Siamo nel 1980 e un semiologo e filosofo italiano debutta con il suo primo romanzo: “Il nome della rosa”. L’autore è Umberto Eco, e in breve tempo il suo romanzo storico diventa un best-seller e la trasposizione cinematografica un cult movie. Già il romanzo potrebbe essere considerato di per sé uno pseudobiblion, per il semplice fatto che Eco dichiara di star riportando una storia trovata in un antico manoscritto medievale: sia la storia che il manoscritto non esistono, quindi il tutto potrebbe avere i requisiti per entrare in questa rubrica. Ma non è questo aspetto che vogliamo approfondire.
La biblioteca del monastero dov’è ambientata la storia, infatti, racchiude un grande segreto che Adso da Merk (l’autore del fantomatico manoscritto) e il suo maestro Guglielmo da Baskerville sono intenzionati a scoprire.
I due ascoltano quasi per caso le parole del capo bibliotecario, il cieco Jorge (Eco ama le citazioni, e visto che Jorge Luis Borges fu per vent’anni a capo di una biblioteca nazionale ed era cieco, il riferimento è ben chiaro!) «Jorge osservava che non è lecito ornare di immagini ridicole i libri che contengono la verità. E Venanzio osservò che lo stesso Aristotele aveva parlato delle arguzie e dei giochi di parole, come strumenti per scoprire meglio la verità, e che pertanto il riso non doveva essere cosa cattiva se poteva farsi veicolo di verità. Jorge osservò che, per quanto ricordava, Aristotele aveva parlato di queste cose nel libro della Poetica [...] Venanzio, che sapeva molto bene il greco, disse che Aristotele aveva dedicato specialmente al riso il secondo libro della Poetica».
Qui c’è tutto il fulcro del romanzo.
La “Poetica” di Aristotele, trattato risalente al 330 a.C. circa, è il primo esempio nella civiltà occidentale di un’analisi dell’arte distinta dall’etica e dalla morale. Il filosofo tratta della tragedia e dell’epica... ma della commedia e del riso, come dice Venanzio nel romanzo, non ne fa cenno. Per il semplice fatto che il trattato è arrivato a noi in forma incompleta, e della parte in cui veniva trattata la commedia non ne esiste traccia. Forse è andato perduta... o forse non è stata mai scritta!
Jorge è più che sicuro che si tratti del secondo caso, «perché la provvidenza non voleva che fossero glorificate le cose futili», come appunto il riso e la commedia.
Eco non resiste alla tentazione di creare uno pseudobiblion eccezionale, e quindi nel romanzo scopriamo che nella biblioteca del convento è custodita l’unica copia esistente proprio del secondo libro della “Poetica” aristotelica!
Lo “scontro finale” fra Guglielmo e Jorge si svolge infatti nella sezione segreta e favolosa della biblioteca, dove Eco pare strizzare l’occhio a Rabelais nell’elencare titoli ed autori a profusione, senza mai specificare quando cita e quando inventa.
«Voglio vedere il secondo libro della “Poetica” di Aristotele, quello che tutti ritenevano perduto o mai scritto, e di cui tu custodisci forse l’unica copia» dice Guglielmo al bibliotecario. Appena messe le mani sul preziosissimo testo, il benedettino comincia a tradurre dal greco: «Nel primo libro abbiamo trattato della tragedia e di come essa suscitando pietà e paura produca la purificazione di tali sentimenti. Come avevamo promesso, trattiamo ora della commedia (nonché della satira e del mimo) e di come suscitando il piacere del ridicolo essa pervenga alla purificazione di tale passione».
Non sembrano argomenti scabrosi: perché mai un testo del genere è stato tenuto segreto anche a costo di parecchie vite umane? Dov’è la sua pericolosità? È proprio Jorge a spiegarlo.
«Ogni libro di quell’uomo [Aristotele] ha distrutto una parte della sapienza che la cristianità aveva accumulato lungo i secoli. [...] Ogni parola del Filosofo, su cui ormai giurano anche i santi e i pontefici, ha capovolto l’immagine del mondo. Ma egli non era giunto a capovolgere l’immagine di Dio. Se questo libro fosse diventato materia di aperta interpretazione, avremmo varcato l’ultimo limite».
Ma perché il riso minerebbe le basi della cristianità? «Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato. [...] Ma qui [nel libro di Aristotele] si ribalta la funzione del riso, la si eleva ad arte, le si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia, e di perfida teologia. [...] La chiesa può sopportare l’eresia dei semplici, i quali si condannano da soli, rovinati dalla loro ignoranza [...] Ma questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza.»
Le motivazioni di Jorge sono chiare: «Che il riso sia proprio dell’uomo è segno del nostro limite di peccatori. Ma da questo libro quante menti corrotte come la tua trarrebbero l’estremo sillogismo, per cui il riso è il fine dell’uomo! Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio», così come chiare sono le sue intenzioni: piuttosto che consegnare al mondo il secondo libro della “Poetica”, è meglio darlo alle fiamme!
«Il Signore mi assolverà, perché sa che ho agito per la sua gloria»: ma non lo assolveranno i bibliofili, visto che nel grande incendio che chiude il romanzo, la più fenomenale biblioteca del Medioevo si tramuta in cenere...
Un’ultima parola va spesa per un gioco letterario presente nel film del 1986, diretto da Jean-Jacques Annaud ed adattato da Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin ed Alain Godard dal romanzo di Eco.
Appena riusciti ad entrare nella biblioteca segreta, Guglielmo ed Adso sfogliano i libri unici e rarissimi lì conservati gelosamente. L’attenzione di Guglielmo è catturata da un voluminoso testo illustrato. Nel romanzo a questo punto si legge: «Volumi enormi erano dedicati al commentario sull’Apocalisse di Beato di Liébana, [...] e Guglielmo riconobbe la menzione di alcuni tra coloro che egli riteneva tra i massimi miniatori del regno delle Asturie, Magius, Facundus e altri.» Il Guglielmo del film (interpretato da Sean Connery) così invece esclama: «Il Beato di Liébana! Ma questo è un capolavoro! E questa è la versione con le note di Umberto da Bologna.»
Va segnalato che nel 1973 il prestigioso Franco Maria Ricci Editore pubblica uno studio sull’Apocalisse commentata da Beato di Liébana, il tutto curato proprio da Umberto Eco: che gli sceneggiatori del film abbiano strizzato l’occhio ad Eco? È di Alessandria e non di Bologna, è vero, ma in quest’ultima città ha insegnato per così tanto tempo che il suo nome vi è rimasto collegato. E poi nel grande gioco degli pseudobiblia, dei libri falsi, un nome falso d’un autore vero rientra a pieno nelle regole!
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