Il ragazzo rimase sospeso a mezz’aria, ginocchia piegate con i piedi sollevati all’altezza delle natiche, la fronte a filo del cerchio di metallo, e le labbra serrate nello sforzo di schiacciare a mani unite la palla nel canestro. La maglietta gli svolazzò fin sopra le spalle lasciando scoperta la muscolatura nervosa e acerba che lo aiutava in quella spinta verso l’alto. Era tale la sua concentrazione che non riconobbe il sibilo. E così perse la sua personale sfida con il tempo, con la velocità, con lo spazio. Con le regole elementari della fisica. Lui era un atleta, diceva, e non riusciva a capire, neanche a spiegarglielo mille volte, come potesse un pezzo di piombo viaggiare con una rapidità tale solo premendo un grilletto.
Il proiettile lo centrò nella schiena.
La testa gli si rivoltò all’indietro e il sorriso si trasformò in una smorfia. Non urlò. E non provò nemmeno dolore. Gli mancò il tempo della coscienza.
Il colpo sparato dal cecchino serbo nascosto tra la vegetazione della collina e armato di un Dragunov di produzione sovietica, gli sfondò la schiena e il cuore aprendo come una specie di ombrello rosso fatto di sangue e visceri che schizzavano tutto attorno. Le braccia si spalancarono in modo istintivo, quel che rimaneva del petto si arcuò come proiettato ancor più verso l’alto con un contraccolpo da balletto disordinato. Alla fine il corpo disarticolato del ragazzo stramazzò a terra con un rumore sordo, sollevando polvere densa di sangue nero.
Furono un gruppo di vecchi silenziosi, seduti fuori dal bar di Nazim all’ombra di un telo sfrangiato, a capire che qualcosa non quadrava in quell’angolo della piazza. Uno di loro con la faccia rugosa e cotta dal sole si alzò di colpo e incominciò a gridare puntando la mano verso il corpo del ragazzo, tra la piazza e il muro basso della chiesa, là dove lui e i suoi amici avevano piazzato due tabelloni mezzi arrugginiti con un canestro senza rete.
Quando arriveranno gli americani a liberarci dai serbi saremo pronti a sfidarli a basket. Dicevano i ragazzi in piazza tutte le sere, seduti attorno a un paio di tavoli da Nazim a bere Pepsi Cola e a guardare le ragazze che passavano in strada.
Poi anche gli altri si alzarono in piedi e incominciarono a gridare. Le voci dure degli uomini si sommavano a quelle acute delle donne, si mescolavano ai suoni della paura, ai gesti nervosi dell’impotenza, mentre c’era chi si stringeva le tempie con la rabbia nei pugni, magari piegandosi sulle ginocchia con la testa china in mezzo alle gambe aperte a fissare in silenzio la terra.
Pure Sinisa e Radko erano seduti al loro solito tavolino fuori dal bar di Nazim, concentrati sui pezzi appena sistemati sulla scacchiera. Erano le tre del pomeriggio. E per loro iniziava il rito della sfida pomeridiana.
A Sinisa i pezzi bianchi, al suo avversario i neri.
Fra i due solo il vecchio Sinisa cedette alla curiosità, e si girò, senza entusiasmo, quasi con fastidio, giusto il tempo per vedere qualcuno correre verso la piazza sollevando altra polvere da terra e fermandosi al riparo di un vecchio platano.
Quel ragazzino steso a terra gli pareva il figlio del suo vicino, Malic, il vinaio. Non lo riconobbe ma capì che poteva essere lui perché a quell’ora c’era sempre e solo il giovane Slatan ad allenarsi sotto il tabellone.
Sinisa tornò alla scacchiera incurante delle voci.
Radko gli chiese se era pronto a incominciare la partita. Nemmeno lui manifestava grande interesse per il caos che cresceva sempre più forte attorno a loro. Guardò con un filo di irritazione uno che nella fretta aveva urtato il loro tavolino facendo traballare i pezzi degli scacchi messi in ordine come due eserciti pronti allo scontro frontale.
Sinisa fece segno di si con la testa. Finì di bere un mezzo bicchiere di the. Prese le foglie di menta sul fondo e le infilò in bocca. Le masticò per qualche secondo poi le sputò a terra e aprì la partita con la prima mossa. Pedone bianco in F4.
“Non cambi mai… eh… Sinisa… sei il solito vecchio prevedibile…”
“Fatti gli affari tuoi.”
“Permaloso e prevedibile…” gli fece eco l’amico Radko
“Neanche i cecchini cambiano mai… e pure loro sono permalosi e prevedibili.”
“Ormai conosciamo bene ogni loro mossa, - disse Radko - e l’ora in cui mettono fuori il naso per sparare nel mucchio. E il primo cha capita casca giù. Senza neanche sapere chi è… come cacciatori che sparano a una lepre senza distinguerla da un’altra.”
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