Siamo nel 1988 nella Bassa cremonese durante le celebrazioni del quinto centenario della stampa della Bibbia ebraica, curata proprio lì nel 1488 da Joshua Natan: è il momento in cui si decidono i destini dei personaggi de “Il libro di Baruc” di Lucio Dall’Angelo e Aldo Sorlini, «due autori bresciani i vincitori dell’edizione ’94 del premio “Alberto Tedeschi” per il miglior romanzo giallo inedito», come recita l’incipit del trafiletto che il Corriere della Sera dedicò loro il 13 dicembre 1994.
Mettiamo subito in chiaro che il “Libro di Baruc” citato per tutto il romanzo non è affatto uno pseudobiblion: esiste eccome e lo si può trovare in una qualsiasi Bibbia cristiana... ma non ebraica. Da quest’ultima, infatti, è stato espunto insieme ad altri testi semplicemente perché non si conoscono versioni ebraiche precedenti a quelle greche, e qui entra in ballo il gioco degli pseudobiblia: Dall’Angelo e Sorlini si inventano il ritrovamento fenomenale di un originale ebraico del “Baruc”, il quale minerebbe dalle fondamenta molte scelte religiose. Ma andiamo con ordine.
Nella parte storica del romanzo scopriamo che l’antichissimo monastero di Santicolo ospitò, nel 1321, un certo Balthasar di Colonia che rischiava di soccombere al maltempo: come ringraziamento egli «donò al priore una Bibbia ebraica che la tradizione faceva risalire alle comunità greco-romane della chiesa delle origini». Da allora divenne tradizione per tutti i viandanti portare in dono al monastero libri o anche solo frammenti della Bibbia: i buoni monaci non facevano questioni sull’autenticità dei doni, ed archiviavano tutto. Solo nel Quattrocento, con il Concilio di Trento, si mise ordine nell’archivio del monastero.
Secoli dopo, nel 1970, alcuni ricercatori ritrovano questa donazione: «Francesco non credeva ai suoi occhi. Là in alto c’erano solo tre fogli vergati a mano. Li prese e dovette afferrarsi allo scaffale per non precipitare al suolo. “È la preghiera, la preghiera del Libro di Baruc. È in ebraico, in ebraico” gridò.» I giovani però decidono di non cedere all’entusiasmo: il ritrovamento deve essere studiato prima di poter trarne conclusioni. «Ci siamo fatti prendere la mano - dice ad un certo punto uno di loro. - Abbiamo pensato di poter cambiare le regole di millenni di cristianesimo. Quattro giovani mettono in discussione il Canone degli ebrei di Palestina. Il Libro di Baruc vi deve rientrare. Abbiamo peccato di presunzione. E voi sapete quanto la presunzione accechi, trasformando fole in verità. Con ogni probabilità quel manoscritto è un falso. Ma se anche non lo fosse deciderne la sorte non tocca a noi.»
Ma chi ha cancellato l’annotazione del dono fatto al monastero? Chi ha interesse a tenere nascosto il “Baruc”? Dopo quasi vent’anni, durante le citate celebrazioni, i nodi verranno al pettine, non prima di aver mietuto vittime umane.
Il romanzo vince il Premio Alberto Tedeschi nel 1994, e viene pubblicato lo stesso anno ne Il Giallo Mondadori n. 2392.
Merita una citazione “L’intermediario” (No Questions Asked, 1976), titolo appartenente alla serie di romanzi gialli che hanno per protagonista Philip St. Yves e firmati da Ross Thomas con lo pseudonimo di Oliver Bleeck. Ricordiamo che il personaggio citato venne portato sullo schermo da Charles Bronson nel film “Candidato all’obitorio” (St. Ives, 1976) di John Lee Thompson, basato sul secondo episodio della saga scritta da Bleeck.
Pare superfluo specificare che la Naturalis Historia pliniana, risalente al primo secolo d.C., esiste realmente: è “falsa” solo l’edizione inventata per questo romanzo, il cui valore verrà snocciolato a suon di dollari: cinquecentomila, settecentocinquantamila, se rovinato forse trecentomila o più, o forse meno... mai una volta viene spesa una parolina per
L’autore non sembra crucciarsi che un’opera così rara sia stata rovinata per sempre, men che meno i suoi personaggi: addirittura ci scappa l’happy ending quando un «ricco e strambo» collezionista compra l’opera di Plinio sebbene “bucata”, così i derubati non avranno perso neanche un dollaro. Un libro totalmente privo di un qualsiasi vago senso di bibliofilia, qualità che invece ha arricchito tanti altri autori che hanno saputo sposare il poliziesco ad un pizzico di gioco letterario.
Il romanzo giallo “Scritto col sangue” (An Infinite Numer of Monkeys, 1987) dell'ex sceneggiatore hollywoodiano Les Roberts non si distingue minimamente da un qualsiasi altro romanzo, di qualsiasi anno, con protagonista un investigatore privato, però merita una menzione per la presenza di un personaggio particolare.
Si chiama Buck Weldon ed è un famosissimo scrittore di Los Angeles. Decenni prima della storia narrata egli ha iniziato a pubblicare dei romanzi d’azione con protagonista il duro Bart Steele, ricchi di violenza e sesso (in un’epoca in cui erano entrambi proibiti nei media): il successo incredibile ha reso ricco l’autore, ma non soddisfatto. Weldon infatti ha sempre voluto
È ora il momento di fare conoscenza con lo pseudobiblion del romanzo. «Avete letto il mio ultimo libro?» chiede Walden al protagonista: il libro in questione si intitola “L’angelo della vendetta”. «Quello è il titolo del mio editore. Fa schifo.» In effetti il brano che viene citato non è dei migliori: «Mirai al naso e quando lo colpii con il pugno lo spappolai sul suo faccione. Sentii il sangue e il muco sulle nocche delle dita. Lui incrociò gli occhi come se volesse guardarsi la punta del naso, ma non l’aveva più. Gli rimaneva solo una polpa spiattellata.»
Come dicevamo, c’è anche il sesso. «Lasciò scivolare gli slip bianchi e minuti fino alla fine delle sue lunghissime gambe e da come ne uscì fuori capii che doveva averlo fatto un mucchio di volte. Era completamente nuda e alla luce della candela il suo pube biondo prendeva un colore oro brunito.»
Les Roberts non si azzarda a riportare invece un brano di uno dei libri “colti” di Kale, di cui cita solo il titolo “Monti d’argento”, mentre cita di sfuggita il primo titolo della serie di Bart Steele: “Blu Cobalto”.
Diretto niente meno che da Steven Spielberg, “Un giallo da manuale” (del 1971 ma arrivato in Italia la prima volta nel 1978) è scritto da Steven Bochco, all’epoca ancora agli esordi come sceneggiatore ma che scriverà in seguito episodi per moltissime serie celebri come “Ironside”, “Avvocati a Los Angeles”, “NYPD Blue” e tanti altri.
Ad un certo punto, l’equilibrio si spezza. Jim decide di abbandonare la letteratura gialla «per scrivere qualcosa di serio» in solitaria, e così d’un tratto il socio Ken si ritrova nei guai: non essendo infatti in grado di scrivere per vivere, dovrà rinunciare all’elevato stile di vita a cui è abituato... o forse no? La soluzione è “fermare” l’amico Jim prima che questa separazione avvenga, così da poter contare sia su un’assicurazione che sui diritti d’autore. Ma Ken non ha fatto i conti con il cocciuto tenente Colombo (Peter Falk).
Nell’ufficio dei due scrittori ci sono copertine dei loro romanzi appesi alle pareti, da cui leggiamo “Mrs Melville in London”, “Miss Melville’s Favorite Murder” e “Death of Mrs Melville”. Poi Ken regala un libro con dedica a quella che sarà uno scomodo testimone del delitto: il titolo che si legge sulla copertina è “Mrs. Melville. Prescription: Murder”, ma il doppiaggio italiano l’ha ribattezzato “Delitto su ordinazione”.
Chiudiamo questa rassegna di pseudobiblia in giallo - anche se altri titoli verranno presentati in futuro, in ordine sparso - con una citazione proprio dall’episodio del tenente Colombo: «Nell’anima degli scrittori di gialli è sempre mezzanotte in punto»: l’ora migliore per creare libri che non esistono.
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