Malgrado l’opinione comune, nella storia dei film di arti marziali il Giappone in generale e il karate in particolare non hanno mai avuto molto spazio: negli ultimi anni invece la produzione di questa nazione si sta segnalando per alcuni titoli molto ben fatti, come “Kuro-obi - Black Belt” (2007) di Shunichi Nagasaki.

Il karate è l’arte marziale che ha vissuto la primissima ondata di fama internazionale. Negli anni Sessanta lo praticavano due spie cine-letterarie come Matt Helm (di Donald Hamilton) e James Bond (di Ian Fleming). Il francese Roger Vlatimo forniva i propri personaggi di MacGillie e Burezzi di tecniche prettamente legate al karate. Quando negli anni Settanta esplose la mania dei gongfupian, dove i protagonisti di film provenienti da Hong Kong lottavano a mani nude, piovvero su tutto il mondo titoli con la parola “karate” usata impropriamente, visto che nel migliore dei casi si usava una qualche forma di kung fu. Un epico film storico sugli ultimi giorni del Tempio di Shaolin, Shao Lin si (1976), venne distribuito in Italia con il titolo “I giganti del karatè”. Nei paesi di lingua spagnola il film Tang shan da xiong (“Il furore della Cina colpisce ancora”) venne distribuito con il titolo “Karate a muerte en Bangkok”. Sempre rimanendo ai titoli di Bruce lee, uno fra i suoi film più celebri, Jing wu men (“Dalla Cina con furore”), veniva distribuito in VHS italiana negli anni Ottanta con il paese di provenienza indicato come “Giappone”.

 

Giappone e karate sono stati, per decenni, quasi sinonimo di arti marziali, ma anche (erroneamente) di film di arti marziali, mentre invece questo genere non è mai stato molto sviluppato. Questa errata convinzione faceva sì che nell’immaginario collettivo si siano sempre fusi elementi cinesi con elementi giapponesi: ne è testimone una parodia italiana del genere, “Ku Fu? Dalla Sicilia con furore”, dove in una palestra di kung fu gli allievi vestono il karategi!

A parte gli esplosivi film interpretati negli anni Settanta da Sonny Chiba, il gongfupian non è un genere molto trattato dalla tradizione filmica giapponese (molto più famosa per i chanbara, film con combattimenti alla katana). Eppure superata la metà degli anni Duemila la cinematografia nipponica sembra aver voluto provvedere a questa “carenza”.

 

Nel 2007 viene prodotto “Kuro-obi - Black Belt” (2007), film che parte da un inedito scenario storico per poi però perdersi in una trama scontatissima ed inflazionata.

Nel 1932 il Giappone e gli ufficiali cinesi della deposta Dinastia Qing crearono lo stato fantoccio del Manciukuò (“Paese dei Manciù”) sul territorio dell’odierna Manciura e parte della Mongolia interna: governato nominalmente da Qing Pu Yi, il famoso “ultimo imperatore”, era nei fatti proprietà giapponese. I soldati nipponici qui spadroneggiavano senza controllo, e considerandosi “eredi” dei samurai non consideravano nobile il karate, l’arte di combattimento a mani nude (karate significa appunto “mani vuote”). Il film inizia con un manipolo di soldati giapponesi che cerca di espropriare il dojo del maestro Shibahara per adibirlo ad uso della milizia imperiale, malgrado detto dojo abbia addirittura l’approvazione personale dell’imperatore.

Tatsuya Naka, Yuji Suzuki e Akihito Yagi
Tatsuya Naka, Yuji Suzuki e Akihito Yagi
Chiusa la parentesi storica, il film si basa su un archetipo abusato dal cinema di genere, cioè la formazione dei tre classici allievi: Bravino, Bravo e Bravissimo. Bravissimo si inorgoglisce ed imbocca la via errata; Bravo rimane sulla retta via e diventa Bravissimissimo. Bravino è quello che fa da tappezzeria ma sta lì a ricordare agli altri gli insegnamenti del Maestro. Quest’ultimo affida a Bravino il Kuro-obi, la cintura nera: «nero è il colore senza macchia», e solo il più puro degli atleti potrà riceverlo. Bravissimo, ovviamente, la vorrebbe per sé, ma la sua tracotanza lo convincerà di non esserne degno: è Bravo (divenuto poi Bravissimissimo) a meritare l’ambito riconoscimento. Tutta la parte del film legata a questa trama è scontata e prevedibile in ogni fotogramma.

 

Tutt’altro discorso quello marziale.

Piuttosto che allenare degli attori si è scelto di utilizzare dei veri atleti professionisti, così nei ruoli protagonisti di Bravo e Bravissimo abbiamo, rispettivamente, Akihito Yagi e Tatsuya Naka. Il primo è istruttore all’International Meibukan Goju Ryu Karate, col grado di 5° Dan in questo stile. Tatsuya Naka è istruttore del Japan Karate Association General Headquarters (Corp.), col grado di 6° Dan di Shotokan, e campione di kata.

Tatsuya Naka
Tatsuya Naka
Ci si riserva di dubitare dell’ultimo dato: i kata a livello agonistico seguono determinate regole che gli ottimi atleti di questo film non sembrano seguire, dimostrandosi decisamente più ferrati nel kumite.

Malgrado l’eroe, il buono della storia sia Akihito Yagi, è indiscutibile che tutta la marzialità del film si basa sull’eccezionale bravura di Tatsuya Naka, sui suoi colpi d’anticipo sferrati con una precisione sconcertante e con qualcosa che troppo spesso gli atleti sul grande schermo dimenticano: il perfetto equilibrio prima e dopo l’esecuzione di una tecnica! Troppe volte nomi noti del cinema di arti marziali ci hanno abituato a belle tecniche eseguite in modo confuso, perdendo magari l’equilibrio dopo l’esecuzione. Tatsuya Naka ci ricorda che il vero karateka (ma, per estensione, ogni artista marziale degno di questo nome) mantiene l’equilibrio anche dopo la tecnica, senza traballare o addirittura cadere.

Una curiosità: questo è uno dei rarissimi film di arti marziali che mostri l’esecuzione di un ura mawashi, difficilissima tecnica rotatoria di gambe tipica del karate. Vi si trova un’altra tecnica rarissima: l’awase tsuki, un doppio pugno, che però già usò Jean-Claude Van Damme nel combattimento finale di “Kickboxer” (1989), in un contesto ovviamente lontano dal karate.

In conclusione, una storia assolutamente scontata, vista e rivista, fa da sfondo ad una rappresentazione marziale del karate assolutamente inedita, oltre che di grandissima qualità.