“Hai visto disse Sinisa.” Fissandola. E l’altro rispose …si, è lì che ci aspetta, ci chiede di finire la partita, e lo disse pure lui con il respiro pesante e il petto che si muoveva a fatica. Si alzarono e fecero qualche passo verso l’ingresso del bar di Nazim continuando a tossire e cercando un filo d’aria che non facesse bruciare i polmoni. Poi Radko alzò il braccio e indicò con il dito oltre la nube di polvere che ristava a mezz’aria.
“Il muro… Sinisa, il muro della chiesa…”
“Non c’è più...” E si grattò la testa.
Rimasero a fissare la ferita nel retro dell’antica chiesa ortodossa. La campana si mise improvvisamente a suonare con un rintocco sordo, angosciante, e il prete si portò fuori dal portale con le braccia allargate, come un cristo in croce, e incominciò a incamminarsi verso le macerie in fiamme.
Proprio mentre Nazim usciva dal suo bar.
Stringeva un violino sulla spalla e stava pizzicando le corde con la punta delle dita. I suoni erano rauchi, quasi dolorosi. Poi allungò l’archetto e ne tirò fuori un’armonia lenta e malinconia. Ne usciva una specie di nenia che traforava il cervello con un ritmo monotono. Nazim camminava e suonava, e batteva il piede a terra cercando di tenere insieme il ritmo del tempo e del passo.
Cresceva però di volta in volta la rabbia nei suoi movimenti, e quello dell’archetto e anche della spalla che teneva stretto il violino alla mascella, e pure l’accento sulle note. Sempre più spigolose e crude. Fin quando quella stessa rabbia non prese il posto dell’armonia, e il ritmo cresceva di intensità, di forza, come stuzzicato da violenti colpi di frusta, e la musica si trasformò in ballo, gioioso, da festa dove si beve fino a tarda notte e l’ubriacatura non passa neanche il giorno dopo.
“Ehi – disse il turco incrociando Sinisa e Radko – e voi due non finite la vostra partita? Non dobbiamo dargliela vinta… dobbiamo ballare, cantare, e giocare come sempre… alla faccia di quei criminali…”
“La partita è già finita.” Disse Sinisa.
“Pari, come al solito?”
“No, oggi è diverso: uno ha vinto e l’altro pure. Basta con la parità.” Replicò Radko.
“E cosa volete fare?” disse Nazim appoggiandosi il violino al fianco.
“Io vado a prendere il figlio del vinaio.” Disse Sinisa.
“E io quell’altro… che non so chi è.” Disse Radko.
“Ce l’avete la forza per caricarveli sulle spalle?”
“Li possiamo tirare su tutti e due insieme se vogliamo, perché le nostre braccia sono ancora forti come un tempo, vecchia carogna d’un turco…” Disse Sinisa.
“Meglio se non andate da soli… - replicò Nazim - E’ una brutta cosa la solitudine.”
“Già… non è bello restare senza amici.” Disse Radko.
Si incamminarono senza dire altro.
Tutti e tre in direzione della piazza, Radko e Sinisa, a piccoli passi, dritti davanti a loro, un pedone bianco, coperto di polvere, e uno nero, per l’oscurità che opprimeva il suo volto. E Nazim, con mosse da cavallo, in una specie di balletto infantile con un passo lungo in avanti e uno breve di lato, una volta a destra e una a sinistra, a guidare, con il suo violino tra la spalla e il cielo, l’ultima sfida di quel pomeriggio.
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