Introdotto quest’anno dal tenero trailer (vedi su youtube) della regista slovena Špela Čadež (che un po’ ricorda una scena di “Lilli e il vagabondo”), il Far East Film di Udine ha cavalcato la sua undicesima edizione al grido di “yeahhh”, slogan ufficiale del festival che ben si adatta sia ai ritmi stralunati di molte commedie presenti nel programma, sia alla sezione speciale sul cinema d’azione thailandese. Un grido di battaglia dalla forte impronta femminile, non solo per via della strepitosa Jeeja Yanin, protagonista del thai action film di punta presente nella sezione speciale, Chocolate di Prachya Pinkaew (le sue urla di trionfo durante i combattimenti ricordano tanto quelle di Bruce Lee, non a caso è stata presentata dai responsabili del festival come “l’unica vera nuova Bruce Lee”: vedere la sequenza di scontri sui cornicioni per credere); anche la retrospettiva di quest’anno è dedicata a una donna, la regista hongkonghese Anne Hui, nome di punta della new wave anni ’80. A lei il FEFF ha riservato le proiezioni nella sede del Visionario, proponendo per la prima volta al pubblico italiano i suoi lavori televisivi, come già era stato fatto due anni fa per Patrick Tam, aggiungendo inoltre una delle sue ultime fatiche cinematografiche, The Way We Are, una storia dal taglio fortemente sociale e “minimale” che inaspettatamente ha avuto anche un grande successo al botteghino. Ma donna è anche una degli esordienti presenti in sala quest’anno, Tanada Yuki, già sceneggiatrice di Sakuran di Mika Ninagawa (anche lei una donna) e ora autrice di uno dei film più belli del FEFF 11, One Million Yen Girl. E ancora, donne sono Nia Dinata, Upi, Lasja F. Susatyo e Fatimah T. Rony, le registe indonesiane del corale Chants of Lotus, censurato in patria per via degli argomenti troppo scottanti (il sesso anaffettivo e di gruppo tra adolescenti, l’aborto, lo stupro, la prostituzione infantile), ma che gli ospiti del festival hanno potuto vedere nella sua dura interezza. Donne sono anche le protagoniste del cinese Desires of the Heart, diretto dalla brava Ma Liwen, che riesce a regalarci un ritratto a tinte tenui ma indelebili delle cinesi di oggi, un po’ romantiche, un po’ in carriera, un po’ disilluse, come donne sono le svampite protagoniste del rutilante All About Women di Tsui Hark, da sempre contraddistinto da una particolare attenzione all’universo femminile. Ed è doveroso citare inoltre altre due esordienti donne: Lee Kyoung–mi, autrice della screwball comedy sudcoreana Crush and Blush, o il dramma psicologico Fiction, diretto dall’indonesiana Mouly Surya, entrambe interessate a scandagliare la mente femminile senza aver timore dei suoi lati più ossessivi.
Altra caratteristica intrigante del programma di quest’anno è stata la presenza di film a episodi, o di storie fra loro intrecciate e in qualche modo coagulate in un filo conduttore reale o apparente: oltre ai già citati All About Women, Chants of Lotus e Desires of the Heart, in tal senso vanno segnalati il divertentissimo Crazy Racer, commedia nera cinese di Ning Hao su piccoli balordi che non ha nulla da invidiare alle pellicole di Guy Ritchie, o anche il folle coup de foudre Fish Story, del giapponese Nakamura Yoshihiro, a cui era dedicata una piccola sezione del festival, o ancora gli horror indonesiani Takut: Faces of Fear di Rako Prijanto, Riri Riza, Ray Nayoan, Robby Ertanto, Raditya Sidharta e The Mo Brothers e 4BIA di Yongyoot Thongkongtoon, Paween Purijitpanya, Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpom. Non sono mancate le delusioni, come ad esempio il tanto atteso Ong Bak 2 di Tony Jaa e Panna Rittikrai, dalla sceneggiatura a tratti imbarazzante (e dalle coreografie “rozze”, almeno per chi come me è abituata alla grazia e alla disciplina flessuosa del kung fu), o l’unico film di Singapore presente quest’anno, l’horror Rule # 1 di Kelvin Tong, dove il ridicolo suona quasi volontario (sarà forse per questo che l’unica scena memorabile ritrae Ekin Cheng a braccetto con un drago gonfiabile in una danza improvvisata?), per non parlare del letalissimo A Frozen Flower del pur bravo Yoo Ha, drammone coreano in costume estenuante e senza passione (per giunta dal sapore profondamente omofobo), o il vuoto biopic Ip Man di Wilson Yip (purtroppo le prodezze di Donnie Yen non bastano per appassionarsi a un film, Flashpoint insegna). Ma non sono mancate le sorprese dai generi più “canonici”, con opere forse un po’ tradizionali rispetto alla stordita levità di una commedia come Love Exposure di Sono Sion o al bizzarro Instant Swamp di Miki Satoshi, ma oggettivamente efficaci. Due esempi fra tutti: l’intenso e commovente The Beast Stalker di Dante Lam, un vero noir in stile hongkonghese come non se ne vedevano da tempo e dove i continui colpi di scena lasciano letteralmente senza fiato, o The Story of the Closestool dell’esordiente Xu Buming, una storia rurale sulla mancanza/desiderio di privacy in Cina simboleggiate da un oggetto tanto comune quanto irriverente: la tazza del gabinetto. E, ovviamente, al FEFF 11 va anche riconosciuto il merito non secondario di aver presentato in anteprima Departures di Takita Yojiro, primo film giapponese insignito dell’Oscar come miglior film straniero, giustamente insignito sia dell’Audience Award che del Black Dragon Award (quest’ultimo inaugurato quest’anno). Insomma, cos’altro aggiungere se non un bell’urlo liberatorio dall’Oriente con furore? Yeahhh!
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