Quello che colpisce, nelle opere di Valerio Evangelisti, è la naturalezza con cui incastra la storia – in questo caso moderna, storia di un Nuovo Mondo in balìa dei conquistatori – alla finzione narrativa. Veracruz (Mondadori, Strade Blu) è il secondo romanzo sulla saga dei pirati, prequel letterario di Tortuga (uscito l’anno scorso per Mondadori), tanto che alcuni personaggi sono già apparsi sia in Tortuga che nel racconto “I Fratelli della Costa”, presente nella raccolta Anime Nere. Come annuncia il titolo, è Veracruz l’obiettivo dei filibustieri, la roccaforte della Nuova Spagna, la città coi cannoni puntati sul mare. Il porto è una mezzaluna disseminata di forti strategici, Veracruz l’inespugnabile, spinta agli eccessi (o deserta o popolosissima, a seconda dei periodi), in apparenza così protetta da scoraggiare il minimo desiderio di conquista. Qui punta la spedizione dei pirati al soldo del sovrano francese, anche se molte imprese si consumano nel mare dei Caraibi, quello intatto, a tratti insidioso, a tratti meraviglioso, semidivino, umanizzato da un popolo simbiotico con le acque, una distesa informe in cui ci si orienta con le stelle o l’astrolabio, un’entità con un suo proprio spirito e proprie leggi che è sacrilego violare. E l’infrazione, quando avviene, comporta comunque una punizione.
Presenze memorabili si scolpiscono nella mente nitide, corpose. Basti pensare al capo dei Fratelli della Costa, Michel De Grammont, indole guerriera e risolutiva, uomo consumato dalla gotta e dalla passione per le donne, molte delle quali effigiate nella collezione di cammei. O a Hubert Macary, onesto ammiraglio già disertore degli eserciti di re Luigi, che dalla carriera militare ha conservato la disposizione alla subordinazione e all’obbedienza ottusa. E che dire dei potenti, il governatore e i familiari quasi ritratti come da un quadro di Goya, o delle donne, quelle intense, "sabrose", per dirla alla spagnola, seducenti, che sanno come sbattere gli occhi per renderli più provocanti? Sembrano dettagli, ma i particolari guidano la storia in un generale avvincente. Interessanti gli scorci di microstoria, ovvero i riferimenti alla vita quotidiana dell’epoca, alle usanze, ai costumi, quelli che esulano dai grandi trattati e dalle epiche battaglie. Si impara ad esempio che “il fastidio” era una terribile tortura piratesca a base di paglia e di fuoco, o che gli equipaggi delle imbarcazioni variavano a seconda dell’entità delle stesse e, se i fanciulli rosei erano oggetto di attenzioni particolari, i cannibali arawacos erano accettati in quanto abili arcieri, non venivano disdegnati gli ex-schiavi negri e nemmeno «le canaglie e i mezzi idioti venivano respinti, bensì dirottati ai vascelli minori».
Una scrittura che ho delle serie difficoltà a definire con un aggettivo convenzionale. É una scrittura tra il blu e il verdemare come le acque ora profonde ora trasparenti che solca e la sensazione, per i lettori, è di veleggiare sui galeoni e su squadre di navi gonfiate dal vento, curiosi, sì, ma non troppo sicuri, perché da questi corsari – Evangelisti c’insegna – ci si può davvero aspettare di tutto.
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