Agli esordi quasi tutti si cimentano con storie singole e autoconclusive. Forse perché sembra più autoriale o semplicemente per insicurezza. Non si sa se si avrà mai l’occasione di scrivere un altro romanzo, per cui uno cerca di restare sul terreno sicuro della vicenda “chiusa”. Personalmente, essendo cresciuto un po’ con la vocazione del narratore pulp avevo in testa altri modelli da Salgari, a Fleming, da McBain ai vari serial pubblicati su Segretissimo. Da quando ho iniziato a scrivere regolarmente (non a essere pubblicato) ossia dai tredici–quattorici anni circa, ho sempre visto le mie storie come parte di una serie. Al mio esordio nel 1990, però, un po’ perché così era imposto dall’editore che voleva una storia singola per una collana specifica ( ‘Per il sangue versato’, Nero Italiano 1990) mi sono mosso come prudenza raccomandava e, in seguito, ho scritto moltissimi romanzi che sono rimasti storie a sé, autoconclusive. Sono passati vent’anni e ho pubblicato 60 romanzi e un gran numero di racconti e anche se un “poveretto” scrive su Nazione Indiana che non ha capito cosa faccio ( Il pugile!) ho una certa idea della direzione che ha preso il mio lavoro. L’idea di collegare tutto, di trovare fili rossi che solo il lettore fedele (quello popolare che legge per essere intrattenuto e ti segue nel tempo ) riesce a individuare non mi ha mai abbandonato. Sono in buona compagnia, comunque. Andrea Carlo Cappi condivide con me questo genere di visione narrativa. Come diceva il suo ex socio “a noi ci piace fare le saghe”. Ma, a ben vedere, c’è un filo che unisce anche tutto il lavoro di Altieri, di Evangelisti e di tanti altri, Narciso in testa che mescola abilmente le carte facendo incontrare Banshee e Bianchardi in numerose occasioni. È, credo, la tentazione del narratore di crearsi un mondo suo dove tutto ha una sua coerenza, le persone cambiano ma finiscono sempre per incontrarsi (se sopravvivono). È, a mio avviso, anche la cifra stilistica di chi tiene fondamentalmente a narrare, a divertire, appassionare. E niente appassiona di più che seguire la vita di un certo numero di personaggi nella sua evoluzione. Vogliamo essere banali? Un reality show, un Grande Fratello narrativo che, prima di ogni altra cosa, risulta divertente per chi scrive. Fatta tale premessa è possibile, nel corso di queste nostre chiacchierate sul noir e dintorni, stabilire una differenza formale tra la “saga” appunto e la “miniserie” e il Serial vero e proprio. Questo è composto di episodi più o meno autoconclusivi, con una sua continuity ma non ha una durata prestabilita o fissa nel tempo. Sarà l’argomento di una delle prossime puntate quando ci occuperemo del Professionista per i suoi 15 anni di vita letteraria. La ‘saga’ ha invece un carattere più erratico, anarchico, forse non nasce neppure per essere tale. Riguardando lo scaffale con i miei lavori vedo io stesso tracce di un legame che unisce numerosi libri scritti nel corso degli anni. Mi piace pensare a questo succedersi di avventure con personaggi che ritornano, a volte protagonisti a volte comprimari, come diverse ‘stagioni’ al pari di quelle serie televisive che da un po’ di anni ci martellano suggerendo scansioni narrative spesso fuori dagli schemi di quello che un tempo era lo show, una formula che prevedeva una semplice ripetizione di format. ‘Colombo’, per esempio, era il classico show televisivo. ‘24’, ‘The Shield’ li vedo più come saghe a sé. Ma anche le storie di Sandokan o del Corsaro Nero erano saghe e non serial come invece è SAS che dopo più di 180 avventure è diventato un appuntamento cristallizzato anche se molto piacevole per chi apprezza il filone. Facendo un passo indietro torno con la memoria ai primi anni ‘80. Tempi di assidue frequentazioni thailandesi sulla scia dell’entusiasmo per la Thaiboxe che praticavo da allora giovane tigrotto, della passione per l’Indocina, la suggestione salgariana ma anche dei romanzi di Lustbader. In questo contesto però s’inseriva anche un già fervente interesse per il nero francese nella sua declinazione più criminale (LeBreton, Melville) soprattutto una serie di circostanze che, dalla lettura del ‘Clan dei corsi’ e del suo inedito (in Italia ) seguito ‘Corsican Honor’ mi portarono a trascorrere diverso tempo in Corsica, questa volta in barca a vela. Stavo, probabilmente senza accorgermene, mettendo le basi per quella che sarebbe stata la mia ‘mitologia’, la base per il corpus di racconti e romanzi che avrei sviluppato in seguito. Se ne trova traccia in un breve racconto che segnò il mio esordio su Segretissimo “Profumo di pesco” pubblicato nel 1985 e ristampato nel volume ‘Lo Straniero ’ dalle edizioni Scudo proprio quest’anno. In quel periodo scrissi anche un’altra storia che avrebbe profondamente segnato tutta la mia produzione successiva. S’intitolava ‘Faccia di pietra’ ed era un racconto di una 30 di cartelle battute ancora a macchina. Era una storia di vendetta tra corsi che si svolgeva quasi tutta in Asia e riproponeva un attraversamento del Kalimantan alla ricerca di un tesoro rimasto sepolto nella giungla per vent’anni dopo la guerra del Vietnam. Ma il fulcro era la vendetta di un sicario corso che i era rifatto il viso per punire l’assassino della sua famiglia. Marc Bastien era ricorso alle cure di un praticone genovese che aveva eseguito una maldestra operazione lasciandolo con un viso immobile, una faccia di pietra, appunto. Il racconto rimase lì per diversi anni. Poi, dopo “Per il sangue versato” e altre prove più brevi, cominciò a germogliare l’idea di farne una storia più lunga e complessa. “Diecimila anime d’acciaio”, questo era il titolo originale che avevo concepito pensando alla forgiatura di un pugnale corso che rappresentava la vendetta, elemento dominante di una storia che cominciava a essere soprattutto un nero-tropicale, un western-spionistico... molte cose insomma. Dal nucleo della storia ricostruii l’antefatto in Corsica e, prima ancora la ricostruzione dell’ultima notte di Saigon in cui si fondevano diversi destini, il tesoro del Sud Vietnam, un prezioso documento spionistico insomma tutta una serie di elementi che davano carburante a una grande avventura. Ricerche, approfondimenti. C’era persino un brano di storia in Italia, in una Genova livida e cupa. Poi la vicenda si trasferiva a Hong Kong da sempre orizzonte sognato di ogni mia avventura. E qui insieme a Marc Bastien e al suo nemico Tazzi (credo uno dei miei migliori cattivi costruito con le fattezze di Lee Van Cleef) prendevano fisionomia altri personaggi. Un gruppo di bastardi che si odiano a morte ma sono costretti a collaborare per raggiungere uno scopo comune. Prima di tutto c’era Ermelinda Casillas, la donna guerriera. La costruii esattamente sul modello di una mia fiamma dell’epoca Ermelinda Fernandez, portoghese trasferitasi a Strasburgo, campionessa di Kickboxing. Una che a “ farci i guanti” ti suonava come un tamburo e mi ricordo un occhio nero a uno stage presso la mitica Panzà Gymnoteche nel 1988... però anche una ragazza a suo modo appassionata e dolcissima. Nel romanzo divenne immagine della donna indipendente, per metà cinese per esigenze di copione. Lei e Bastien sono i protagonisti di quella storia in cui però si inserivano molti altri personaggi. Il gangster sulla sedia a rotelle, il colonnello musulmano con il suo esercito privato, il reduce dal Vietnam che porta al collo una testa di scimmia, la regina delle piratersse. Insomma tutto un immaginario in cui spionaggio-nero criminale- avventura salgariana e western all’italiana trovavano una loro fusione. Se vi va poteva essere una riflessione sul filone. “Un romanzo di genere sul genere” era la mia intenzione allora che, ingenuamente, pensavo di aver trovato un editore in grado di valorizzare il mio lavoro. Ovviamente l’editor che accettò di pubblicarlo in prima battuta non ci capì una cippa. Lo fece leggere a un suo consulente che ‘forse’ aveva letto Smith e mi consigliava di accentuare la vicenda ‘rosa’ per venderlo come best seller. Mi guardai dal farlo. La vicenda era quella lì, con un po’ di romanticismo ma scandita da ritmi virili. Su altre cose più esteriori dovetti cedere, dopotutto venivo pubblicato negli Oscar bestseller e, sebbene si trattasse di collana economica, non c’era da sputarci sopra. Il titolo diventò ‘Pista cieca’ (non chiedetemi perché) e l’autore doveva essere straniero. Stephen Gunn nasce lì come Ben Gunn, abbandonato dai suoi compagni su un’isola deserta. Il romanzo, però, fu pubblicato nel 1993 e ristampato nel 1999 in SuperSegretissimo in una versione aggiornata nel linguaggio perché, nel frattempo, il mio stile si era affinato e, considerata l’importanza che aveva per me questo romanzo, volevo emendarlo da quelle ingenuità stilistiche che (in maniera molto educata e soprattutto con cognizione di causa) erano state evidenziate da Oreste Del Buono nella prima recensione a “Per il sangue versato”. ‘Pista cieca’ ha avuto una vicenda editoriale travagliatissima. Credo di averlo riscritto almeno sei volte e non sono certo di aver sempre operato per il meglio. Mi arrivavano pareri tecnici da vari editor che, oggi, considero emerite stupidaggini dette per disincentivarmi a continuare a scrivere. Ma io, come Faccia di Pietra, ero... duro come il muro. E il libro uscì in due edizioni, con parecchio gradimento del pubblico. Non sapevo, però, che sarebbe stato il primo capito lodi una lunga saga... ma questa, come si dice, è un’altra storia.