Il Cavalier Giangiacomo Bolozzo, ex titolare pro forma di un famoso setificio ormai scomparso, ultimo discendente di una dinastia di imprenditori nati in campagna, vedovo – l’unica figlia è all’estero – vive a Como nella palazzina di famiglia in via dei Quattro angoli.
L’uomo, in là con gli anni ma in discrete condizioni di salute, è accudito da una donna svizzera, Amelie S., che da giovane lavorava come cameriera ai piani nel Grand Hotel di Locarno, dove lui trascorreva gran parte dell’estate assieme alla consorte e alla figlia all’epoca bambina. Stagione dopo stagione, con la continuità dell’affezione a un albergo esclusivo, e sopratutto ai suoi servizi in camera, il Cavaliere prese quella ragazza in forte simpatia. Un giorno, dopo aver convinto la moglie dell’opportunità di anticipare la pensione alla tata che avevano a Como, la coppia offrì uno stipendio più che buono a quella giovane gentile. Lei parlò con sua madre – un’emigrante friulana, vedova, svizzera per una fede al dito – mise qualche indumento in una sporta, salì su una splendente quattro porte convertibile, color panna e cappuccino, e seguì i Signori a Como; dove nessuno fece caso all’arrivo di una ”migrante di rimbalzo”. Da allora, ad eccezione di una sola volta per recarsi in un ambulatorio compiacente di un medico privato, appena oltre il valico di Chiasso, Amelie non lasciò più la residenza ufficialmente fissata in un letto in stile floreale, in una grande camera tutta per lei, in quella palazzina liberty progettata dal famoso architetto Sommaruga – considerata un bel esempio dell’architettura nuova, o “art nuveau” all’italiana.
Sarà perché in un’occasione accompagnò il Cavalier Bolozzo a braccetto – lo sorreggeva perché non inciampasse sul gradino della cappella di famiglia, mentre era impegnato a stringer mani, a seguire la bara della moglie e a far sistemare le corone delle varie associazioni presenti a fin di bene – sarà perché pochi mesi dopo il lutto stretto assecondò la passione della figlia, diventata maggiorenne con l’eredità lasciatale dalla madre, a lasciare i cenacoli di Brera e partire alla ricerca di se stessa dirigendosi a sud-est, verso il mondo delle arti esoteriche orientali, fatto sta che la badante svizzera, oggi poco più che cinquantenne è il fulcro della vita di Giangiacomo Bolozzo.
Circa il procedere dei fatti, Amelie, detta famigliarmente Melì, ogni tanto riceve notizie dei progressi della signorina Bolozzo con qualche cartolina esotica indirizzata al Cavaliere – il testo bianco, uno svolazzo come firma – e lui le lascia i francobolli per regalarli a un bambino che vive a Ascona, nella Svizzera italiana.
Verso la fine dello scorso anno, un giorno che si sentiva alquanto giù di tono, il Cavalier Bolozzo definì una questione in sospeso: nominò Amelie S. sua unica erede. Un testamento notarile per premiarla dell’attaccamento dimostrato alla famiglia e lei, la futura beneficiaria di un ricco patrimonio, nel frattempo, continua a governare come sempre le giornate del buon uomo con assoluta dedizione, assentandosi da Como solo ai primi di ogni mese per far visita alla madre – una donna allevata dalle suore dell’Orfanotrofio Sacro Cuore del Buon Gesù di Tolmezzo, diplomatasi in ricamo con la benedizione parrocchiale e che, appena maggiorenne, certificata come modello di virtù in tutti sensi, lasciò la terra natale della Carnia, una regione del nord-est alpino friulano, emigrò in Svizzera e si adattò in fretta al nuovo ambiente alpestre – tanto che ormai lavora da una vita in qualità di donna tuttofare, e sorvegliante di fiducia, nel retrobottega di un’antica farmacia di Lugano celebrata per la preparazione di infusi, di creme per la pelle e di uno speciale balsamo a base di miele di rosa, la “Complicata”; una rosa di colore rosso magenta, che già dal nome attesta una storia ricca di risvolti.
A onor di cronaca, va detto che questo balsamo particolare è considerato il migliore per alleviare le sofferenze alle vie respiratorie; quanto a credere che tutti i prodotti preparati e commercializzati in quella storica farmacia, sono naturali e rigorosamente protetti da un marchio centenario tramandato da padre in figlio, ciò è provato e fuor di dubbio.
E veniamo al Cavaliere, che ormai galoppa solo con gli occhiali e inizia le giornate tenendo il Corriere della Sera tra le mani.
Un the, un Pavesino dal vassoio, due cucchiai di pappa reale che Amelie gli fa ingoiare dopo averlo sollevato su un cuscino – glielo frappone tra l’acutezza delle scapole e la testiera intarsiata primo novecento – e lui apre il quotidiano fresco di stampa. Inizia dalla pagina degli annunci mortuari, controlla tra le lenti se ci sono nomi conosciuti, apre un quaderno che tiene dentro il comodino, spulcia un elenco, depenna gli amici morti e aggiorna il conto delle partecipazioni sulla pagina che un giorno – come dice rivolto a chi gli bada – sarà tutta per lui.
Per il resto delle ore, il buon uomo si trastulla scricchiolando avanti e indietro il parquet per mantenersi in forma, o sta seduto in soggiorno, in una poltrona con poggiapiedi incorporato, dove s’intrattiene curioso come un bambino con l’hobby per l’entomologia, sfogliando una raccolta di volumi sugli artroprodi, e gli insetti in genere, per i quali ha dimostrato da sempre un interesse maniacale, quasi ossessivo. Un libro vero, che non sia stato l’annuario rilegato dei gran premi ippici a Maia di Merano, mai letto. Porte chiuse, non riceve visite e vuole stare in pace. Verso le 11, e nel pomeriggio dopo un riposino, Amelie, se non piove, lo accompagna a strascicare i piedi nei giardinetti pubblici vicini a casa.
Là, tra un passo lento e un altro sollevando le ginocchia per sgranchire le articolazioni ossute, lui si ferma, traballa sul bastone, lo alza, indica alcune palazzine alla compagna al fianco e dice: “Vedi Melì, in quella abitavano gli... e in quell’altra... “. Senza il suo quaderno, da qualche tempo il poveruomo non ricorda i nomi. E la donna, cadenzando l’andatura dei pensieri, rinnova l’eloquenza taciturna ripetendo: “Ah! Cavaliere mio”.
Un pomeriggio di aprile di quest’anno, piovigginava da diversi giorni, il Bolozzo era costipato fin dai primi di marzo, oltre che afflitto da una tossetta fastidiosa, e Amelie era partita di buonora per andare a Lugano – sarebbe rientrata in tempo per preparare e far bere al Cavaliere la tisana della buona notte, mescolata con uno speciale balsamo che sua madre aveva espressamente preparato per alleviare il malessere dell’uomo, e che le aveva dato l’ultima volta che si erano viste – la palazzina in via dei Quattro Angoli era nelle mani di una rumena fatta venire come sempre da Amelie quando doveva assentarsi. La comunitaria se ne stava in camera a guardare la televisione, mangiare merendine, dormire, e all’improvviso una buffata da nord-est spazzò il cielo di Como.
Il sole rosseggiò d’arancio alle vetrate e il Cavaliere, stanco dell’aria inscatolata in casa, si coprì, s’infilò non visto tra le ante di un portone e uscì appoggiandosi al bastone; raggiunse sprezzante del pericolo l’altro lato della strada e si avviò verso i giardini pubblici da solo. Arrivò alla panchina dove si sedeva dopo la passeggiata abituale, e qui i suoi occhi furono attratti dall’iridescenza di una ragnatela vicino allo schienale. Luce sbieca, vibrante l’aria tra i colori sparsi sull’intreccio per impreziosire un’esecuzione di per sé più che perfetta, e lui si avvicinò. Sulla tessitura, nessuna traccia dell’artefice.
Si accomodò seduto, sostituì gli occhiali, inforcò quelli più spessi e iniziò a ispezionarla. Sul bordo superiore, seminascosto da un rampicante, lo vide. Aveva il dorso azzurro, punteggiato di vivaci macchioline verdi, e se ne stava immobile.
Impastò tra le lenti i due colori e s’insospettì per il giallo di un mistero. In mente la foto su una pagina del volume intitolato “Gli aracnidi”, e corrugò la fronte perché quel ragno era un esemplare del Nord Africa ritenuto velenoso, appartenente a una specie che disponeva solo di una dose di veleno, e che moriva subito dopo aver punto qualcosa; talché risultava difficile addossargli la responsabilità della morte di qualcuno, uomo o animale, se non si aveva la fortuna di trovare lì vicino l’omicida privo di vita. Il Cavaliere restò a lungo pensieroso. Pensò anche ai disperati d’oltremare sui barconi, poi, non sentendosi bene e accelerando i battiti del cuore, decise di rientrare a casa. Alzandosi, gli venne istintivo dire: “Ah! Ci mancava anche il clandestino con la pistola a un colpo!”. Quindi si girò per avviarsi e aggiunse: “Ti saluto, assassino senza volto!”. L’animaletto, forse offeso dalle ultime parole, sollevò una zampa, e il Cavalier Bolozzo arretrò incredulo il viso, interpretò il movimento come un gesto di rivolta e si riavvicinò alla tela. Unì all’orgoglio di un entomologo per caso la convinzione che quel ragno si trovasse fuori posto e si lasciò andare giù sulla panchina.
Intenzionato a spiegargli come stavano le cose, puntò gli occhi sulla bestiola e cominciò a rinnovare, tossicchiando e a voce bassa, le sue origini partite da un contado del lombardo meneghino; finché passò a quelle dei compatrioti dell’intruso traghettati qua con lui. E a questo punto volle metterci del suo, e mise in luce il passato famigliare delle foto-tessere in ceramica esposte nella cappella di famiglia, e quello personale delle cronache locali. Elencò nomi alla rinfusa, luoghi, date, anche ordini d’arrivo, e commentando un battimani quando fu nominato Cavaliere dello sport in camicia nera, per una medaglia d’oro vinta in un concorso a ostacoli abbelliti dai fasci del Littorio – avvenimenti andati in grassetto sul principale quotidiano di Milano – vide il ragno muovere tutte le zampette sempre più velocemente. Il Bolozzo, avuta l’impressione che quell’insetto si fosse interessato alle sue storie, si inorgoglì, abbassò le palpebre e borbottando sgranò le sequenze della propria vita proiettata su uno schermo inesistente – l’imbrunire era ormai prossimo e il buon uomo non si avvide di quello che mutava attorno a lui.
Spintosi a ritroso nel passato – fino in braccio alla mamma che gli sussurrava una nenia per farlo addormentare – il Cavaliere si commosse. Cercò di tirar fuori dal pastrano un fazzoletto, ma qualcosa di indefinibile gli impediva ogni movimento – una luce impolverata, lattiginosa, oscurava il presente ai suoi occhi inumiditi.
Provò a muovere un braccio, poi l’altro. Tentò di raddrizzarsi sulle gambe: nessuna azione gli era permessa; salvo tossicchiare il torace in brontolii. Si sentiva imprigionato, serrato come in un bozzolo di quelli che aveva visto da bambino in mano al genitore – fu il giorno che andò con lui a fare un giro nello stabilimento a bordo di un’Isotta Fraschini con autista; quando suo padre glieli mise nella tasca della giacchetta principe di Galles senza collo, ma con la martingala, elargendo spiegazioni non richieste sul lavoro manifatturiero e preannunciandogli che sarebbe stato compito suo, da grande, occuparsi di tutto. La volta in cui il Bolozzo vide in modo chiaro il suo futuro lontano da quei luoghi orribili.
Fatto sta, che dopo diversi tentativi inutili, il Cavaliere volle gridare, ma la voce non gli arrivò nemmeno alla gola. Terrificato per l’inspiegabile impotenza, il poveruomo rimase inebetito; poi l’inquietudine lo allontanò nell’incoscienza staccandolo dalla fisicità.
A mala pena riusciva a respirare, ma ancora nulla impediva il processo della mente. E lui si adattò alla nuova condizione, all’opportunità di anticiparsi il perdono, la pace – nessuno sforzo, nessun obbligo di fornire spiegazioni.
Calò la sera e il Cavalier Bolozzo sentì le mani infreddolirsi, il corpo farsi insensibile, e pensò a quel ragno infido: “Che mi abbia punto?” si chiese. Ed ecco che una sonnolenza perniciosa, favorita poco per volta e complicatasi incoraggiando i battiti del cuore, mise fine ad una dinastia padana personificata dall’ultimo rampollo: un mancato industriale della seta persosi per strada per un’incollatura, anche svizzero-italiana, dopo aver corso la cavallina per tutta la vita.
Nel frattempo, nella palazzina di via dei Quattro angoli, la rumena si era stiracchiata fuori dal letto e ciabattava verso la cucina. Per cena ci sarebbe stato il “riso giallo”, come lo chiamava lei, il risotto alla milanese che Amelie aveva preparato per il Cavaliere prima di partire. A lui piaceva fatto al salto, con la crosterella su entrambi i lati. Come quello che gli portava in camera sua madre di nascosto, quando il padre urlava: “A letto senza cena, mascalzone!”
E questo succedeva ogni volta che l’autista-giardiniere brontolava: “Siur cumenda, per catturare i maggiolini, il Giangi ha rovinato ancora le sue rose Complicate!”
Due giorni dopo quella strana sonnolenza, che ghiacciò il Cavalier Bolozzo sopra una panchina, il Corriere della Sera mise in chiaro in un trafiletto filettato la scomparsa di un “bel uomo” e l’orario delle esequie.
Amelie S. – fianchi leggermente appesantiti, a braccetto di sua madre che indossava dei pantaloni blu e una giacca di colore cremisi scuro, altrimenti detto “rosso magenta – accompagnò Giangiacomo fino alla cappella di famiglia.
Preciso che la giacca, smessa dalla consorte di un farmacista appena laureato, mostrava il bavero impreziosito da un ragno d’oro luccicante piccoli brillanti – un gioiellino donato a una donna tuttofare, affidabile, discreta e previdente, in occasione del cinquantenario della sua assunzione in una farmacia di Lugano.
Qualche padano meneghino partecipò nella colonna degli annunci al lutto della figlia, che presenziò ai funerali solo con il nome, e successivamente, la madre di Melì, rientrata a Lugano, dopo aver svolto una pratica di affidamento, portò in Italia un nipotino che da quel giorno fissò la sua residenza a Como.
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