Rapina a mano armata è un bel film di Stanley Kubrik, con Sterling Hayden come protagonista. E’ tratto dallo omonimo romanzo di Lionel White, che pochi ricordano, eppure è un libro piacevole, duro e con un finale nerissimo.

Può essere divertente rintracciare in questo romanzo le similitudini e le differenze con il film. Le due esperienze - lettura e visione – si intersecano, si confondono in un gioco di rimandi godibile.

Il libro è scritto bene, in modo veloce, concreto, scarno, come solo i più bravi sanno fare. Non c’è in questa scrittura artigianale niente di superfluo, nessuna retorica, nessuna parola pomposa e vuota: è la lingua della metropoli, delle ombre, del destino e del fallimento. Una lingua che non ammette scampo.

E’ un racconto corale: ogni personaggio racconta la sua storia, il suo punto di vista. Non c’è linearità, si torna indietro, uno stesso evento è narrato da angolazioni diverse.

I personaggi sono tutti perdenti che credono di potersi rifare con una rapina all’ippodromo. E in più c’è una dark lady che più nera non si può, ma anche lei perdente alla fine, annientata da un male maschile ancora più devastante del suo.

La rapina riesce. Ma il meccanismo si inceppa: la donna, Sherry, moglie del più debole della banda, spiffera tutto al suo amante, che tenta di rubare il maltolto e nel farlo provoca la morte dell’intera banda, che aspetta in un appartamento l’arrivo con i soldi della rapina di Johnny Clay, interpretato da Hayden, in una sparatoria che sa di nemesi e di stupidità.

Clay cerca di scappare con i soldi, insieme alla sua amata, che compare solo all’inizio e alla fine, come una parentesi non salvifica. Ma l’unico sopravvissuto alla sparatoria, il marito di Sherry, lo raggiunge alla stazione e lo uccide, perché crede che la moglie lo tradisse proprio con Clay.

Nel film Clay viene arrestato, ormai vinto e rassegnato, con i soldi che volano sulla pista dell’aeroporto.

Ma qui il finale è ancora più nero, senza ironia. La sconfitta è totale, non c’è scampo e proprio quando tutti credevano di aver trovato la soluzione.

Un pessimismo cupo suggella il finale. La morte si riprende i sogni e la città, come un ippodromo gigantesco, li irride con le sue false aspettative che la vita possa cambiare. Anche per quelli che sono presi in trappola sin dalla nascita.