Il dilemma è sempre lo stesso: è meglio vedere prima il film e poi leggere il romanzo dal quale la sceneggiatura è tratta, o leggere prima e vedere dopo (la terza ipotesi, quella del vedere senza leggere è neutralizzata dal suo contrario, e cioè leggere senza vedere…)?
Stavolta, in parte il caso, in parte l’abitudine, hanno deciso a favore prima della lettura di Shutter Island, romanzo di Dennis Lehane (già autore di Mystic River portato sullo schermo da Clint Eastwood) e poi della visione del film omonimo che Martin Scorsese ne ha tratto affidando per la quarta volta il ruolo principale a colui che pare proprio aver preso il posto occupato una volta da Robert De Niro, cioè Leonardo di Caprio.
È risaputo che le trasposizioni cinematografiche capaci di regalare le stesse emozioni del romanzo cartaceo sono merce rara, e anche stavolta la regola che vede il film arrancare a fatica dietro il romanzo è purtroppo rispettata. (Stanley Kubrick è stato uno dei pochi capaci a far dimenticare l’origine letteraria dei suoi film…),
Sarà perché il romanzo di Lehane è molto intrigante e ben scritto sebbene non particolarmente originale (leggere e chi non lo ha ancora fatto lo faccia perché ne vale la pena, Tempo fuori luogo di Philipp K. Dick), ma il film di Scorsese pur rimanendo in larga parte fedele al testo di partenza non riesce a ricreare la magia che Lehane impone alla narrazione dando vita ad un mondo dove il centro della scena è occupato da due coppie di personaggi: i poliziotti Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio) e Chuck Aule (Mark Ruffalo), e due psichiatri, il Dottor John Cawley (Ben Kingsley), e il Dottor Jeremiah Naehring (Max von Sydow), i primi alla ricerca di una paziente scomparsa da un manicomio criminale collocato su di un’isola, i secondi in parte restii in parte desiderosi di dare una mano ai primi ma in realtà molto più interessati al comportamento dei due agenti durante le indagini.
Nel romanzo trovano spazio diversi conflitti: psichiatria tradizionale (farmaci) contro l’antipsichiatria (non il farmaco ma il paziente, non il sintomo ma la sua personalità), colpe personali, collocabili nella cerchia famigliare contro colpe collettive situate in scenari più ampi (
la II Guerra Mondiale), ma in particolare due differenti modi di combattere il dolore suscitato dal Male, dolore che attanaglia l’anima, il primo che cerca di rimuoverne la causa (il massacro dei guardiani nazisti di Dachau), il secondo che preferisce schivarlo rifugiandosi nella malattia.
Il film di Scorsese non riesce in pieno a restituire la complessità del panorama conflittuale, forse perché la narrazione dei fatti risente di un andamento molto schematico affidato a blocchi narrativi poco collegati tra loro.
Non stupisce allora che l’arrivo del twist ending, con il ribaltamento assoluto dei ruoli (chi è ad indagare realmente e chi l’indagato?) più che produrre un effetto sorpresa genera al contrario un senso di liberazione da una storia che ha peccato per difetto anche su quello che doveva essere il “pezzo forte” del film, cioè la discesa agli inferi di Di Caprio/Teddy Daniels, antieroe che alla fine, metà perduto, metà salvato, fa solo tenerezza, operazione che al contrario rivela molto di più, se ci è concesso, su un certo sadismo con il quale Scorsese ha diretto il suo alter ego non risparmiandogli un vero e proprio percorso di guerra fisico-emotivo incessante, mentre forse sarebbe stato meglio un crescendo meglio orchestrato (senza contare che la bravura di Di Caprio non cancella del tutto la sensazione che non sempre abbia il physique du rôle per i ruoli che Scorsese gli assegna…).
Certo lo sfondo della vicenda è di quelli che non passano inosservati (Dante Ferretti alle scenografie) il che tradotto si materializza sotto forma di interni inquietanti e di esterni inospitali con la conseguenza che si è continuamente in fuga e dall’uno e dall’altro.
Un luogo isolato, il contatto con la realtà che vacilla, un finale che sembra chiuso ma che una domanda “Cos’è peggio, vivere da mostro o morire da uomo per bene?” lascia in sospeso, erano tutti elementi che conducevano dalle parti di un opera importante (Shining, per rintracciare un precursore illustre…), e invece poco o nulla (e poi nulla ci toglie dalla testa che le pistole ad acqua che in quanto tali schizzano acqua, sono meglio delle pistole caricate a salve…).
Presentato in concorso al 60 Festival del Cinema di Berlino.
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