“Riaprono le danze.” Replicò Sinisa drizzando la schiena. Poi spostò il suo ultimo pedone.
Il centro della scacchiera era completamente occupato dai pedoni bianchi e neri alternati tra loro come una specie di muro di protezione per i due eserciti, e nessuno dei due giocatori aveva ancora catturato pezzi all’altro.
Nella piazza di Sarajevo invece era tutto il contrario. Il centro era completamente libero e tutto attorno, difesa da quello che rimaneva dei muri delle case sventrate, una piccola folla uscita dagli appartamenti del piano terra se ne stava attorcigliata in una specie di cordone.
“Adesso, caro mio, dobbiamo incominciare a farci del male a vicenda… uno di noi deve fare il primo gesto e aprirsi un varco in mezzo a questo muro di pedoni: il gioco lo pretende.” Disse Radko.
“I pedoni sono destinati a cadere per primi, come soldati fedeli.” e con la base del suo pezzo Sinisa ne fece rotolare uno nero dell’avversario fuori dalla scacchiera e occupò il suo posto con un alfiere bianco. L’altro sbaragliò subito l’alfiere con un ghigno, dando il via a un rapido susseguirsi di mosse, come se i due stessero seguendo uno schema preciso, antico. Quasi un copione. Una sinfonia di gesti studiati da tempo, e messi in atto nel silenzio che stava ammorbando l’aria. Un silenzio profondo, che produceva ansia, spezzato a tratti da leggeri lamenti.
I caduti sulla scacchiera incominciarono a essere parecchi. Quattro pedoni, un cavallo e una torre per parte, due alfieri sacrificati a difesa delle regine gridavano vendetta come i pensieri dei bosniaci acquattati dietro le case, mentre i cecchini serbi sembravano riposarsi.
I Dragunov tacevano da quasi mezz’ora, ma nessuno si azzardava a mettere i piedi in piazza per recuperare i due corpi massacrati.
Dopo una breve pausa Radko si decise a muovere il cavallo portandolo in mezzo a due pedoni esausti, stanchi di sopravvivere a difesa di uno schema sempre uguale da mesi. Il vecchio Sinisa fu costretto a togliere di corsa l’ultimo suo alfiere che fino ad un istante prima minacciava la regina avversaria.
“Stavo per farmi fregare da un pivello…”
“Lo dici tutte le volte.”
“Nessuno dei due cambia passo… e anche le parole devono essere le stesse.” Replicò Radko.
“Come a teatro. E lo sai come va a finire anche questa volta?” lo imbeccò Sinisa.
“Anche oggi la partita finisce in pareggio.”
“Come sempre. Io con il mio re e tu con tuo…”
“Soli in mezzo a questi quadri bianchi e neri, senza più un suddito, senza la soddisfazione di aver vinto una guerra…”
“E nemmeno con l’infelicità di averla persa.”
“E domani ricominciamo da capo con un’altra partita.” E Radko sputò per terra scuotendo la testa.
“Ma nessuno di noi farà mosse diverse da quelle di oggi, di ieri.” Lo interruppe Sinisa.
“E finiremo di nuovo pari.”
“Da quanto tempo dura questa storia tra te e me?”
“Da quando è incominciata la guerra.”
“Forse per la paura.”
“Ma noi eravamo coraggiosi una volta, Sinisa.”
“Sai che coraggio: tu spedivi telegrammi e io facevo il maestro…”
“Forse è la paura di morire?”
“Non lo so, magari di soffrire.”
“Quello che conta non è quando si muore, ma quanto si soffre prima di morire… lo dicono in Africa. Non ricordo dove.”
“Forse è meglio se muoiono i vecchi per lasciar vivere i giovani.”
“Però senza soffrire. Almeno questo è giusto pretenderlo.”
“Un colpo preciso: spacca il cuore e niente dolore.”
“Ci vuole un cecchino con un po’ di umanità.”
Poi l’aria sembrò fermarsi e una specie di onda imprigionò le orecchie con un sibilo leggero, lungo, estenuante. Come il suono di una lamina d’acciaio capace di penetrare i timpani.
Infine l’ esplosione. Un fungo di polveri e calcinacci sommerse la piazza sparando sassi, calcinacci e assi di legno con la violenza di un colpo di mortaio. Sinisa e Radko si buttarono giù dalla seggiola e si piegarono sulle ginocchia. Quando si sollevarono avevano capelli e vestiti coperti da un velo di polvere bianca. C’erano vetri ai loro piedi, e pezzi di ferro fumanti sparpagliati tutto attorno. E basse nuvole nerastre che rendevano l’aria densa e irrespirabile. La scacchiera invece era al suo posto. Immobile. Uscita indenne, con i singoli pezzi come li avevano lasciati i giocatori prima del boato.
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