Gli inizi del ’900 vedono il fiorire della passione per gli scherzi alla maniera del “Catalogo dei libri del conte di Fortsas" (visto nel precedente articolo), elenchi cioè di pseudobiblia con in più una certa dose di umorismo. Nel 1910 il bibliofilo Edmond Cuénoud fa stampare il “Catalogue des livres de la Bibliothèque de M.Ed.C.”, in cui si possono trovare descrizioni del genere: «Abelardo, scompleto, tagliato» [riferimento al fatto che Pietro Abelardo fu evirato per aver sposato l’allieva Eloisa]; «“L’ultimo dei Mohicani”, [rilegatura in] pelle rossa», e via dicendo. Fra il 1910 e il 1912 il libraio Martin Breslauer fa circolare un “Die unsichtbare Bibliothek” (La biblioteca invisibile): ovviamente, una lista vuota!
Ma è del 1904 il più fulgido e geniale esempio di pseudobibliotheke, cioè di una biblioteca immaginaria: si tratta del racconto “La biblioteca universale” del filosofo, scienziato e scrittore tedesco Kurd Lasswitz (in realtà la grafia originale sarebbe “Laßwitz”, ma per comodità si è scelto l’uso grafico della doppia “s”).
L’assunto del racconto è semplice: «si potrebbe rappresentare in lettere tutto ciò che l’umanità potrà mai recepire, siano essi fatti storici, la comprensione scientifica, la forza poetica o perfino gli insegnamenti della saggezza». Postulati 100 caratteri che racchiudano tutti i simboli alfabetici, numerici e di interpunzione, una biblioteca abbastanza grande potrebbe contenere tutti i vari incroci di questi 100 caratteri, dando vita ad un maestoso “magazzino” dove trovare tutto ciò che si può rappresentare a parole. «Ci troveresti anche gli scritti perduti di Tacito e Platone e le relative traduzioni. Di più, le opere complessive e future di entrambi noi, tutti i discorsi dimenticati o non ancora pronunciati di tutti i parlamenti, la versione ufficiale della Dichiarazione di Pace Universale, la storia delle guerre che ne sono seguite».
Ovviamente solo una piccola parte dei libri della biblioteca sarebbero comprensibili da un qualsiasi lettore: la stragrande maggioranza, infatti, sarebbe costituita dagli incroci senza significato dei 100 caratteri. «Prendiamo il primo volume della nostra biblioteca fra le mani, per esempio. La prima pagina è vuota, così la seconda, come lo sono tutte le cinquecento pagine che lo compongono. Si tratta, sicuramente, del volume dove il carattere dello spazio è ripetuto un milione di volte». Così può capitare un libro pieno di virgole o di punti, oppure anche solo metà scritto e per metà pieno di punteggiatura, e via dicendo. Da questo si evince che sì, nella biblioteca ipotetica ci sarebbe veramente tutto ciò che sia possibile rendersi a parole, ma principalmente ci si troverebbe immersi in un mare di “rumore inintellegibile".
L’idea di Lasswitz affonda le radici nel pensiero atomistico. Nel primo libro della Metafisica Aristotele fa notare come gli elementi che compongono una commedia sono gli stessi che compongono una tragedia: gli elementi sono le 24 lettere dell’alfabeto. Quindi degli elementi base fissi, degli atomi, possono creare prodotti diversi a seconda di come vengono mescolati. La biblioteca ipotizzata da Lasswitz, per essere veramente universale, deve possedere tutte le possibili varianti, tutti i possibili incroci degli atomi, delle lettere dell’alfabeto. Impaginando i risultati in un volume fisico, l’autore si azzarda addirittura a calcolare il numero di libri che potrebbe riempire la biblioteca: 10 elevato a due milioni... Un numero spaventosamente grande, ma comunque finito. Non sarebbe una biblioteca infinita, ma semplicemente molto grande.
Nel 1939 il maestro di Buenos Aires, Jorge Luis Borges, scrisse di Lasswitz e della sua biblioteca nell’articolo “La biblioteca total” (apparso sul quotidiano Sur), che probabilmente utilizzava il materiale raccolto per uno dei racconti più famosi dello scrittore argentino: “La Biblioteca di Babele” (raccolta dapprima nell’antologia “Il giardino dei sentieri che si biforcano” (1941), in seguito in “Finzioni”).
Nel racconto, Borges immagina una biblioteca infinita, in grado di contenere tutto ciò che è stato scritto... e tutto ciò che si può scrivere. Lo scritto e lo scrivibile, dunque, si ritrovano nello stesso pseudotopos, un luogo immaginario che unisce la realtà all’irrealtà.
L’autore mette subito in chiaro la propria non-paternità dell’idea; «Non sono il primo autore del racconto “La biblioteca di Babele”» scrive in premessa all’antologia: come si diceva, già nell’articolo del ’39 Borges riconosceva in Lasswitz il primo “esecutore” di un’idea ancora più antica. Entrambi gli autori, quindi, partono dal presupposto che gli incroci dei 24 simboli dell’alfabeto siano sì spaventosamente numerosi, ma non infiniti: un luogo che sappia contenerli tutti, conterrebbe dunque tutto ciò che può essere scritto. Borges parla di questo luogo utilizzando una grande magia narrativa e creando un luogo infinito con più livelli interpretativi. È un microcosmo talmente grande da diventare macrocosmo, pur mantenendo entrambe le proprietà; è un non-luogo che però ha le proprietà di tutti i luoghi.
Ma che libri può contenere una Biblioteca di Babele? Tutti, ovviamente, che siano intellegibili o meno. Potrebbe bastare questa risposta, ma Borges cede alla tentazione di divertirsi alle spalle del lettore creando pseudobiblia, e quindi cita i titoli “Tuono pettinato”, “Il crampo di gesso” e “Axaxaxas mlö”. Un altro ancora, di cui però tace il titolo, «è un mero labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice “Oh tempo le tue piramidi”». Anche qui Borges non resiste al gioco dell’autocitazione: come infatti Edgar Allan Poe inserisce la propria poesia “Il palazzo stregato” (The Haunted Palace) all’interno del racconto “La caduta della Casa degli Usher”, così il maestro argentino cita un verso della propria poesia “Dell’inferno e del cielo”; ma non gli basta: per un ennesimo gioco letterario, la poesia non era ancora edita! Sarebbe stata pubblicata solo l’anno successivo (raccolta in “L’altro, lo stesso”). Nella Biblioteca di Babele, quindi, c’è un libro che contiene già un verso di una poesia di Borges che ancora deve vedere la luce...
Nel succitato articolo di Sur, apparso due anni prima dell’uscita del racconto, Borges chiude con queste parole enfatiche: «Una delle abitudini della mente è l’invenzione di fantasie orribili. [...] Io ho riscattato dall’oblio un orrore subalterno: la vasta Biblioteca contraddittoria, fra i cui deserti verticali di libri corre l’incessante vizio di cambiarsi in altri e che tutti la affermano, la negano o la confondono con una divinità che delira.»
Va però specificato che il maestro bonaerense non fu mai particolarmente legato a quest’opera: «Ho scritto quel racconto quando cercavo di imitare scrupolosamente Kafka. L’ho scritto quarant’anni fa e non lo ricordo più, in realtà», avrà a dire in un’intervista del 1980 (raccolta in “Conversazioni americane”, a cura di Willis Barnstone, Editori Riuniti 1984). Malgrado questo, “La Biblioteca di Babele” gode (e godrà) di fama imperitura.
Lo stesso anno della pubblicazione della pubblicazione del precedente racconto, il 1941, l’autore statunitense Nelson S. Bond venne ispirato forse da Borges, o forse dalla stessa ispirazione che visita l’autore argentino in quel periodo: sul numero di novembre della rivista “Blue Book”, infatti, appare il racconto “La libreria” (The Bookshop).
L’autore non punta in alto, non ambisce a creare biblioteche sterminate contenenti ogni scibile umano: si accontenta di una piccola libreria. Qui il protagonista (scrittore inconcludente) trova dei titoli stupefacenti: «Vide con meraviglia vasta e incredula Christopher Crump di Charles Dickens, L’occhio del doccione di Edgar Allan Poe, Il Colonnello Cowperthwaite di Thackeray, e La libreria privata di Sir Arthur Conan Doyle. [...] Vide nomi che gli erano noti quanto il suo, ma titoli di cui non aveva mai immaginato l’esistenza. I Trogloditi di Jules Verne, Quale Presenza Invisibile? di Charles Fort, Hanuman, il primo Dio di Ignatius Donnelly, La conquista dello spazio di Weinbaum, e la voluminosa Storia Completa della Demonologia di Lovecraft.» Sembra superfluo specificare che si tratta di pseudobiblia: gli autori sono veri, ma i titoli non hanno mai visto la luce...
Lo stupore del protagonista accresce quando, fra i libri stampati, trova il titolo a cui sta lavorando e che non riesce a concludere: “Gli Inferiori”. «Oh, erano stati apportati dei cambiamenti, scoprì, nei capitoli iniziali. Ma erano correzioni minori. Tutto il resto era come l’aveva scritto. Con mani tremanti girò le pagine bianche e pulite. I suoi occhi cercavano avidamente parole che fino ad allora non avevano mai conosciuto la stabilità della stampa, lesse pensieri che fino ad allora erano esistiti solo nella sua mente».
Lasswitz ha concepito una biblioteca enorme ma finita; Borges l’ha resa infinita, quasi divina: Bond si accontenta di una libreria specializzata: la definisce una «Biblioteca dell'Avrebbe Potuto Essere». Solo qui «una storia può raggiungere le altezze immaginate dal suo autore. Qui, accanto ad un poema epico che Omero avrebbe sempre voluto scrivere, c’è il dramma che Marlowe aveva progettato ma che non mise in parole, c’è l’ultimo e più giovane romanzo di Galsworthy, e ci sono diecimila racconti non scritti da migliaia di sognatori.»
Un’ultima parola la scriverà più di sessant’anni dopo Errico Buonanno, il quale sposterà l’infinito letterario e l’«Avrebbe Potuto Essere» dal chiuso di una biblioteca all’aperto del mondo: la razza umana inventa storie da quando è nata, ma in realtà tutte le storie sono solo capitoli di un intero vasto romanzo, a cui tutti partecipano... È l’umanità stessa il più grande degli pseudobiblia, perché senza saperlo sta contribuendo al più grande romanzo mai scritto di sempre... Ma questa è un’altra storia...
Per finire, si fa notare come il racconto di Lasswitz abbia visto un totale di solo due edizioni italiane: la prima nel 1992 nell’antologia Futuro Europa 11 (Perseo Libri); la seconda nel 2006 in Racconti matematici (Einaudi). Il racconto di Borges ha visto invece una rosea fioritura di ristampe, e lo si può trovare raccolto nell’antologia Finzioni (Einaudi). Il racconto di Bond lo si trova esclusivamente nell’antologia Il furore di Cthulhu (Fanucci, 1988).
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