Uno dei film dall’impatto drammatico più forte all’undicesima edizione del FEFF di Udine è stato sicuramente il collettivo Chants of Lotus, uscito in versione censurata in Indonesia per i suoi contenuti controversi riguardanti il mondo femminile ma disponibile in edizione integrale nei circuiti internazionali.
Nel primo episodio, Canto da un’isola, la regista Fatimah T. Rony si concentra sulla vicenda personale dell’ostetrica Tri (Rieke Dyah Pitaloka), minata da un cancro al seno ma intenzionata a portare avanti la sua professione con fierezza andando anche contro la legge. Tri pratica infatti aborti, che oltre ad essere illegali sono considerati un peccato dalla società in cui vive ed è stata processata in passato per le sue azioni, considerate “criminali”. Un vile atto di stupro ai danni della vicina di casa Wulan (Rachel Maryam), ragazza muta affetta da ritardo mentale, porta Tri a scontrarsi ancora una volta con i pregiudizi e il tacito maschilismo che sottende alle azioni di tutti gli isolani, compresa la nonna della ragazza che, di fronte al “risarcimento” in denaro proposto dai poliziotti in luogo di un regolare processo ai danni del colpevole, è pronta ad accettare senza esitazioni perché protestare crea sempre problemi. Tri intende fare qualcosa per restituire dignità a Wulan, ma la sua condizione di ostetrica sempre al limite della legalità la rende un bersaglio facile della polizia, che arriva a minacciare sia lei che il marito. La corruzione alla fine prevarrà su tutto e Tri sarà costretta a lasciare l’isola, abbandonando Wulan al suo destino e a un parto non voluto che di certo non la riscatterà dalla schiavitù dei pregiudizi e del dolore.
Il secondo episodio, Canto da una città turistica diretto da Upi, si sposta nella città di Yogyakarta fotografando l’agghiacciante realtà di un gruppo di adolescenti il cui unico scopo nella vita è quello di fare sesso con più persone possibili. I maschi del gruppo si ritrovano spesso in un internet shop dove, oltre a visitare siti porno nonostante siano minorenni, possono accedere a una stanza appartata dove “deflorare brave ragazze”, quasi sempre senza preservativo perché lo ritengono “soffocante”. E se qualcuna di loro dovesse rimanere incinta per sbaglio, come accade dopo una serata di sesso di gruppo, basterà tirare a sorte per decidere chi di loro sposerà la ragazza. Lungi dal volersi opporre a queste pratiche sessuali totalmente anaffettive, vissute anzi come “liberatorie”, le ragazze rispondono con entusiasmo alle richieste dei loro coetanei, dimostrandosi intossicate dal sesso sia nei fatti che nelle parole. Safina (Kirana Larasati) è l’unica che cerca di analizzare con sguardo critico la realtà distorta che la circonda, ma poi la favola dell’amore, sopraggiunta nelle sembianze del bel giornalista in incognito Jay (Fauzi Baadila), renderà anche lei vittima degli impulsi fugaci di un maschio come tanti, il quale si rivelerà ancora più squallido dei coetanei di Safina, sfruttando uno scoop sugli adolescenti “viziosi” per avanzare di carriera concedendosi anche un diversivo con una ragazza giovane, disponibile perché innamorata.
Nel terzo episodio diretto da Nia Dinata, Canto da un villaggio, ci allontaniamo nuovamente dal fragrore della città per seguire le difficoltà di una madre sola, Esih (Shanty), alle prese con una figlia da crescere, Maesaroh (Ken Nala Amrytha), e un lavoro da donna delle pulizie in un locale notturno. Disillusa e stanca di lottare contro le angherie della vita e degli uomini, non ultimo il suo compagno Narto, che non esita a molestare Maesaroh mentre la donna è al lavoro, Esih ha come unica consolazione l’amicizia con la cantante Cicih (Sarah Sechan), che sogna di sfondare nel campo della musica. Sarà proprio Cicih paradossalmente a rendere Maesaroh vittima delle attenzioni di un sedicente produttore musicale: accecata dal miraggio di un contratto musicale nella capitale, Cicih promette all’uomo di portare Maesaroh a Jakarta con lei, non rendendosi conto del rischio che la bambina corra in realtà. Esih si ritroverà all’improvviso sola e disperata, ma Cicih riuscirà a fuggire dall’esperienza infernale di prostituzione nella quale è finita insieme a Maesaroh, e le due donne adulte cercheranno di avvertire la polizia per porre fine alla tratta delle minorenni.
Con il quarto e ultimo episodio, Canto dalla città capitale di Lasja Susatyo, arriviamo a Jakarta, dove Laksmi (Susan Bachtiar), rimasta sola con la figlia Belinda dopo il decesso per overdose del marito tossicodipendente malato di HIV, viene accusata dai suoceri di aver “contaminato” il figlio e per questo motivo le viene intimato di allontanarsi dalla bambina e affidarla ai nonni. Il pregiudizio di cui la donna è vittima (è lei a essere giudicata infedele, mentre in realtà è stato il marito a tradirla sessualmente e a trasmetterle il virus) non la fa rassegnare, e Laksmi decide di intraprendere un viaggio disperato con la figlia in fuga dai suoceri. Lasciata la casa di proprietà del marito, la donna comincia a vagare per i quartieri della città in cerca di un alloggio, ma l’avanzare della malattia le impedisce di avere una vita normale, e quando in sua assenza Belinda dà fuoco all’appartamento dove hanno trovato ospitalità, Laksmi capisce che la sua corsa è finita: accompagna la bambina a scuola pur sapendo che non la rivedrà mai più e si allontana, andando incontro alla morte.
Pur essendo un film a episodi, “Chants of Lotus” riesce a dare una visione omogenea della realtà di sfruttamento, emarginazione e discriminazione che le donne patiscono ancora in Indonesia (e verrebbe da dire anche nel resto del mondo). Le registe riescono in maniera molto semplice e diretta ad esprimere la mancanza di riconoscimento della differenza femminile all’interno della cultura dominante, per definizione maschile e dunque tesa e legittimare intrusioni di ogni tipo nella sfera individuale e collettiva delle donne per toglier loro ogni possibilità di indipendenza e autonomia. Un atto d’accusa sull’universale invasività molesta che troppo spesso contraddistingue il comportamento maschile in ogni angolo del globo, e che dovrebbe spingere a riflettere su nuove possibili pratiche di convivenza da adottare per convivere civilmente nella società come donne e uomini responsabili.
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