Ombre. Formano isole decisamente minacciose in questo bar senza nome, in un luogo ignoto, in un tempo indefinito. Un uomo entra, si guarda attorno con espressione angosciata, va a sedersi a un tavolo vicino a una finestra. Vicino alla luce. Quest’uomo, chiunque sia, non vuole rimanere in prossimità delle tenebre. Arriva un cameriere come ce ne sono tanti. L’uomo ordina un whisky doppio. Il cameriere glielo porta. L’uomo scola metà del whisky in un’unica passata. Posa duramente il bicchiere. Come in un incubo, l’uomo rimane a fissare le perturbazioni nella superficie del liquore. A tutti gli effetti, quest’uomo È sprofondato nella fase terminale di un incubo. Forse il peggiore di tutti gli incubi.

Quanto sopra è grosso modo l’inizio per certi versi banale di Pezzo per pezzo (Piece by piece), uno dei racconti più inquietanti scritti da Richard Matheson, straordinario profeta della fantascienza. La tematica di Pezzo per pezzo?

La progressiva, inesorabile disintegrazione della realtà.

Ammettiamolo: chi di noi non ci ha pensato quanto meno una volta? Che cosa farei, come reagirei, chi sarei, se vedessi la realtà che conosco disgregarsi attorno a me come un castello di sabbia sotto l’azione delle onde?

Da Franz Kafka a Richard Matheson, da René Magritte a Francis Bacon, da Robert Altman a Peter Greenaway, l’esplorazione narrativa, visuale e, perché no, filmica del collasso della realtà continua, e continuerà, ad assediarci. È una tematica al tempo stesso tanto agghiacciante e seducente quanto quella di potere tornare nel passato a correggere tutti quegli errori cruciali che abbiamo commesso. Attenti però agli sgradevoli effetti collaterali del famigerato paradosso temporale. Per esempio, il nostro zietto preferito è stranamente diventato Hannibal the Cannibal e non vede l’ora di buttarci in pentola. Ma questa, manco a dirlo, è un’altra storia...

Okay: Back to reality, or lack thereof. Con rare eccezioni, ogni volta che il cinema americano affronta il collasso della realtà i conti finiscono con non tornare affatto. Un contro-argomento potrebbe essere: ehi, se la realtà è sballata, come accidenti puoi aspettarti che i conti tornino? Questo è valido, a mio parere, solo fino a certo punto. Perfino le realtà sballate hanno una loro logica: quella della coerenza narrativa.

Jacob’s Ladder, (letteralmente “La scala di Jacob”) - ma che per merito dei sempre immarcescibili distributori cinematografici italiani è diventato Allucinazione Perversa - è un esempio da manuale di una magnifica partenza (i postumi della guerra del Vietnam visti come un orrido delirio tossico-nichilista) coronata da un finalino da sacrestia di malaffare (l’angelico bimbetto Macauley Culkin che guida il papà Tim Robbins, defunto da un pezzo ma che non ha ancora capito di esserlo, su per la scala del paradiso).

Jacob’s Ladder è un film del 1990. Fast forward al qui e ora.

C’è Tally, una mamma affranta e disperata (Julianne Moore - come ti inchiodo tutta da sola otto balordi nigger con una Glock calibro 45 [vedi Hannibal]) per la tragica morte del figlio di otto anni, deceduto assieme ad altri bambini in un incidente aereo. C’è un benevolo e paterno psicoanalista (Gary Sinise - volo via nello spazio assieme alla mamma di ET [vedi Mission to Mars]) che cerca di aiutare la mamma in questione a "elaborare il lutto". Mmmm, non sono fenomenali queste etichette tipiche degli strizzacervelli? C’è un delicato e comprensivo marito (Anthony Edwards - ma perché diavolo ho lasciato il cast di ER?) che regge con pezienza e dedizione tutti i deprimenti eccessi della moglie inconsolabile. Questo il quadretto di partenza - diciamocelo: un minimo sul teso - di The Forgotten (“I dimenticati”). A un certo punto, nel quotidiano di Tally, appaiono le prime scollature: la sua auto è parcheggiata in un posto diverso da quello in cui ricordava, il maritino ha cambiato la foto incorniciata della famigliola felice con una diversa foto che mostra solamente la coppia, lo psicoanalista sembra sorpreso dal fatto che Tally parli di suo figlio. Quindi? Tally sta diventando matta? O forse matta lo è sempre stata? Le cose vanno di male in peggio quando il maritino cessa addirittura di riconoscerla come sua moglie e lo psicoanalista dichiara che il bimbo morto non è mai esistito. Okay, cool: now what? I problemi di coerenza (velato eufemismo) di The Forgotten cominciano a questo punto. Tally trova un insperato quanto riluttante alleato nel padre di un’altra bambina morta nello stesso incidente aereo. Entra in scena una poliziotta comprensiva, manco a dirlo di razza nera, la quale cerca di capirci qualcosa. Entrano in scena, manco a dirlo, i sinistri tipi vestiti di nero che lavorano (dicono loro) per la NSA (National Security Agency) e cercano (guess what) di insabbiare. Ma soprattutto, entrano in scena (oh, no, please, not THEM!), ma difatti: gli alieni! Non assomigliano alla mamma di ET ma sembrano dei bancari in astinenza da tabacco. Gli alieni stanno conducendo un qualche esperimento sulla memoria degli umani (whatever the hell that means). In caso qualcuno ficchi troppo il naso, quel qualcuno viene letteralmente risucchiato fino al più alto dei cieli (come on, man!). Dopo i primi venti minuti, The Forgotten  si tramuta in un patetico coacervo di fesserie. Diventa una guittata, in bilico tra il grottesco dei Fichi d’India e lo strappalacrime fasullo di un C’è posta per te in meta-amfetamina. The Forgotten è un classico caso di un film costruito sul concetto di partenza del collasso della realtà, ma oltre il quale tutti hanno perso la strada. La ragione? Assenza di struttura narrativa. Né lo scrittore né il regista avevano deciso che tipo di film fare, come svilupparlo e, peggio di tutto, come finirlo. Il risultato è zero al quoto, un’offensiva turlipinatura dello spettatore.

In effetti però, ci siamo dimenticati qualcosa in The Forgotten: dare una grossa pedata nel didietro a tutti quelli coinvolti. Quadruplo pollice verso.

Di tutt’altro segno è The Jacket, fresco di distribuzione negli USA e già sparito dai circuiti per tutte le ragioni più sbagliate. Il titolo inganna: The Jacket in questione non si riferisce né alla giacca sportiva né al giubbotto ma alla camicia di forza (straight-jacket). Fin dalle primissime immagini - un montaggio da tecno-incubo dei combattimenti della Prima Guerra del Golfo - sappiamo che quello che ci aspetta non sarà affatto un viaggetto a Neverland. Durante un brutale rastrellamento notturno, il soldato Jack Starks (Adrian Brody) prende le parti di un ragazzino iracheno. Viene ricompensato dal medesimo ragazzino iracheno con un solido proiettile nel cranio. Dato per morto, Starks è inaspettatamente resuscitato in un ospdeale da campo. Risultato della ferita, amnesia totale. Per Starks, è l’inizio di una discesa nel vicolo cieco più profondo del settimo girone dell’inferno. Reintrato in patria (si fa per dire), mentre cerca di fare l’autostop lungo una gelida autostrada, Starks è coinvolto suo malgrado nell’omicidio di un poliziotto. Processo lampo, condanna lampo: un bel manicomio criminale gestito con sadica auto-disperazione da uno psichiatra (Kris Kristofferson) al cui confronto Freddy Kruger sembra Mickey Mouse. Starks è serrato in una camicia di forza a tutto corpo (The Jacket appunto del titolo). Come se non bastasse, viene rinchiuso per ore in un loculo simile a quelli di un obitorio. Terapia sperimentale. Allegria. Con siffatte premesse, dire che nella mente umana saltino tutte le valvole è usare un altro velato eufemismo. Eppure - in una sorta di rivistazione del grandioso romanzo Il vagabondo delle stelle di Jack London - la mente di Starks riesce comunque a “liberarsi”. Così Starks viaggia in avanti: quindici anni nel futuro. O forse in un possibile futuro. O forse in nessun futuro, ma bensì in una schizofrenica struttura allucinatoria. Visitando questo “luogo”, qualsiasi cosa questo “luogo” sia, Starks ricostruisce progressivamente gli eventi che portano alla sua morte, riuscendo però anche a aiutare, forse, quei pochi che hanno cercato di capirlo. A tratti estremamente arduo da reggere (letteralmente da stomaco nei calcagni le sequenze dentro il loculo), The Jacket riesce a toccare pressoché tutto lo spettro dell’emotività umana e della sofferenza umana. Disperato e commovente, delicato e orrido, The Jacket non solo frantuma la realtà, ma la frantuma con straordinaria efficacia. Se vi è piaciuto Memento, The Jacket è un’esperienza da non perdere.

Okay, there you have it. Ma non aspettiamoci che i collassi della realtà finiscano qui. Per certi versi, assisttiamo a simili collassi ogni volta che seguiamo un qualsiasi notiziario di una qualsiasi delle televisioni itaGLiane. Ma anche questa, manco a dirlo, è un’altra storia.

Tornando al tizio che ha ordinato il doppio whisky nel bar senza nome, in un luogo ignoto, in un tempo indefinito, quando il cameriere ripassa il doppio whisky è ancora lì, intonso. Il tizio? scomparso, dissolto nel nulla. Alla polizia, il cameriere dichiarerà di non avere notato assolutamente nessuno seduto a quel tavolo. Forse il tizio non è mai esistito. O forse è il bar a non essere mai esistito. Richard Matheson ha capito tutto fin dal primo istante. Eccola, la più pura, la più assoluta, view from the edge.

LE SCHEDE DEI FILM

 

JACOB’S LADDER (1990)

Produzione: Carolco/Tristar

Produttori: Mario Kassar/Andrew Vanja

Regia: Adrian Lyne

Sceneggiatura:  Bruce Joel Rubin

Cast: Tim Robbins, Danny Ajello, Pruitt Taylor Vince, Matt Craven, Patricia Kalember, Elizabeth Pena

Fotografia: Jeffrey Kimball

Musica: Maurice Jarre

Montaggio: Tom Rolf

THE FORGOTTEN (2004)

Produzione: Columbia

Produttori: Bruce Cohen/Joe Roth

Regia: Joseph Ruben

Sceneggiatura: Gerald Di Pego

Cast: Julianne Moore, Gary Sinise, Anthony Edwards, Alfre Woodard

Fotografia: Anastas Michos

Musica: James Horner

Montaggio: Richard France-Bruce

THE JACKET (2005)

Produzione: Warner/Mandalay

Produttori: Peter Guber/George Clooney/Steven Soderbergh

Regia: John Maybury

Sceneggiatura: Massy Tadjedin

Cast: Adrian Brody, Keira Knightley, Jennifer Jason Leigh, Kris Kristofferson

Fotografia: Peter Deming

Musica: Brian Eno

Montaggio: Emma Hickox