L’aria era fredda: quell’aria malinconica che si poteva respirare solo a Torino, nelle lunghe sere d’inverno.

Da dietro le finestre incrostate di polvere la neve continuava a turbinare, per poi posarsi in umidi mucchietti sui lastroni grigi della strada sottostante.

Gli occhi chiarissimi e gelidi del dottor Ludovisi smisero di seguire la vana danza dei fiocchi di neve e si fermarono sul quadrante del vecchio orologio a muro che da sempre scandiva i tempi della Procura della Repubblica: le undici, anzi le ventitrè, come avrebbe puntualizzato severo il Procuratore Capo...

L’uomo sorrise, increspando appena le labbra sottili che sembravano un taglio amaro sul viso duro e ossuto.

- Tra un ora è Natale - si disse piano - e tu sei qui solo come un cane. Sarebbe questa la tua gloriosa carriera, vecchio mio?

La Magistratura era sempre stata il suo sogno: un sogno realizzato qualche mese prima, proprio lo stesso giorno in cui Berruti aveva vinto la medaglia d’Oro sui 200 piani alle Olimpiadi di Roma.

E poi? E poi Livio Berruti aveva conquistato un posto nel grande libro della Storia, mentre lui, Marco Ludovisi di anni trentuno aveva conquistato una sedia traballante dietro una squallida scrivania di legno.

Un novellino con tutto da imparare e per questo addetto ai compiti più noiosi e gravosi, non ultimo quello che lo inchiodava lì, nel settecentesco palazzo di giustizia di Torino, la Curia Maxima, alle ore ventitre del 24 Dicembre 1960, magistrato di turno a vegliare sui sogni e sulle gioie dei torinesi in festa...

Oddio, non era obbligato a starsene lì, ma che fare, in alternativa? Un pasto in trattoria per specchiarsi negli occhi vuoti di sconosciuti soli, col rischio di trovare sé stesso in quel nulla? Oppure inventarsi una cena a casa, nella cucina spoglia, quella cucina dove Lia non aveva fatto neanche in tempo a lasciare il suo profumo, il suo tocco...

Meglio, restarsene in Ufficio: poteva nascondere la propria solitudine dietro l’attaccamento al lavoro.

Scosse il capo e cercò di concentrarsi, ma d’ un tratto, improvviso e secco un rumore: troppo forte e distinto, per essere il parto di una fantasia malata di solitudine. Sembrava provenire dal corridoio.

Aggrottando le sopracciglia sottili Ludovisi si alzò dalla sedia e si affacciò incuriosito sul corridoio immerso nella penombra.

- Chi c’è? - disse a voce alta.

Un cigolio e un altro rumore, soffocato stavolta. Ma che diavolo stava succedendo?

L’uomo cercò a tentoni l’interruttore nel corridoio: la luce tremolante e fioca di una lampadina polverosa illuminò a stento il locale.

- Chi c’è lì? - ripetè Ludovisi, la voce insicura, incamminandosi lentamente.

Forse un collega? Difficile: a quell’ora, erano tutti a tavola e in attesa della mezzanotte.

Ancora qualche passo, poi i suoi occhi si posarono su di un grosso armadio metallico che di solito veniva usato per custodire i corpi di reato mentre erano in corso le indagini di un caso: era spalancato e la serratura era stata manomessa...

Con cautela sbirciò l’interno: non sembrava esserci nulla fuori posto... anzi, no: sull’ultimo scaffale c’era uno scatolone con dei reperti, prelevati nello studio di un anziano contabile assassinato il giorno prima... Grossi libri e un paio di vecchi quaderni: se lo ricordava bene, visto che anche lui stava seguendo quel caso.

Mancava uno dei libri: ne era certo, lo aveva riposto lui stesso non più tardi di un’ora prima!

Ma chi diamine poteva aver avuto il coraggio di commettere un furto nel palazzo di Giustizia?

Forse c’era una spiegazione più logica: decise di fare qualche indagine prima di avvertire la polizia.

Il corridoio svoltava a sinistra e portava all’ingresso di servizio e l’uomo decise di andare in quella direzione.

Il pianerottolo polveroso era gelido immerso nella penombra: a destra c’era la biblioteca, il cui ingresso era sbarrato da una cancellata e a sinistra il portone secondario degli Uffici della Procura Generale: Ludovisi ne spinse con cautela i battenti e con sua sorpresa questi cedettero.

La cosa cominciava a diventare sospetta: per motivi di sicurezza quel portoncino doveva restare sempre chiuso.

Trattenne il fiato, spinse il battente e si infilò nell’ufficio adiacente: immediatamente percepì il profumo dolciastro della cera per i mobili e del costoso tabacco da pipa che la maggior parte dei Magistrati Superiori fumava.