Ottavio Cappellani, catanese classe 1969 e “autore esordiente” dell’anno, fuma quasi quanto Andrea Camilleri e ha gli occhi vivaci e attenti da ragazzino. Sorride sempre, osserva tutto, ed è di una gentilezza speciale.

Guarda al grande successo del suo primo libro, Chi è Lou Sciortino?, i cui diritti sono stati acquistati da tutte le più importanti case editrici straniere e che vende sempre di più in tutta Italia, con sguardo ironico e divertito; e nello stesso tempo con grande entusiasmo.

Questa intervista nasce da uno scambio di e-mail e da due incontri nella bellissima Catania; tra granite, caffè, cartoline kitsch e libri da firmare abbiamo parlato di Mc Bain e di Camilleri, di Tarantino e Martoglio, di Lou Reed e di Roy Paci, di Habermas e Sgalambro, dell’America, della mafia e di cosa nostra, di Catania e di molto altro…

Come ha fatto in questo Suo primo libro a tenere testa senza sbandamenti a una trama così complicata? Ha seguito degli schemi, si è fatto aiutare? E’ strano in un romanzo di un esordiente.

Una caratteristica di Chi è Lou Sciortino? è quella di essere un romanzo “corale”. Avevo tanti personaggi e tante vicende da gestire. L’unica maniera possibile di svolgere il lavoro in maniera compiuta era quella di lasciare la storia libera di fluire, di manifestarsi. Per questo avevo bisogno di una totale libertà nella fase di scrittura. Come si fa con i cavalli da quando, con l’avvento dell’equitazione naturale, inventata da Caprilli (e che ha sostituito l’equitazione cosiddetta “di scuola”) si è capito che i cavalli si “raccolgono”, si rendono “composti” e “rotondi”, non attraverso la “costrizione”, ma al contrario, lasciandoli liberi di trovare il loro ritmo, facendoli girare senza cavaliere nel tondino di lavoro, un piccolo maneggio dove il cavaliere resta al centro e ha l’unico contatto con il cavallo attraverso le redini lunghe. Io ho avuto la fortuna di incontrare il mio favoloso editor, Giuseppe Russo, e la consapevolezza di avere un “editor” mi ha regalato la necessaria libertà nella fase di scrittura. Una volta che quella storia e quei personaggi avevano dato tutto quello che potevano dare, una volta che il romanzo si era manifestato in tutte le sue sfaccettature, in una prima stesura di oltre cinquecento pagine, è iniziato il lavoro di editing. Ed è stata una gioia vedere che il libro prendeva, come l’ha definita Jonathan Galassi, in un recente convegno, la sua “forma ideale”. Sempre nella stessa occasione (una conferenza sull’editing organizzata a Venezia dalla Scuola Librai Mauri) Galassi ha aggiunto: “La specie di editing di cui sto parlando sembra essere largamente un’invenzione americana e come accade per molte innovazioni che giungono da oltre Atlantico viene guardata con una certa prevenzione dalla maggior parte del resto del mondo. Appianare le idiosincrasie nello stile di un autore per renderlo più convenzionalmente leggibile, vale a dire più commerciabile, sa molto di semplificazione e di mercificazione del testo letterario. E’ abbastanza vero sotto molti aspetti, tuttavia io ritengo che, se fatto bene, questo tipo di editing non è un tradimento ma piuttosto un vero perfezionamento del testo che vale veramente la pena compiere”. Sulla rivoluzione Caprilliana, rivoluzione tutta italiana che ha avuto seguito nel mondo intero, ho scritto il mio precedente libro, “La morale del cavallo”, un dialogo filosofico, e credo che per la letteratura l’avvento di questo tipo di editing sia importante quanto la rivoluzione Caprilliana per l’equitazione. Sia io che Russo, poi, abbiamo dato in lettura il manoscritto a due persone verso le quali proviamo profonda stima. Colgo l’occasione per ringraziare ancora Simonetta Poggiali e Marcella Marini.

Da dove proviene la Sua irresistibile passione per il kitsch, che quasi pervade tutto il libro, senza mai tuttavia risultare sgradevole?

Dalla filosofia innanzitutto, alla quale devo uno sguardo attento alla perdita di rapporto tra forma e funzione.

Dallo studio di autori come Hermann Broch, Gottfried Benn, Karl Kraus, Guy Debord. E anche, confesso, da una certa perversione, che coltivo, nei confronti dei dettagli...

Lei Nomina sempre Martoglio, quando Le si chiede da chi è influenzato. Può spiegarci meglio il peso di questo autore e del suo teatro sul Suo scrivere?

Molti non lo sanno, ma Nino Martoglio, oltre alla sua produzione teatrale (scrisse anche due commedie a quattro mani con Pirandello) è soprattutto uno dei padri fondatori del cinema mondiale. A Catania, nei primi del Novecento, nacquero cinque case di produzione cinematografica, Morgana Film, Etna Film, Katana Film, Sicula Film, Jonio Film, e nella “Storia generale del cinema”, di George Sadoul, “Sperduti nel buio” è considerato il primo film realista della storia, precursore di Eisenstein, Pudovkin, Renoir, Carnè, Duvivier e di tutto il neorealismo italiano. “Sperduti nel buio”, fu prodotto nel 1914 dalla Morgana Film di Catania e diretto, guarda un po’, da Nino Martoglio. Protagonisti principali erano Giovanni Grasso senior e Virginia Balistrieri. Della pellicola non è rimasta alcuna copia, aspetto un Indiana Jones o un Robert Langdom degli archivi cinematografici che me la ritrovi. Martoglio diresse poi “Teresa Raquin” tratto da Zola, e altri due film “Capitan Blanco” e “Capo Rais”. Tornando al teatro, il peso di Martoglio è importantissimo, per la luminosità del suo dialetto, per la capacità di restituire un personaggio grazie all’uso di un linguaggio, ma anche per la struttura, per il “plot” delle sue commedie, che io trovo macchine narrative perfette di stampo “hollywoodiano”.

Come nasce il titolo Chi è Lou Sciortino?

Come tutti i titoli: dal rapporto tra i Caratteri e la Storia. Lou Sciortino è il personaggio più enigmatico del romanzo, è come se non mi avesse voluto dire molto di sé. Un giovanotto ingenuo? O un genio apocalittico che dall’ombra regge le fila della trama come un maestro dell’Opera dei Pupi? Io ho la mia risposta, lascio libero il lettore di formularne una propria. Un giorno mi telefona Giuseppe Russo, il direttore editoriale della Neri Pozza, e mi dice: “Senta Cappellani, ho trovato il titolo per il suo romanzo: Chi è Lou Sciortino?”.

Nel Suo libro Catania è molto presente, eppure sembra quasi una città immaginaria abitata da “alieni”. Come se Lei avesse voluto tenere fuori dal libro la gente "normale".

No, non sono alieni. Zu Mimmo, per esempio, è un vecchietto che ha un emporio, vende dopobarba, schiuma da barba, strofinacci, detersivi, DDT. E’ una persona normalissima, eppure mi è sembrato un “carattere” di straordinaria forza. I parrucchieri, a Catania, sono delle istituzioni: le più importanti multinazionali e franchising di parrucchieri, con sedi in tutto il mondo, hanno la loro “testa” proprio a Catania. Anche il barbecue è una consuetudine che unisce la Sicilia all’America, a Catania lo chiamano arrust’emmangia. Nei furgoni modificati a panineria, disseminati in tutta la città, di notte, non è difficile incontrare un Tuccio o un Nuccio, vestito in una maniera che a lui sembra alla moda perché l’ha visto in televisione dalla De Filippi, totalmente impasticcato, che per vivere fa il killer. Greta è un’attrice con un passato di video soft-core, che, guarda caso, si innamora di un produttore cinematografico. La famiglia di Lou Sciortino “pulisce” il denaro attraverso la produzione dei film deliranti di Leonard Trent. Non sarà gente “normale”, come dice Lei, ma non mi sembrano “alieni”. Sul concetto di “normalità”, soprattutto in Sicilia, ci sarebbe poi così tanto da dire che non mi sembra il caso, in un’intervista.

Cosa pensa della polemica sulla mafia e su Sciascia, iniziata da Sgalambro, che ha provocato un notevole dibattito in Italia?

Sgalambro è un teologo, indipendente, antiaccademico, eccentrico se vuole, ma serissimo teologo. Parla con una decina di codici mischiati insieme. E’ di intelligenza veloce, può cambiare “codice” anche due o tre volte nel corso della stessa frase, il tutto seguendo un percorso intimamente logico. Capisco che se stai parlando della “Critica della Ragion Pura”, del fatto che questa viene contraddetta dalla psicanalisi junghiana, allora cambiare velocemente codice linguistico è nelle cose, e che, rispetto a un fenomeno come Cosa Nostra, parlare in questa maniera sia quantomeno inusuale. Ma tant’è. Stando alle parole “virgolettate” di quell’intervista si può avere l’impressione che Sgalambro si sia contraddetto. Io, che ho l’occasione di frequentarlo, ho intuito quello che voleva dire. Ma non posso fare certo una colpa al giornalista per l’interpretazione che ha dato di quelle frasi, e per il fatto che si sia inorridito. Comunque non vedo polemica o contrasto, ognuno ha fatto il proprio mestiere: Sgalambro ha fatto inorridire (cosa che adora fare) e il giornalista si è inorridito (non lo conosco, ma sono sicuro che il giornalista adora inorridirsi). Uno dice “Mafia”, un altro capisce “Cosa Nostra”, un altro trascrive “Delinquenza Organizzata”, si fa caciara. Il giorno dopo Cosa Nostra legge i quotidiani e si rotola a terra dalle risate.

L’uso del Suo particolare dialetto siculo-americano. Non ha mai avuto il timore di essere accusato di seguire la moda iniziata da Camilleri, e di avere in un certo senso cavalcato l’onda del successo altrui? Adesso è molto diffusa l’ambientazione dei gialli in Sicilia e nel meridione in generale, così come l’uso del dialetto, più o meno difficile e/o contaminato.

No, non ho mai avuto questo timore. E in realtà non è mai accaduto. Nel caso capitasse, comunque, consiglierei all’accusatore di rendere più completa la sua accusa, e di tirare in ballo il successo di Mario Puzo, di Stefano D’Arrigo, di Emilio Gadda (ho abitato per quattro anni in via Merulana – location del “pasticciaccio”), di Angelo Musco (successo teatrale e cinematografico), ma anche di Guy Ritchie (ricordate lo zingaro interpretato da Brad Pitt in “The Snatch” che parlava una babele di lingue mischiate insieme?) senza dimenticare Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e James Joyce (l’Ulisse si svolge il 16 giugno, il giorno del mio compleanno, e già che ci siamo mi piacerebbe essere accusato di seguire la moda iniziata da Joyce). Non bisognerebbe dimenticarsi Tom Wolfe, che sullo slang dei carcerati ha scritto meravigliosi capitoli de “Un uomo vero” e sull’uso contemporaneo del termine “fuck” – il “minchia” siciliano – ha costruito bellissime pagine del recente “I am Charlotte Simmons”, in testa alle classifiche americane. Poi – naturalmente - ci sono i Soprano’s – serie televisiva su un boss che va in analisi per stress da “bossaggine” che ha avuto uno strepitoso successo in tutto il mondo (e che immagino, a loro volta, siano stati accusati di rifarsi al film con Robert De Niro “Terapie e pallottole” e al sequel “Un boss sotto stress”). E infine influenze dalla bellissima Victoria Gotti, elegante figlia di John Gotti – citato in Lou Sciortino – che è protagonista di un reality in America dal titolo “Growing Up Gotti”. Aggiungerei che, essendo il romanzo interamente ambientato dentro “Cosa Nostra”, si dovrebbe citare il successo de “Il piccolo Cesare” di W.R. Burnett (romanzo che ritengo di stampo verghiano – ah già Verga, e visto che parliamo di Catania bisognerebbe citare Vitaliano Brancati), più i romanzi di Condon sulla famiglia Prizzi. Ma c’è anche l’intera serie di Parker di Richard Stark – pseudonimo di Donald Westlake – ambientata nel mondo della malavita organizzata italoamericana, e stavo per non citare le poesie pornografiche in dialetto di Micio Tempio che godono di un incredibile successo anche al di fuori della Sicilia. L’unica cosa di cui non avevo timore era che Lou Sciortino fosse avvicinato a “Le Correzioni” di Franzen, libro che ho amato; non mi spaventatava affatto che qualcuno scrivesse che il mio romanzo fosse “Le Correzioni” in salsa mafiosa, d’altronde si tratta solo di sostituire un paio di consonanti – più precisamente togliere una elle e aggiungere una gi e un’acca – per passare da un romanzo sulla famiglia a un romanzo sulla famigghia.

Cosa prova un esordiente ad avere un tale successo con la sua opera prima? Sente il peso della responsabilità di non deludere i Suoi lettori con i prossimi lavori?

Vengo dallo stress per il primo romanzo. Al momento non ho nessuno stress per quanto riguarda il secondo.

Può darci qualche anticipazione sui prossimi libri?

Lou Sciortino tornerà al terzo romanzo. Il secondo è una storia che mi frulla in testa da tanto tempo. Una storia molto “british”, almeno quanto la prima era “american”.

Catania
Catania
Catania è una città che ha dato e sta dando molto alla cultura, alla musica, alla creatività in generale. Cosa si augura per la Sua città, e cosa pensa che si possa fare per portarla all’avanguardia (culturale) nel vero senso della parola?

A essere sincero è nelle realtà più difficili che si creano i migliori caratteri artistici, che magari daranno il meglio di sé altrove. Non penso solo ai siciliani, ma a tutta la storia degli emigranti, che si sono formati in realtà difficili, e che poi, spostandosi in ambienti - come definirli? - più “funzionali” hanno saputo realizzare le loro potenzialità. Come Lei ha giustamente detto la Sicilia ha dato, sta dando, e darà tanto alla cultura. Forse è già all’avanguardia (per essere all’avanguardia bisogna avere un solido impianto classico, e la Sicilia lo ha). E’ nella “società” che ci sarebbe qualcosa da fare, non nella “cultura”. Ma anche qui il discorso è complesso.

Cosa Le piace leggere? E quali sono i Suoi autori preferiti?

Filosofia, teologia, narrativa di qualità, e narrativa commerciale, saggi, inchieste, poesie, fumetti, rotocalchi rosa e riviste specializzate, dalla geopolitica alla moda. Adesso che mi ci fa pensare leggo di tutto. Gli autori da comodino al momento restano Shakespeare e Dickens. Mi divertono immensamente.

Nel Suo libro si nota una grande passione per il cinema. Ci parli dei Suoi miti cinematografici, e di come il cinema ha ispirato o influenzato la Sua scrittura. Cosa ne pensa del fatto di venire spesso “affiancato” a Quentin Tarantino?

Il cinema è stato molto importante. A Catania, negli anni Settanta, c’erano cinema in cui proiettavano tre film al prezzo di uno: un western, un poliziottesco, e un film di karate, si beveva la “gazzosa con la pallina”. D’estate la mia città è piena di “arene”, cinema all’aperto, dove proiettano il meglio della stagione invernale. Sono un grande consumatore di dvd e videocassette. Amo il cinema hollywoodiano, anche nelle storie più insulse trovi genialità nella struttura narrativa. Il cinema inglese, letteralmente, lo adoro, ci sono commedie romantiche che sembrano scritte da Aristotele, pellicole che, pur non avendo la grandiosità hollywoodiana, hanno un senso della “storia” praticamente perfetto. Mi piacciono i film francesi, sia quelli estenuantemente “lenti” e parlati, sia – e sono tra i miei preferiti – le famigerate “black comedy” genere in cui i francesi sono eccelsi: un nome per tutti Jean Paul Belmondo. Mi piacciono i film-tv tedeschi, prodotti per le televisioni via cavo, sceneggiature appicicaticcie e attori assolutamente improbabili, che però mi sembrano una proiezione contemporanea di quello che doveva essere il teatro una volta: talmente tanta finzione che parlano direttamente con la parte astratta della nostra mente. Per quanto riguarda Quentin Tarantino, ogni volta che lo tirano in ballo a proposito del mio romanzo penso a Elmor Leonard, penso che gli italiani vanno al cinema a guardare Tarantino e non leggono Elmor Leonard. O Ed McBain.

C’è un personaggio del Suo libro a cui è particolarmente affezionato? E che Lei sappia, qual è il più amato dai lettori?

Io e il mio editore non riusciamo a parlare di Don Giorgino Favarotta senza essere presi da una ridarella incontenibile come quella che a volte ci prendeva al liceo. Un giorno è stato drammatico, dovevamo lavorare al capitolo in cui Don Giorgino e Sal Scali si incontrano in macchina per progettare alcune “azioni”. Io mando il capitolo via email e dopo un po’ mi telefona Marcella Marini, ufficio diritti esteri della Neri Pozza, che mi dice: “Ma che avete combinato? C’è Russo chiuso nella sua stanza che sta ridendo come un pazzo”. Mia sorella stravede per quella buttanazza di Greta. A Catania Tony è diventata un’icona, a chi si veste in maniera eccessivamente “Seventies” viene subito detto: “E che ti sei vestito come a Tony?”. Nunzio e Agatino sono gli eroi della Marini. I napoletani stravedono per Frank Erra. La mia agente a Londra, Laura Susjin, ama il regista fuori di testa Leonard Trent. Cettina è l’idolo di tutte le “mogli” che conosco. Un importante personaggio del mondo editoriale, donna, è innamorata della enigmaticità di Lou Sciortino junior. Pippino ‘u ciantru piace a tutti. Uno degli importanti editori che ha acquistato il libro mi ha detto in un bar di Londra che Sal Scali è un grandissimo “character”. A me piacciono Mindy e Valentina.

Lei è un appassionato di musica; leggiamo nelle Sue note biografiche che ha fondato una rock band e nel libro ci sono molti accenni musicali, a Charlie Parker, ai Bee Gees, fino agli Shocking Blue “liberatori” della fine. Che musica predilige e come sceglie i riferimenti musicali da inserire fra le pagine? Chi sono i Suoi musicisti preferiti?

Mia madre è una pianista. Mia sorella una cantante lirica. Io ho fondato una rock band. C’è n’è per tutti i gusti. Ascolto il Beethoven più rock come il rock più classico. Amo il trip hop anglosassone e la rumoristica tedesca, trovo che i dj francesi siano geniali, ma anche il puro commercial inglese ha le sue perle. Naturalmente c’è Battiato, nel quale ammiro la capacità di passare da Foetus a Un’estate al mare. Poi seguo percorsi personali, aiutato dai programmi peer to peer che ti consentono di ascoltare di tutto in pochi minuti. Gli anni Settanta sono stati importantissimi per la musica. Ma anche i primi Novanta. Mi piace il post rock indipendente americano e ho una passione segreta e inconffesabile per il gotich rock ridondante e retorico.

Sappiamo che sta preparando una tesi di laurea su Jurgen Habermas e che ha scritto un libro intitolato “La morale del cavallo”, con post-fazione di Manlio Sgalambro. Che posto occupa la filosofia nella Sua vita?

Non so se ragiono come ragiono a causa della filosofia, o se la passione nei confronti della filosofia sia dovuta al mio modo di ragionare, propendo per la seconda ipotesi, ma risale molto indietro nel tempo e non vorrei sbagliarmi. Di sicuro c’è che la maggiori intuizioni riguardo alla filosofia, come il concetto di spazio-tempo, le abbiamo nei primissimi anni di vita. Carl Schmitt diceva che a volte il pensiero filosofico è così preponderante che anche la cosa più naturale del mondo, come bere un bicchiere d’acqua, diventa un problema. Diciamo che io ho già attraversato la fase in cui mi interrogavo filosoficamente sulle linee astratte che si disegnavano nella mia mente a proposito del bere-un-bicchiere-d’acqua. Il fatto è che, dopo, tutto cambia.

E’ molto “strano”, dopo tutto il trash e il kitsch del libro trovare un tale ’impeto nostalgico” alla fine… Cosa ha voluto dire?

Il sussulto di nostalgia, finisce con la frase: “Diciaccillo a me niputi, ca tutto chiddu ca ci cuntai, ancora, deve succedere”. E’ una sorta di nostalgia rivolta al futuro. Un sentimento che mi piace frequentare.