Vi sono film che appaiono come libri aperti dinanzi allo spettatore, pregni di un’attualità che lascia interdetti inizialmente, e che, successivamente, fiorisce nei nostri occhi marcendo nella nostra bocca. Una morale che, indubbiamente, appare spesso come una fucilata prodotta da una lupara a distanza ravvicinata in pieno volto, che non lacera, devasta piuttosto, alla quale si risponde il più delle volte semplicemente con un nero silenzio, nutrito di vuoto.
E’ il caso del film All the king’s men, opera cinematografica di Steven Zaillian presentata nel 2006, nuovo adattamento del romanzo di Robert Penn Warren datato 1946 (e vincitore del prestigioso premio Pulitzer), che vede muoversi, sullo scenario di una sconosciuta Louisiana, un memorabile Sean Penn (che dopo film quali Mystic River, Dead Man Walking e 21 Grams è corretto reputare il De Niro del nuovo millennio) nei panni del governatore della contea, Willie Stark, e nell’interpretazione dell’ascesa e caduta di questi, del suo breve “rise and fall”. La salita al potere di un uomo dunque che, partendo da basi più che concrete, dalla sofferente Louisiana popolata da “zotici”, come li definisce lui stesso in diversi splendidi discorsi, diviene, grazie ad un colpo di testa contro coloro che lo volevano manipolare, un uomo talmente potente da potersi mettere contro i suoi stessi iniziali sostenitori. Una menzione particolare merita certamente anche Anthony Hopkins, impeccabile come sempre.
Anche se vi è una piccola differenza cronologica, dato che mentre il libro ambienta la vicenda negli anni della Grande Depressione (1929-1930), il film la svolge durante i primi anni Cinquanta, la figura di Willie Stark rappresenta, a metà fra cinico ciarlatano e folle idealista, una persona in grado di poter dare filo da torcere alla moderna aristocrazia che dominava l’America verso la prima metà del ventesimo secolo. Ma “All the king’s men” è anche opera nella quale viene mostrato come il potere possa cambiare radicalmente un uomo, trasfigurarlo addirittura: difatti da figura inizialmente positiva, il governatore diviene simbolo, fotografia sbiadita della persona che inizialmente ci era stata proposta, ponendo lo spettatore in una costante dicotomia fra la stima verso il personaggio e la condanna di alcuni comportamenti. La domanda che sorge alla fine del film è probabilmente quanto sia possibile concepire un potere, la gestione di un potere, scevro da corruzione, nella società odierna. E la risposta è purtroppo negativa ed amara: quando difatti si realizza che il passaggio attraverso la corruzione è necessario anche semplicemente per portare a compimento qualcosa che inizialmente era stato concepito per recare del bene, è normale che un velo di tristezza scenda sugli occhi di chi è dinanzi allo schermo. Eppure la figura del governatore non appare mai come esclusivamente negativa, anzi, diviene simbolo, emblema di un mondo nel quale “cane mangia cane”, e nel quale la legge del più forte spesso è in grado di contagiare anche persone che apparentemente ne erano estranee. L’adattabilità, la capacità di molti esseri umani, spesso dettata da esasperazione, di adattarsi alle circostanze che si pongono dinanzi, spesso divenendo vittime del contingente: questa forse una possibile ermeneutica del senso ultimo di questo, grande, film.
Una fotografia dunque in bianco e nero, con delle venature rosse, riposta in un cassetto, che da sola narra la vicenda di un uomo che per fare del bene fu costretto a sporcarsi le mani e divenire necessariamente parte del male, di quel marciume che decise di combattere.
Fuori da una finestra dai vetri appannati osserviamo il mondo nel suo continuo fluire, incessante ed inesorabile. Nel momento in cui cerchiamo di bloccare questo movimento, nel momento in cui cerchiamo di impedire alla pioggia di crollare su una terra satura, non possiamo fare a meno di bagnarci.
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