradizionali torno al passato remoto che è un po’ la forma classica di questo tipo di racconto. Un esperimento interessante …
Sono da subito stato incuriosito da questa marcata identificazione tra te e il tuo personaggio principale. Cosa ti accomuna a Chance Renard e cosa invece vi distingue?
SDM. La verità è che per raccontare una storia efficace devi “crederci” e l’identificazione con il protagonista, ma del resto con tutti i personaggi, diventa quasi obbligata. Nel caso di Chance il fenomeno è emerso gradualmente. Quando scrivi due o tre storie all’anno con lo stesso personaggio per anni, i due mondi si confondono. Nasce un universo con una sua mitologia dove, inevitabilmente, entrano tutte le tue suggestioni. Certo Chance è una versione più sbruffona, cattiva e violenta di quello che sono io. È uno che si può permettere di sparare in bocca a chi gli rompe. Non vive esattamente nel nostro mondo, diciamo che si muove in un... territorio “terapeutico”. Ci sono molte cose mie, la passione per l’avventura, le donne esotiche, gli sport da combattimento, i viaggi e anche molte letture - avete notato che Chance legge spesso? Con gli anni certi gusti si sono trasformati e nella riedizione di certe avventure ci sono stati cambiamenti. Io ero un bevitore di birra, Corona soprattutto. Poi sono passato alla vodka (eh eh …) e anche lui ne è diventato un intenditore. Come di sigari. In ogni modo cerco sempre di vedere il confine tra me e lui, anche se... insomma.. ogni tanto mi sfugge (immagino!, ndr). Ma creativamente non è un male. Non si dovrebbe mai scrivere di se stessi, anche se si è convinti di avere una vita psicologica molto interessante. La verità è che, messa così com’è, la nostra vita non interessa molti, al di fuori di noi. Però certe cose si possono trasfigurare. Ci sono sentimenti, stati d’animo che noi scrittori condividiamo con il lettore e con i nostri eroi. L’emozione di un viaggio solitario, di un allenamento di Boxe, l’eccitazione di un innamoramento... sono di base sensazioni comuni a tutti. Se le inseriamo in un contesto accattivante, esotico, conservandone il succo, credo possano aiutarci a esprimere quello che sentiamo e divertire chi legge. Che resta sempre lo scopo fondamentale di questo lavoro.
Se dovessi scegliere a quale attore faresti interpretare Chance Renard?
SDM. Inizialmente pensavo a Tom Berenger come si vede in ‘Chi Protegge il Testimone’ o ‘One Shot One Kill – A Colpo Sicuro’, poi gli anni passano per tutti. Recentemente ho visto ‘Vengeance’ Jhonnie To e ho avuto una folgorazione. Jhonny Halliday è il Professionista adesso, soprattutto nelle storie come ‘Pietrafredda’ e ‘Tiro all’Italiana’.
Leggendo gli ultimi episodi della saga l’impressione che si ha è che Chance sia ormai sulla strada del suo inevitabile Götterdämmerung. Pensi che Chance abbia ancora molto da offrire? Hai mai pensato di metterci la parola fine?
SDM. No, il Professionista è stato concepito come un personaggio slegato da format troppo rigidi, può essere un personaggio per ogni genere. Dal noir, alla spy story fino all’avventura pura. Al momento sta attraversando una fase di transizione con il noir che mi ispira molto.
So che Tea che non continuerà a ristampare per le librerie le avventure del Professionista. Hai già trovato altri editori interessati a proseguire le ristampe?
SDM. Per il momento sarà difficile. Dei primi sette continueranno a detenere i diritti ancora per diversi anni, pur non ristampandoli, e dovrei ricomprarli e cominciare una ristampa dall’ottavo episodio. Non avrebbe senso. Non che non mi dispiaccia ma c’è comunque parecchia carne al fuoco.
Quando la tua passione per la lettura è diventata passione per la scrittura? E come è venuta la decisione di scrivere e, in particolare, noir e spionaggio?
SDM. Lettura e scrittura sono andate un po’ di pari passo. Da ragazzino divoravo Salgari, poi sono passato a Segretissimo (storica testata di spionaggio della Mondadori, ndr) e a certi hard boiled. Tutto condito con il cinema, i fumetti e le mie esperienze personali di viaggio, fotografia e arti marziali. Una bella zuppa, eh? Beh, è proprio così. A un certo punto della mia vita ho capito che scrivere era quello che sapevo e volevo fare. E poi ho realizzato anche che non sapevo fare altro. Il noir e lo spionaggio sono sempre state le mie passioni insieme all’avventura pura. Come dicevo all’inizio, ebbi l’opportunità di esordire in Nero Italiano nel ’90 (‘Per il Sangue Versato’, ndr) combinando l’avventura, il thriller e il noir. Ne è venuta fuori la formula dei miei romanzi attuali. Però la passione per quasi tutti i tipi di narrativa d’intrattenimento mi ha spinto a cimentarmi un po’ in ogni filone compresi il fantasy e il western. Il problema è il mercato che non offre molte possibilità.
A proposito di Salgari, lo scorso anno hai tracciato, nelle tue note su Facebook, un parallelo tra il tuo lavoro e quello di questo straordinario precursore, verso il quale riconosci un debito, accennando a un romanzo salgariano sul quale saresti al lavoro. Vuoi rivelarci qualcosa in più in merito?
SDM. Questione delicatissima, parte del medesimo problema che riguarda le ristampe de Il Professionista. Il romanzo salgariano è già scritto da due anni. Mi fu commissionato dall’editore per cui all’epoca lavoravo. Poi ho interrotto quel rapporto che era di consulenza e ho cercato di farlo in maniera indolore. Evidentemente l’hanno presa come un affronto personale e hanno pubblicato ancora due cose mie (‘Sole di Fuoco’ e ‘Il veleno del Cobra’, che avevano già pagato) ma quando è stato il momento del romanzo salgariano non si facevano trovare per la consegna e dopo 120 giorni non mi davano una cenno di accettazione. Così i diritti me li sono tenuti io. Adesso il romanzo è stato riscritto e rielaborato più volte. Non è più quello originario. Sto cercando una formula per pubblicarlo ma essendo un romanzo scritto parzialmente su richiesta, per ora non trovo altri editori interessati. Ma uscirà, sicuramente.
A proposito di generi popolari, fedele alla linea del pulp writer e con una messe di pseudonimi, li hai attraversati tutti nei tuoi vent’anni di attività, con decine di romanzi all’attivo che compongono oramai una bibliografia invidiabile. Senza mai dimenticare le famose tre A della letteratura di genere: Azione, Avventura, Amore …
SDM. Fondamentalmente sì. Sono le tre principali basi su cui si fonda la narrativa d’intrattenimento e, mescolate con diversa intensità, possono dare vita centinaia di storie differenti. Gli intrecci rimandano sempre a qualcosa che abbiamo già visto e sentito. Inutile farsi illusioni, la differenza sta nella passione con cui si racconta. Se una storia non la sento, di solito il lettore se ne accorge subito.
Dall’incredibile quantità di pagine che riesci a produrre ogni anno come scrittore, si direbbe che tu abbia ritmi davvero serrati. Come organizzi il tempo di lavoro? Decidi di produrre un determinato numero di pagine al giorno?
SDM. In questo periodo vivo soprattutto di scrittura quindi è più semplice organizzare la giornata. Conta che ormai se uno non si fa promozione da solo è difficile restare sul mercato. Anche quello è un lavoro, purtroppo da svolgere a titolo quasi sempre gratuito. Per quanto riguarda la scrittura, ho sempre saputo organizzare molto bene il mio lavoro. Le storie le programmo con grande anticipo. Quando arrivo al computer resta solo la parte tecnica della stesura e poi della revisione del testo. Però non scrivo moltissimo. Non più di 5-6 cartelle al giorno, quasi terminate. Tutti i giorni. Vi assicuro che se ne scrivono di pagine con questo modo di procedere.
Torniamo alle storie. Nei tuoi libri descrivi con assoluta lucidità una realtà internazionale in cui potere politico e militare, servizi segreti e criminalità globalizzata, costituiscono un inscindibile groviglio di violenza e interessi. Qual è la chiave per comprendere l’ intreccio di potere deviato che è dilagato ovunque dopo la caduta del comunismo?
SDM. Guarda, non credo sia cambiato molto, i meccanismi sono sempre gli stessi: potere, corruzione, intimidazione, sopraffazione e le reazioni che generano. Sono cambiati i regimi ma certe aree sono da sempre aree problematiche. Nell’ Ottocento si parlava di Questione d’Oriente. Il problema era l’aspirazione della Russia zarista a uno sbocco sul mare prima sul mar Nero e poi nella regione dell’Impero Ottomano. Ovviamente Francia e Inghilterra tendevano a contrastare questa tendenza, alleandosi ora con gli uni ora con gli altri gruppi della regione. C’era la questione degli armeni che sono stati massacrati dai turchi e hanno perso qualsiasi spazio nazionale, esattamente come è accaduto agli ebrei. Qualcuno ha pensato di rendere loro una terra da chiamare patria? Allo stesso modo ricordiamo che i Pogrom antisemiti hanno avuto origine in Russia prima che in Germania. Poi si sono aggiunti gli interessi petroliferi, è entrato in scena l’Impero Americano. Dopo la caduta del Muro sono sorti altri stati imperialisti con mire sulla zona. Sono cambiate certe meccaniche del terrorismo, anche a livello di immaginario. Nell’epoca in cui il terrorismo era in qualche modo foraggiato dal KGB si è diffusa la leggenda del super terrorista apolitico che lavora per soldi. Una versione al nero dell’agente segreto. Carlos Lo Sciacallo. Dopo l’ 11 settembre il terrorismo di matrice islamista ha assunto caratteristiche molto, molto diverse e questo si è ripercosso sia nella reale lotta al terrore che nei romanzi. Ma certi meccanismi narrativi sono rimasti identici. Come diceva Desmond Bagley: “Il nemico siamo noi”.
In ‘Beirut: Gangwar’ durissimo romanzo della serie Il Professionista (apparso nell’ estate 2008 su Segretissimo, ndr) fai riferimento proprio alla tragedia del popolo armeno attraverso le figure di Armen e suo figlio Luka. Hai tratteggiato questi personaggi in modo assolutamente inquietante, come spettri o divinità vendicative che cercano un riscatto per il proprio popolo attraverso la violenza e l’autodistruzione e stessa cosa hai fatto con le milizie di bambini di Selim Guaipertutti in ‘Campi di Morte’...
SDM. Ecco, dicevo gli armeni appunto. Mi ero molto ben documentato all’inizio degli anni ’90 per una storia a fumetti che si intitolava ‘Agente di Nessuno’ e si svolgeva tutta nella Beirut occupata degli anni ‘80. Con Granata press non riuscimmo a trovare un disegnatore. Era anche una storia molto lunga, quasi 200 tavole. Mi spiaceva lasciare quel materiale inutilizzato, così ho avuto l’idea di questa lunga storia del Professionista che inizia con ‘Colori di Guerra’ e termina con ‘Beirut: Gangwar’. Negli anni, la situazione è cambiata. Beirut dopo una breve rinascita è tornata a essere uno scacchiere di interessi differenti. Gli armeni erano dei perfetti “cattivi” in quanto hanno una cultura meticcia, legata a diverse tradizioni, alcune europee altre più marcatamente mediorientali. Mi piaceva che conservassero qualcosa di epico, il bambino selvaggio figlio di Armen, Luka è l’incarnazione di uno spirito guerriero che ancor tutti temono…
Come decidi a quali contesti riferirti per creare situazioni narrative? Sono cronaca e storia ad ispirarti o crei le trame attraverso un utilizzo di strutture narrative e ti documenti solo in seguito?
SDM. Non c’è una regola fissa. Come ti dicevo, lavoro sui romanzi con molto anticipo. Il Professionista ha una sua storyline più o meno decisa da diverso tempo. Può cambiare se in quel periodo accade qualcosa che mi colpisce particolarmente, o nella cronaca o nella mia vita privata. Per riparlare di ‘Beirut: Gangwar’ e del romanzo ‘Colori di guerra’, che lo ha preceduto, l’idea è nata quando è scoppiato il conflitto in Libano dopo il lancio dei razzi Khassam verso il confine israeliano. Però poi è passato più di un anno da quando ho raccolto il materiale e si sono inserite altre suggestioni, non ultima la necessità di sviluppare l’angolazione italiana, per cui in Colori di guerra la storia comincia a Gangland (la sua Milano, ndr) poi prosegue a Cipro e, finalmente arriva a Beirut. A questo punto però la guerra era praticamente finita è ho dovuto cambiare un po’ la struttura della storia. Da qui l’idea di creare una sorta di città franca dove i servizi segreti delegano a gruppi di privati di gangster lo svolgimento dei loro affari. Così è venuta fuori la complessa mappa di rapporti tra serbi, armeni, fazioni varie iraniane e la squadra di Chance.
Siamo ormai in molti a pensare che tu e gli altri scrittori della tua generazione abbiate dato un senso nuovo alla letteratura avventurosa e spionistica. Leggendo un tuo libro (o, per dire, uno di Massimo Carlotto) si ha la sensazione di immergersi in una narrazione infuocata che pone il lettore in una posizione privilegiata per dare un senso unitario a certe verità e tragedie dei tempi che viviamo e che i media raccontano solo in modo frammentario. Non solo avventura dunque ma anche una messa in prospettiva, uno sguardo storico. Che forse non è facile gettare su vicende e situazioni “fresche” o ancora sotto gli occhi di tutti …
SDM. Sì, hai ragione. Io ho iniziato a scrivere spy stories per passione sull’onda dei romanzi e dei film che mi avevano appassionato da ragazzo. Con gli anni sono arrivato a pensare che una ‘scuola italiana’, pur con le debite differenze tra i vari autori, debba realizzare proprio questo mix tra azione, avventura classica e attualità. E questo, dopo un primo momento, in cui ci si adatta a un nuovo modo di raccontare, offre un’infinità di possibilità di contaminazione tra realtà e finzione e tra generi. E non parlo solo per me. Oltre a Carlotto con cui non ho contatti personali, altri autori della cosiddetta Legione Straniera (la “famigerata” Italian Foreign Legion, il gruppo di autori italiani che pubblica su Segretissimo, ndr) condividono e sviluppano a loro modo questa visione. Parlo di Giancarlo Narciso di Andrea Carlo Cappi, di Alberto Custerlina. Ciascuno di noi ha il suo immaginario e vi pesca alla sua maniera, ma a guardarci bene una linea comune c’è.
Il parallelo tra te e Massimo Carlotto non è casuale: Carlotto opta per una scrittura essenziale e scarna, tu segui una via più epica, potremmo dire, barocca e avventurosa. Ma al di là dei codici espressivi, vi accomuna l’attenzione per l’attualità e la capacità di restituire un’idea unitaria del groviglio tra potere e malavita. E una attenzione particolare al crogiuolo mediterraneo. Mi sembra che Beirut: Gangwar muova in questa direzione.
SDM. Assolutamente, e forse anche nella trilogia di ‘Montecristo’ e in ‘Ora Zero’ e in ‘Sole di fuoco’ si avverte la voglia di raccontare, spettacolarizzandola, la nostra realtà italiana ed europea in maniera differente da quanto avviene nella narrativa anglosassone che ha differenti stimoli e codici espressivi.
Allo stesso modo non mi pare fuori luogo l’idea dei Wu Ming secondo i quali tutta una recente generazione di romanzieri italiani, magari diversissimi tra loro, che va dagli stessi Wu Ming, ai Genna, Scurati ed Evangelisti, siano accomunati da una attenzione verso i legami tra la Storia e l’attualità, trattate attraverso i generi e con una marcata dimensione autoriale. Anche i tuoi libri sono da annoverare tra le opere del New Italian Epic?
SDM. Sicuramente è lusinghiero che qualcuno lo pensi. Non credo che nessuno degli autori che citi scriva pensando di inserirsi in un filone, ma è evidente il forte legame che tutti sentono con la Storia. Ecco hai detto la parola giusta. Più che attualità direi che tutti noi si guardi alla Storia come sfondo a volte più o meno ravvicinato con le nostre storie di finzione. La Storia (come gioco del potere e di interessi globali più o meno sporchi) si interseca con vicende personali. Direi che in tutti si sviluppa un genere narrativo che è volutamente distaccato da psicologismi autoriali perché i personaggi sono talmente coinvolti in una vortice di azioni e interessi che le elucubrazioni tipiche di altre tradizioni letterarie e filoni passano in secondo piano. Questo non significa che i personaggi perdano di spessore. Il carattere emerge dalle azioni, dal contesto e della loro risposta a quello che accade.
Cosa pensi del mainstream che c’è in giro? Quali sono, se ce ne sono, gli autori o i libri, al di fuori dei generi, che apprezzi? Ci sono molti scrittori che hanno cominciato con i generi ma che poi hanno preso la tangente. E molti scrittori mainstream che si avvicinano volentieri ai generi. Due estremi su tutti: Giuseppe Genna e Cormac McCarthy.
SDM. In generale rifiuto abbastanza la divisione tra i generi, la tendenza ad etichettare, che ritengo più una classificazione da marketing che una reale differenza. Uno scrive un po’ la storia che sente. Certo poi devi trovare la collocazione in una collana, sugli scaffali delle librerie. Oggi per mainstream si intende quel genere di libro che va bene per tutti, nel senso che dovrebbe catturare un pubblico superiore a quello di nicchia. Non so, l’idea non mi piace. Un libro è buono o non lo è. Quando scelgo un libro da leggere non mi domando molto a che categoria appartiene (sagge parole, ndr). ‘Il ventre del lago’ (Boy’s Life) di McCammon era un romanzo mainstream su un ragazzo che voleva diventare scrittore o un horror del genere American Gothic ? Non lo so, l’ho amato moltissimo, così come recentemente mi ha appassionato ‘Il volo delle cicogne’ di Grangé che è un grande autore ma che sfugge le classificazioni troppo serrate. Guarda Ian Rankin: è stato lanciato come giallista ma nei suoi romanzi c’è davvero di tutto, dalla storia di Edimburgo, al noir, ai fumetti, i videogiochi, la musica. E la birra, ovviamente. Diresti che è mainstream? Forse l’idea di un genere allargato non funziona sempre, o non per tutti i pubblici. Rankin infatti vende benissimo in tutto il mondo ma in Italia stenta. E non perché sia un autore di nicchia, paradossalmente perché affronta con specificità troppi argomenti perché quel lettore medio, che il commerciale della casa editrice considera pubblico “mainstream”, riesca ad apprezzarlo.
Permettimi una provocazione. C’è chi pensa che il modo di trattare certe tematiche SIA ANCHE una questione “politica” e “ideologica”. L’orrore di una guerra e per tutto ciò che ne deriva, per alcuni, andrebbe trattato in modo scarno, senza orpelli. Nella scuola di cui tu sei il capofila abbondano dettagli a un livello spesso feticistico su armi e i loro devastanti effetti, combattimenti corpo a corpo, rapporti sessuali violenti, personaggi negativi, caratterizzati secondo una grandéur mitica. Dai poco peso ai risvolti ideologici e politici delle tue creazioni, cercando di mettere in risalto gli aspetti avventurosi ed escapisti o si tratta semplicemente di una visione più nichilista e disincantata delle cose umane?
SDM. Prima di tutto, io scrivo narrativa d’intrattenimento che ha comunque un suo codice sia al cinema che nelle pagine dei romanzi. Mi sento molto vicino a uno dei grandi anarchici del cinema, Sam Peckinpah, che creò una vera e propria estetica della violenza e non per questo la esaltava nella vita reale. Come diceva Hugo Pratt, raccontare le storie di Corto non vuol essere uno stimolo alla violenza diretta. Come tutti ho le mie idee politiche che però sono cosa mia e cerco di tenere lontano dal mio lavoro. Sono contrario a fare militanza attraverso la narrativa. Però certe posizioni di Chance sulla guerra in Iraq sono sin troppo chiare (in ‘La vendetta del Marsigliese’, nel colloquio con Zirkov per esempio...) ma non molto di più. In fin dei conti il Chance e quanti - amici o nemici - lo circondano, rischia la vita per guadagnarsi da vivere. È cresciuto così e tempo per dibattiti politici non ne ha. È logico che chi vive in un certo ambiente e si abitua alla violenza senta una certa fascinazione per certe cose, per un certo tipo di vita. Non sono esempi da seguire, sono figure e situazioni catartiche. In questo senso il narratore diventa come uno specchio d’acqua che riflette senza commentare ciò che gli passa davanti. Alla fine penso che questo tipo di violenza non sia così pericoloso perché è grafica, c’è una patina percettibile tra la realtà e la finzione. Trovo molto più disturbanti programmi televisivi che sin dal titolo alludono all’amicizia e poi ti mettono dei ragazzini di fronte a stimoli emotivi di competizione che non riescono a gestire di fronte a milioni di telespettatori. Mi è capitato per caso di vedere una puntata di uno di questo programmi che non per nulla sono reality dove poco ci mancava che mettessero in mano un coltello a ‘sti poveracci. Sono visioni che ti scuotono perché, se uno si lascia agganciare, finisce sempre per prendere le parti di uno o dell’altra e senza accorgersene accumula aggressività. Invece con Il Professionista c’è sempre una conclusione della situazione inventata. Al termine della lettura la polvere si deposita sui cadaveri. È come se tutti i protagonisti si alzassero e andassero a farsi una birra insieme.
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