Non sono stato un lettore precoce. Arrivai sul mio primo banco di legno (quelli di Pinocchio, con tanto di buco per il calamaio) armato soltanto di un grembiule con fiocco bianco e di un astuccio con gomme e matite, del tutto ignaro dei misteri della parola scritta. In compenso capii subito che per qualche motivo C e A facevano CA, N e E facevano NE, e che tutto insieme veniva fuori CANE, con tanto di appendice scodinzolante.
Forte di questa illuminazione, il passaggio a Metempsicosi e Paradigmatico fu relativamente facile e già prima di Natale avevo dato l’assalto alla libreria paterna, una sorta di orrore neogotico nero, chiuso da ante di vetro a bolli che pareva uscito dal set della Cena delle Beffe. Ma poiché quello era un terreno di caccia riservato ai grandi, fui pilotato verso una cassa lasciata in casa da uno zio materno, piena di libri di Salgari, Verne, dispense di Petrosino rilegate e soprattutto Le mille e una notte di Nerbini, quella con i disegni osé e i djin tradotti come geni.
Mio padre, un funzionario dell’Aviazione Civile, talvolta mi portava con sé all’aeroporto di Ciampino. E poiché erano tempi beati, in cui il ratto o la violenza su minori era roba da Mysteres de Paris, mi lasciava girettare vicino alla pista perché passassi tempo osservando il decollo degli aeroplani. Lì, seduto su uno dei fari di segnalazione, sbocconcellando un surrogato di cioccolata (quelli meravigliosi incartati nella stagnola, dal sapore vagamente di cartone, con dentro un soldatino di plastica) credo un giorno di aver visto Dio. O meglio, quello che a cinque anni si avvicinava di più all’idea. Una specie di immenso gabbiano luminescente, poggiato su zampe lunghissime. Brillava sotto il sole a un migliaio di metri di distanza, rullando a inizio pista. Si allineò, accompagnato da un sibilo. Poi cominciò ad urlare e a correre verso di me. Sessanta tonnellate di alluminio rivettato, acciaio, gomma, benzina, spinte dai ventimila cavalli dei suoi quattro radiali Wright turbocompressi. Settantadue cilindri fiammeggianti, quattro eliche di cinque metri di diametro, il Constellation mi venne addosso sollevandosi all’ultimo e sfiorandomi con il suo carrello sinistro, con la benevola delicatezza con cui un padre affettuoso accarezza il figlio prediletto.
A farla breve, il mio imprinting letterario è figlio sostanzialmente di Alì Babà, del Corsaro Nero e della Lookeed, in una mistura difficilmente quantificabile. Tra i dieci e i quattordici anni lessi praticamente tutta la fantascienza che era reperibile in Italia, comprese vecchie annate di Scienza e Vita, quella rivista in cui era scritto con dovizia di particolari di auto volanti, città su Marte nel 1970 e abolizione del lavoro manuale nel 2000. Nell’attesa di andare su Marte scrissi il mio primo racconto, che mandai all’angolo del lettore di Galassia. Dovevano pubblicarlo, ma la rivista chiuse prima. Non che sia stata una gran perdita, intendo il racconto. Comunque su Marte ci sono andato, in compagnia di Burroughs, Leigh Brackett e Bradbury.
Mangio quello che trovo, alla lettera. Grazie ai buoni uffici di una moglie abile e paziente in genere godo di un’alimentazione abbastanza regolare. Abbandonato a me stesso ripiego su pane e maionese, pane a marmellata, pane e maionese con marmellata all’occorrenza. Meglio il salato, ma in caso di fame anche una scatola di biscotti va bene. Per questo non ho mai usato la trattoria come captatio benevolentiae per avventure erotiche: per quello ricorro invece ad altre suggestioni di natura più astratta. Sono un buon chiromante e astrologo, e quello che perdo in fascinazione della forchetta l’ho sempre recuperato con chiacchiere lusingatrici su carattere e futuro. Non dedico una cura particolare alla persona, che vada oltre una ragionevole igiene personale di standard europeo.
Non bevo e non ho mai indugiato all’uso di stupefacenti, tranne caffeina e nicotina: con un rapporto di odiamore verso la seconda, di immensa gratitudine e riconoscenza nei confronti della prima. Se gli dei ci hanno mai fatto un dono, credo che si tratti di quelle bacche amarissime. Senza le mie quattro tazze mattutine sono soltanto una specie di naufrago, depresso, astioso, che si trascina da una stanza all’altra della casa in cerca di un disperato approdo da qualche parte. La porta eburnea del mondo dei sogni non vuole spalancarsi nemmeno a calci, sono una specie di zombie malmesso.
Ma poi arriva il nettare scuro, bollente, zuccherato contro ogni decenza, preparato con una vecchia Bialetti appannata da decenni di calcare delle acque romane. Allora il sole sorge, gli uccelli cantano, il mondo si illumina e io divento il più gradevole e affabile degli uomini, un gattone pronto a fare le fusa.
Per me non esiste il terrore della pagina bianca, se con questo si intende quel tempo più o meno lungo in cui le idee razzolano vaghe e indistinte, in attesa di precipitare in una qualche forma spendibile.
No, il terrore comincia quando l’idea si è formata, e mi splende davanti con il tragico biancore di Moby Dick. Perché so che da quel momento non ci sarà altro che il tormento della scrittura, ore e ore a cercare di dar forma soddisfacente all’idea che in quel momento mi possiede. E più la data di consegna si avvicina, più aumenta quell’adorabile senso di orrido incombente, angoscia, tremori che mescolati con le solite dosi di caffeina costituiscono il miglior carburante per la macchina della creatività. In definitiva credo che siano calendario e orologio i migliori amici dello scrittore.
Scrivere secondo me è insomma opera tangenziale, un continuo matto e disperatissimo sforzo di raggiungere una forma elusiva. Ma insieme anche un’incredibile fonte di felicità, un surrogato di vita delizioso come il cioccolato con il soldatino dell’infanzia.
E poiché del paradiso non ne abbiamo mai abbastanza, immagino che per tutti valga quello che vale per me: si scrive sempre. Nel senso che o si scrive, e nel mio caso ciò avviene con il computer, dai tempi del mitico Apple II, ma anche con penne di vario genere, matite più o meno temperate, mozziconi variopinti. Su carta, cartoncino, kleenex, biglietti della metro. Un paio di volte, pressato dall’esigenza di fermare qualche parola, sono ricorso anche alla testa bruciacchiata di fiammiferi.
Oppure si pensa a quello che si deve scrivere. E questo ci dona quell’aria strampalata che qualche ingenua fanciulla trova affascinante, e i più soltanto boria narcisistica, autoreferenzialità sconnessa, ai limiti di una pericolosa deriva sociopatica.
Insomma con il prossimo sono di manica larga, irascibile il giusto ma assolutamente mai rancoroso. Sarà perché, appunto, ho parecchio da farmi perdonare, in genere con gli altri mi comporto bene. Se mi invitano da qualche parte capita spesso poi che tornino ad chiamarmi. Cosa che spero derivi dalle mie doti umane e non da scarsezza di scrittori itineranti.
Idem con le donne, mi piacciono tutte. Mi intrigano, inquietano, mi fanno sentire vivo. Per loro sono disposto anche a chilometri di strada, a star su di notte per rispondere a mail luminescenti che mi sembrano addirittura profumate. Però quelle che mi affascinano sono le femmes fatales. Che posso farci? È la solita storia dell’imprinting, mica puoi sbavare da piccolo sulle donnine di Caniff o Robbins, e poi metterci una pietra su fino alla pensione.
Qualcuno mi chiede se si può vivere di sola scrittura. Sì, se sei single, giovane e di poche pretese. Sì, se sei disposto a lavorare per dieci dodici ore al giorno. Sì, se sei pronto a scrivere non quello di cui hai voglia, ma quello che serve. Sì, se ti è chiaro che gli editori mirano a fare qualche soldarello, e non a far vincere il premio Nobel per la letteratura a te. Sì, se ti scordi il surf, il calcetto con gli amici, il pub, le ore a cazzeggiare su Facebook. Sì, se tra vivere e scrivere ti diverti più a scrivere. Sì, se proprio non puoi fare altro.
Ne viene che, personalmente, mi trovo ad avere davvero pochi passatempi.
Brama di invisibilità? No, accidenti! Nemmeno per niente, non voglio essere morto da vivo. Voglio che mi si veda bene, anche da lontano.
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