Mi capita a volte di essere paragonato a Salgari. Ne vado fiero, con qualche distinguo. Non sempre il paragone è evocato con l’affetto e la stima dovuta al primo vero narratore d’avventure italiano. Mi è capitato di sentire o di leggere l’accostamento tra il mio lavoro e quello di Emilio come se Salgari fosse stato uno scribacchino di poco conto, uno che s’era inventato tutto e buttava giù storie al chilo (di conseguenza anche io...). Sì, i tempi erano diversi, ma onore allo scrittore veronese che, con una situazione familiare non facile, figli a carico e banche appresso, sfornava magnifiche avventure senza potersi spostare da casa. Vero è che i denigratori non mancavano neanche allora. Lo chiamavano “la tigre della magnesia” e gli rinfacciavano di non essere mai andato oltre una crociera sull’Adriatico e di aver sostenuto un solo duello in un club di scherma della sua città. E allora? L’avventura è uno stato d’animo. Sta negli occhi e nel cuore di chi sa guardare oltre i tetti grigi delle case e vedere il tramonto sulla Malesia, immaginarsi tempeste e intrecciare storie. E sul fatto che Salgari fosse un abilissimo tessitore di trame non v’è dubbio. Si documentava su quello straordinario veicolo che era ‘Il giornale di viaggi e di avventure’ e poiché il cinema ancora agli albori, trovava nello spettacolo popolare più diffuso ispirazione e atmosfere. Perché nelle storie di Salgari c’è sempre il melodramma che era un po’ il cinema dell’epoca. Sicuramente se avesse potuto avrebbe ampliato i suoi orizzonti. Ma Salgari era un vero scrittore pulp italiano, non un poeta o uno di quelli cui basta sentire il proprio nome strombazzato per ritenersi arrivati. I soldi doveva portarli a casa ogni mese, perciò scriveva, macinava avventure sapendo che il suo pubblico lo seguiva esigente. Le sue storie, anche se lo stile oggi ci appare forse un po’ ostico, sono ancora tra le più appassionanti avventure mai raccontate. A questo Salgari sono fiero di venire accomunato. Io sono, però, un uomo di un altro tempo. Ho imparato ad amare l’avventura, l’esotismo, tanto sulle pagine salgariane che nelle palestre marziali degli anni ’70, su Segretissimo e al cinema. Non ho mai pensato di diventare un mercenario o di raccontare le “mie” avventure. Questo non significa che, sulla scia di autori come Jean Bruce, non ritenga che un minimo di esperienza sul campo per raccontare di avventure, intrighi e azione uno non se la debba fare. Un esempio di qualche sera fa. Il set. Il Sud Dinner Bar come tutti i giovedì. Pinketts e Kappy presentano un bel libro “La Mobile” di Paolo Brera e Celeste Bruno che è un poliziotto vero e anche un duro, tanto che lo chiamano il Mastino. Insomma roba interessante. Un gruppo di figli di papà e le loro galline si siedono al tavolo dove ero seduto con alcuni amici e amiche. E cominciano a parlare ad alta voce, mezzi fatti, a far casino, disturbando. Ora, se c’è una cosa che mi infastidisce alle mie come alle presentazioni, è la maleducazione. Dopo un po’ non ne posso più. E allora ricordo quello che mi ha insegnato un mio amico che fa il buttafuori in un locale di lap-dance. Inutile fare i duri inutilmente. Niente rischi. Basta mandare un messaggio, neanche troppo strombazzato. Picchio una manata sul tavolo, così senza neanche guardarli. Una fucilata che loro hanno sentito e capito di certo. Poi, sempre senza guardarli rigiro il mio boccale di birra spargendo sul tavolo quel poco che era rimasto. Gesto banale ma previdente. Siccome c’erano anche un paio di “ grossi” avevo già un ‘proiettile’ pronto a schizzare. Non cercavo risse, non è il mio carattere ma... dunt’ fuck with me. Insomma la combriccola dopo pochi attimi si alza e se ne va a bere da un’altra parte. Io non lo so se hanno capito il messaggio oppure avevano semplicemente voglia di andare a far casino da un’altra parte ma la presentazione è finita nel rispetto che meritava. A me piace pensare che le cose che mi ha insegnato il mio amico bouncer siano servite a qualcosa. Se non altro a evitare uno scambio di urlacci che poteva degenerare in una rissa vera. Di quelli che erano intorno a me, credo abbia notato qualcosa una mia amica che, intelligentemente, ha fatto solo un risolino. Queste sono storie vere che, raccontate in un’avventura possono risultare banali. Ma è l’atmosfera che si coglie che conta. In un racconto ci sarebbe stata una scazzottata spettacolare.... Ovviamente l’emozione di un piccolo pericolo, di una difficoltà magari senza vera importanza devono essere trasferite e trasformate sulla pagina. Perché è ‘questo’ il nostro mestiere. Volevo fare il narratore. E le armi migliori del narratore sono la fantasia e l’amore per le proprie storie, qualità coltivate giorno dopo giorno con approfondimenti ma anche esperienze. Per questo ho cominciato a praticare il Karate, la Thai Boxe da buon atleta con una enorme passione che forse ha compensato carenze tecniche e fisiche ( qualche calcio però sono in grado di tirarlo, oggi come allora e qualcuno lo sa...). Ho viaggiato moltissimo, in Oriente, e ne ritengo impressioni vivide e indimenticabili. Non sono andato in Asia perché ero inseguito dai creditori. Neanche dalla polizia. Da turista. Tra i tanti viaggi ne ricordo uno che pagai con il compenso del mio primo romanzo Mondadori “Per il sangue versato”. Bastava per una settimana tra Nepal e India, alla ricerca delle tigri. E quando mi sono trovato nel Terai, a seguire le tracce di una mangiatrice d’uomini in un contesto, devo ammettere, abbastanza ‘addomesticato’, non mi pareva vero. Io ero lì, da solo, a caccia di tigri, nel centro dell’Asia. Neanche all’arrivo delle staffette del primo romanzo mi ero sentito così emozionato. E da una traccia di zampa di ‘Khala bag’ impressa nel fango, in riva al fiume, nascevano avventure, inseguimenti intrighi. In Asia ci sono tornato per più di quindici anni, a intervalli e in modi differenti. Ci ho scritto anche un paio di libri “seri”(“Dragons Forever”, Alacràn, e “E nel cielo nuvole come draghi”, Touring Club, ma sempre cercando di scavare nella cultura del sogno di quell’Asia così affascinante ed elusiva per noi ‘gweylo’) E ogni volta ho portato con me qualcosa di indimenticabile. Alcune emozioni sono entrate nei miei romanzi d’avventura, altre cose le tengo per me. Perché sono la mia vita. Qualche avventura sì, nulla di favoloso, perché la vita è spesso banale, quasi grottesca. Con il Pulp, che è un mondo a parte, essa condivide una frontiera ma il narratore accorto sa quando e quanto si può attraversare il confine tra ciò che è verosimile e aiuta il racconto e lo slancio che è tipico dell’action writer. In particolare chi viaggia prima o poi s’imbatte nell’espatriato. Che non è un genere solo di uomo o di donna. E non è né positivo né negativo a priori. Ominicchi si è qui quanto all’equatore. O il contrario. Ci sono personaggi patetici, cialtroni e gente che, malgrado tutto, ha veramente una storia che merita di essere raccontata. In un racconto Pulp l’espatriato finisce sempre per trovare il suo posto, spesso come comprimario perché è, sotto un profilo drammatico, una figura patetica. Un disadattato tra due mondi che, nella finzione narrativa può anche conservare un alone romantico. Ma forse solo nella fantasia. Un mio amico è l’emblema di questo genere di personaggi. Non dirò il suo nome. Per darvi l’idea di quanto sia pazzo (nel senso buono, cioè “imprevedibile e incosciente” che è quello che preferisco) da piccolo si è dato fuoco. Per gioco. La sua battuta preferita era: “Ehi, non toccarmi il culo” quando porgeva la mano ricoperta con una striscia di epidermide presa dalla natica. In Europa non aveva combinato granché. Disegnatore di moda senza troppo brio era, però, un eccezionale compagno di sbronze, di quelli che, con quel suo accento francese un po’ esagerato, mi ricordavano il protagonista del romanzo di Murakami Ryo “Tokyo soup”. Sì, quello che portava i turisti in giro per il quartiere del sesso. E, a Macao, il mio amico si era adattato perfettamente. L’idolo della sala massaggi ‘Darling One’ ( vicino allo scalo dei batiscafi. Luogo di perdizione in cui, per un certo periodo, intorno al 2006, un minimo di fama la guadagnai anche io...), era diventato un frequentatore assiduo... tanto da scordare ragionevoli precauzioni. Si prese l’epatite e quasi ci lasciò le penne. Ma alla fine ce la fece. Non solo. Ha sposato una thai che era la più bella del salone. Hanno vissuto per un po’ a Bangkok dove lei ha fatto la diva delle soap e lui ha imparato rispettare gli insegnamenti dello zio buddista. Adesso vivono a New York. Una favola felice. Buono spunto per un comprimario. Verosimile. L’avventura esotica, magari condita con sesso e violenza, è stata la seconda anima del Pulp assieme alle storie di detective e gangster, sin dai primi del ‘900. Prima degli anni ‘30 i Pulp brulicavano di finti reportage negli harem dei califfi, storie di isole sperdute dove bionde fanciulle venivano brutalizzate, mariani divorati dai cannibali... dopo il secondo conflitto mondiale le storie d’avventura pubblicate su ‘Men Adventure’, ‘Battle Cry’ e molte riviste simili assunsero diverse caratteristiche dando origine a un filone prolifico e fortunato di cui è figlio non solo Clive Cussler ma anche lo spionaggio avventuroso alla James Bond. Sempre restava l’esotismo, l’orizzonte lontano descritto con dettagli realistici quanto le avventure risultavano impossibili, ma l’eroe solitario diventava davvero il fulcro della storia. Erano vicende nate per ricordare a tutti quei giovani uomini che avevano affrontato la ‘guerra vera’ che i loro sacrifici avevano valore. In un mondo post bellico dove il reinserimento dei reduci risultava complicato, il rifiuto di chi se n’era stato al sicuro più accentuato, e, per tirare la fine della settimana, un soldato di valore era costretto ad accettare lavori estenuanti e mal pagati, il Pulp assolveva a una funzione precisa. L’eroe solitario, ardimentoso, con una sua morale dove la violenza e la cavalleria si legavano senza necessità di spiegazioni logiche, assolveva a un compito importante. La lettura, come sempre, arrivava a soddisfare necessità psicologiche, alimentando sogni. E i sogni, forzatamente, hanno sempre un orizzonte che, a chi non possiede fantasia ma solo ambizione, sembrano ridicoli. Il racconto d’avventura pura poi non ha paternali, messaggi sociali da proporre. È un caleidoscopio di emozioni e trame ben congegnate, di vero e falso, di illusioni e di amarezza. Alla fine anche di volontà di riscatto. E per incollare insieme tutto ciò ci volevano narratori veri, gente capace di imbastire storie, di trovare il particolare illuminate dove gli altri vedevano solo sobborghi sozzi di una città tropicale. Uomini capaci di vedere, o magari solo di immaginare, sguardi di donne ardenti. Di contrapporsi a cattivi che, nella loro malvagità totale, ispiravano rispetto. Scrittori, diciamolo, in grado di raccogliere la materia grezza e plasmare magnifiche emozioni. Io credo che Salgari fosse così. Un narratore italiano di cui andare fieri. Una tradizione che a volte dimentichiamo. E dileggiamo pure. Preoccupati come siamo di apparire e non di essere. Il narratore vero, il cantastorie, dalla notte dei tempi intorno ai fuochi, sulle pagine dei Pulp, sui romanzi “da edicola” alla fine non rifiuta il successo o il denaro (come diceva Lo Sconosciuto “Quelli ci vogliono sempre e io ho passato l’età per rapinare le banche!”) ma più di ogni altra cosa ama le sue storie il suo mondo. E cerca di condividerlo con gli altri. Con quelli che lo meritano almeno. Colleghi e lettori. Italiani, perché no?

E quando mi guardo in giro vedo molti colleghi che seguono genuinamente la mia strada. Giancarlo Jack Narciso e Alfredo Colitto, per citarne due. Ma anche Andrea Carlo Cappi e Gianfranco Nerozzi. La Foreign Legion di ‘Segretissimo’, guardacaso... ne riparleremo...