Passeri cinguettano sui fili telegrafici, mentre il filo trasmette telegrammi con l’ordine di uccidere tutti i passeri.

(da Schiuma della Terra di Arthur Koestler)

 

Un prophète di Jacques Audiard; mai titolo fu più profetico (se ci passate la battuta…).

Un profeta dentro il film, il protagonista, Malik El Djebena (Tahar Rahim), divenuto tale direttamente sul campo per aver saputo fare quello che tutti i profeti sono chiamati a fare, “vedere” cioè qualcosa in procinto di avvenire (una scena con al centro un cervo…).

A seguire un altro profeta, stavolta non umano. Di chi si tratta? Del film stesso, perché sa vedere oggi come saranno i prison-movie di domani, anzi di dopodomani (e guai a tutti i film che non seguiranno le parole del profeta…).

Prison-movie dicevamo, o per dire meglio rilettura potente, corale, coraggiosa, e giustamente anche ambiziosa di un genere ben conosciuto, rilettura che passa attraverso un egregio lavoro anzitutto di sceneggiatura. Il film impiega dieci minuti, minuto più minuto meno, per decollare, giusto il tempo per descrivere il lasso temporale che trascorre tra il colloquio di Malik con l’avvocato dal quale riceve notizia della pena da scontare (sei anni), e il suo arrivo in carcere.

Esauriti i convenevoli, il film inizia il volo su una rotta a largo raggio. A rifletterci su a mente fredda ci troviamo di fronte ad un vero e proprio Bildungsroman con al centro il già citato Malik. Per metà francese e per l’altra metà arabo, occupa una posizione per nulla invidiabile, inviso com’è ai primi perché considerato appartenere ai secondi e ai secondi perché considerato “in forza” ai primi. Non occorrerà attendere molto per vedere Malik finire nella sfera d’influenza di César Luciani (Niels Arestrup), il boss di origine corsa che spadroneggia nel carcere e che gli ordinerà di uccidere un detenuto arabo (scomodo testimone in un processo…) e che in quanto attratto da Malik è l’unico dal quale si lascia avvicinare, uno di quegli ordini ai quali Malik dopo lunghi ripensamenti finisce con l’obbedire (anche perché rifiutare vorrebbe dire morte certa…).

Ma il film non viaggerà soltanto sul confronto sempre più serrato tra il giovane Malik e l’anziano Luciani, rapporto questo molto aspro per quanto venato da sfumature “filiali”. Al tempo stesso Un prophète è uno spaccato di vita dietro le sbarre, vita osservata attraverso ottiche multiple e con sguardo da entomologo: ferocia (le “lezioni” che Malik riceve da un degli sgherri di Luciani su come uccidere con una lametta, è quanto di più agghiacciante visto negli ultimi anni…) e dolcezza, chi entra e chi esce (magari lasciando il vecchio boss nei guai…), cassette porno e sesso vero.

Eppure non è ancora tutto, perché d’improvviso quello che sarà lungo tutto il film il registro prevalente, un realismo duro e crudo, inizia ad essere contaminato con una serie di eventi di natura “fantastica”. Trattasi proprio del detenuto che Malik ha ucciso in apertura e che inizia ad apparire al suo carnefice fungendo così da vero e proprio compagno di cella. Nasce tra i due un rapporto molto particolare, scevro, vista l’appartenenza dei due a mondi “spiritualmente” distanti, da qualsiasi forma di violenza, rapporto che in tal modo diventa un corrispettivo positivo capace di mitigare la cruda realtà che fa da sfondo alla vicenda.

Molto si è già raccontato, molto rimarrebbe da raccontare dell’irresistibile ascesa di Malik e dello stratagemma con il quale riesce ad infliggere il colpo di grazia al vecchio boss Luciani, ma a contare davvero alla fine è la consapevolezza che Audiard sia uno di quei registi in stato di grazia perenne (Tutti i battiti del mio cuore e Sulle mie labbra, tanto per intenderci, sono suoi…) capace di controllare e dominare un genere molto codificato com’è il prison-movie. Come si è già detto sa come reinventarlo a colpi di bazooka, e quando serve, a colpi di pennello, uno di quei registi, insomma, capaci di scrivere con la cinepresa, senza scorciatoie, senza mezze misure.

Grand Prix al 62mo Festival di Cannes.