Un bimbo, prima. Un ragazzo, poi. Un uomo, infine, che conserva ancora, dell’infanzia, la logica di un buonsenso primordiale. Questo è Bastiano, protagonista de I Cariolanti di Sacha Naspini, creatura silvestre costretta a vivere come gli ha imposto una povertà che non ammette reclami. La buca che appare in copertina come antro infernale è il portone d’ingresso della caverna dove il piccolo cresce. Un espediente ideato dal padre disertore, ma anche imposto dalla povertà, quella più nera che fa patire la fame, «quella che neanche ti fa dormire e se per caso ci riesci non fai che sognare quello: di mangiare. La fame quella che ti fa impazzire tanto che cominci a guardare il secchio di bisogni, o scavi con un dito per terra, in mezzo a una fessura delle tavole, alle volte ti capitasse un baco tra le mani.»
Uno scorcio di storia che attraversa la tragedia delle due guerre mondiali, l’uomo appiattito allo stato più brado, più animalesco, l’uomo degli istinti primari –ripararsi mangiare sopravvivere–, che si piega al cannibalismo così come ad altri compromessi grotteschi ma inevitabili. Lascia senza parole, Bastiano, lui che di parole ne dice poche e che ha imparato a contare usando i denti degli animali sbranati. E quando cresce e viene considerato ritardato –e quando davvero lo diventa, il lettore s’avvede che è solo il sedimentarsi dei traumi infiniti– ricorda un po’ Rosso Malpelo, reietto per destinazione, anche se Bastiano ha i capelli neri e gli occhi verdi e criptici come un gatto. La sua comunicazione è sempre interrotta dal dramma che lo sovrasta, dall’incomprensione, dall’incapacità, dalla sua irruenza, dalla chiusura dell’altro. Perfino quando Bastiano, così selvaggio, si ingentilisce del sentimento dell’amore, e allora Naspini passa disinvolto dalla crudezza più esasperata della miseria alla propulsione magica e lo fa attraverso le espressioni potenti del suo personaggio: «Mi bastava sentire quell’odore di pulito che aveva sempre addosso e subito non ci capivo più niente. Mi veniva su qualcosa dalla pancia, tipo si spalancava un burrone simile a quello che si sente quando si muore di fame. Una cosa che avrei voluto fare da morire era prendere Sara, farla diventare piccina così e metterla lì dentro, a tappare quel burrone che sentivo nella pancia.»
Tra le altre cose, un plauso a questo scrittore grossetano, classe 1976, per aver utilizzato una lingua perfettamente plasmata a una storia rabbiosa, il pensiero scorre con naturalezza, osserva, ragiona ed esplode solo nella mente del lettore. Anche in virtù di quella prima persona rivolta a un tu differente a seconda dei capitoli (il destinatario, la madre, il padre), che scatena un processo empatico.
Altro merito rilevante è la capacità dello scrittore di proiettare chi legge nelle atmosfere di un’inedia senza limiti, che davvero qualcuno deve aver conosciuto all’ombra di una prima metà Novecento. E allora ci si avvicina a questo senso dell’essere miserabile, anche se non lo si può capire appieno, come Bastiano a ragione precisa: «Tu mica lo sai che vuol dire nascere di traverso.»
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID