Nel precedente articolo di questa rubrica abbiamo conosciuto un recente adattamento cinematografico di un romanzo degli autori russi Arkadij e Boris Natanovič Strugackij (o Strugatsky nell’accezione anglofona), fra i maggiori esponenti della fantascienza (sovietica e non): “The Inhabited Island” di Fëdor Bondarchuk, tratto dal romanzo omonimo (e purtroppo inedito in Italia). Un terrestre cade su un pianeta lontano e schiavo di una dittatura militare: da solo riuscirà ad organizzare i ribelli e far insorgere i sottomessi, prendendosi la responsabilità di sovvertire l’equilibrio di un’intera civiltà. Nel 1989 è stato girato un altro adattamento di un romanzo dei fratelli Strugatsky che tratta un tema simile: la responsabilità. È un film molto diverso da quello di Bondarchuk, ma lo stesso di forte impatto visivo e soprattutto di grande spessore. Mentre il Maksim di “The Inhabited Island” prende su di sé con molta facilità l’onere di rivoluzionare un intero mondo, Anton invece sente che... è molto difficile essere un dio...
“Es ist nicht leicht ein Gott zu sein” è una co-produzione russo-franco-tedesca del 1989. Originariamente gli stessi fratelli Strugatsky dovevano curare la riduzione in sceneggiatura del loro romanzo del 1964 “È difficile essere un dio” (Трудно быть богом - Trùdna biz bagòm, edito in Italia da Urania Mondadori prima nella serie madre, n. 1109, e poi nei Classici, n. 232), ma per farlo chiesero che il film fosse diretto da un regista sovietico, come Aleksej German. Quando invece venne chiamato alla regia il tedesco Peter Fleischmann, autore notoriamente “intrattabile”, gli scrittori russi si ritirarono dal progetto, ed in seguito non ebbero mai parole positive per il film girato. Lo stesso anno, poi, per “ripicca” scrissero “Без оружия” (Bez oruzhia - Senza armi), pièce teatrale che condensava il loro romanzo.
Fleischmann stesso lavorò alla sceneggiatura del film, affiancato dall’esperto sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière. Il regista russo German evidentemente non rinunciò mai all’idea di dirigere un adattamento del romanzo, tanto che dal 2006 ha iniziato le riprese di un progetto che però, a tutto il 2010, ancora non ha visto la luce: “История арканарской резни” (Istoriya arkanarskoy rezni - Storia del massacro di Arkanar), una versione moderna russa del detto romanzo.
Il film di Fleiscmann viene presentato nel 1989 al Festival del Cinema di Venezia, mentre l’accoppiata di sceneggiatori e la colonna sonora vengono premiati al Catalonian International Film Festival nel 1990; l’anno successivo il festival portoghese Fantasporto premia sia il regista che gli effetti speciali.
In un lontano futuro gli abitanti della Terra vivono in pace ed armonia fra di loro: niente più guerre, niente più violenza. Un giorno viene scoperto un lontano pianeta abitato anch’esso da esseri umani, ma ad uno stadio primitivo di civiltà, quello cioè corrispondente al Medioevo terrestre. Gli storici della Terra si chiedono: quale miglior occasione di studiare le nostre origini? Quale miglior occasione di seguire il lento processo storico dalla barbarie alla civiltà? Un gruppo di osservatori viene quindi inviato di nascosto sul pianeta: si dovranno confondere fra la popolazione e studiare usi e costumi.
Per un popolo che ha ormai dimenticato la violenza, venire a contatto con la brutalità umana sarà un’esperienza devastante. Quando uno di questi osservatori, Mita (interpretato dal celebre regista tedesco Werner Herzog), viene fatto prigioniero ed accusato di tradimento, lo studioso Anton (Edward Zentara) indossa i panni del nobile don Rumata ed entra nella città di Arkanar per liberare l’amico, nonché studiare il grado di avanzamento culturale della popolazione. È vero, ci sono passi in avanti, addirittura uno degli abitanti ha inventato la macchina da stampa e un altro il telescopio... ma tutto è vano di fronte alla cieca violenza e all’orgia del potere. Il viscido Reba (Aleksandr Filippenko) sta macchinando un colpo di stato per avere su di sé sia il potere temporale che spirituale, ed ha tutto l’interesse che la popolazione rimanga ad uno stato di barbarie primitiva.
Anton potrebbe far ricorso alla tecnologia moderna della Terra per risolvere la situazione... ma “risolvere” significa spazzare via gli eserciti di Reba, significa usare la violenza, significa abbassarsi al livello dei barbari locali. Anton è come un dio per la popolazione di Arkanar, ma dovrà scegliere quale dio essere: un dio violento e vendicativo, che semina morte e distruzione, o un dio silenzioso, che sta a guardare impassibile il male che dilaga.
«Il tuo regno non viene / e la tua volontà non è stata fatta, / né in Cielo / né tanto meno in terra: / è difficile essere un dio». Questa citazione dalla canzone “Es ist nicht leicht ein Gott zu sein” (o più semplicemente Gott Sein, 1997) dei Megaherz sembra illustrare alla perfezione il tema del romanzo e del film in questione. Al contrario di quanto gli studiosi terrestri si aspettavano, la popolazione di Arkanar non dà segni di seguire la stessa evoluzione storica avvenuta sulla Terra: dal loro Medioevo sembrano non voler proprio uscire, così come nel romanzo e film precedentemente trattati, “The Inhabited Island”, la popolazione non dava segni di voler insorgere contro la dittatura che la soggiogava. Serve un esterno, un diverso... un dio, per poter cambiare le cose.
Maksim, come abbiamo visto, accetta di buon grado di essere un dio e subito, appena atterrato, agita le acque e sprona la gente a ribellarsi. Anton è dilaniato dalla responsabilità del suo ruolo: non vuole interferire con gli abitanti di Arkanar, ma allo stesso tempo non sopporta la vita sul pianeta e vorrebbe modificarla. Nel romanzo il personaggio soffre molto di più che nel film: tutto, dall’odore che emanano le persone alla scomodità dei vestiti, è insopportabile per Anton, e niente lo farebbe più felice che vedere quei barbari evolversi in persone civili... ma quando capisce che questo potrà accadere solo tarmite forti dosi di violenza e morte, il conflitto interiore cresce ancora di più.
Come abbiamo detto, Anton è un dio per la popolazione del pianeta, ma ben presto scopre che (va ripetuto) non è affatto facile esserlo! Un dio non si mostra agli uomini, ed infatti lui deve sempre nascondersi dietro i panni di don Rumata; un dio non si intromette in faccende umane, ed infatti lui è costretto a non intervenire mai; un dio lascia il libero arbitrio, come infatti Anton è costretto a fare. Ma quand’è che un dio aiuta gli uomini? Non può farlo, perché l’unico modo per farlo è scendere in mezzo al fango insieme a loro, e in quel momento esatto cessa di essere un dio...
Nel momento esatto in cui Anton scopre le proprie armi, in cui usa un modernissimo e supertecnologico raggio laser, in cui si mostra per quello che è, smette istantaneamente di essere un dio: ha svelato le proprie armi, ha ceduto alla violenza, ha odiato, è sceso nel fango insieme agli uomini per lottare con loro... l’ha fatto per il loro bene, è vero, ma ora ormai non è più un dio, è solo un altro uomo nel fango. Mentre il Maksim di “The Inhabited Island” accetta, fors’anche incoscientemente, la responsabilità di un intero pianeta su di sé, Anton non ci riesce: si fissa sul particolare, prende a cuore singole persone e invece di pensare al bene dell’intera umanità (come farebbe un dio) si fissa sul bene di poche persone: non pensa in grande e fallisce proprio per voler aiutare quegli uomini che ama tanto. Un dio, quindi, deve guardare impassibile le sofferenze umane, il dolore e la violenza; un dio deve tacere e lasciare che gli uomini vivano e muoiano nel fango... ecco perché è difficile essere un dio.
Un film indimenticabile, intenso e di largo respiro (128 minuti, ma sembra esistano versioni molto più estese), girato con mano sicura fra le meraviglie naturali del deserto asiatico, alternando scenografie sontuosamente scarne a costumi sobriamente ricchi. Attori bravissimi, dal primo all’ultimo, completano un’opera unica nel suo genere e che forse, da quel lontano 1989 in cui si affacciò timidamente a Venezia, meriterebbe un’edizione italiana.
Merita in chiusura una nota di colore. Nel 2008 la Ubisoft ha distribuito un videogioco chiamato “Hard to be a God” ed ispirato dichiaratamente al romanzo dei fratelli Strugatsky.
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