I know my game. Come narratore e come spadaccino. Ci ho dedicato tutta la mia vita. Non dico di essere bravo perché c’è sempre uno più svelto, è nella natura delle cose. Ma pratico tutto il giorno, tutti i giorni. Con il corpo e con la mente. Uso i termini spadaccino e narratore in senso largo come faceva Musashi. È uno stato mentale quello del combattente e dello scrittore. Richiede dedizione e determinazione. Soprattutto, quali che siano i risultati, fiducia in se stessi. Se non ci credete voi, chi volete che ci creda? E ci vuole cuore, anche se a qualcuno sembra che quello che fate sia solo tecnica. Con la sola tecnica non si va da nessuna parte. Perché vi dico questo? Lo capirete. Adesso spostiamo l’attenzione su un film. THE INTERNATIONAL di Tom Tykwer. Critici (i soliti …) e soloni si sono affrettati a dipingerlo come un guazzabuglio affrettato dove non si capisce il filo della storia, troppa azione, intrighi, capovolgimenti di fronte … insomma le solite troiate che ci vengono passate quando la realtà è che la persona che giudica non solo non conosce il “genere”, ma lo disprezza. Ovviamente senza averlo mai praticato. Qui forse cominciate a capire le mie iniziali osservazioni … A me è piaciuto. Di fatto si tratta di una delle migliori storie d’intrigo-azione viste negli ultimi tempi. Lo ammetto dopo le primissime battute mi sono trovato subito immerso in un’atmosfera che mi ricorda Ora Zero, Sole di Fuoco e, ovviamente, Montecristo. My turf. My Game. Inizia come un’indagine su una grande banca d’affari internazionale, poi si prosegue attraverso una pista variegata una scansione di tempi e azione da manuale. Non seguite la storia? State attenti invece di alambiccarvi sulle possibili critiche che potete sputare perché i protagonisti (mitico Clive Owen, permettetemi, a metà tra Dario Massi e Bruno Genovese…) non vi piacciono o non sono politicamente orientati come voi. Il film è una macchina a incastro costruita attraverso uno schema di scatole cinesi che rimanda al miglior Ludlum e non permette distrazioni. Veniamo anche in Italia, intrecciamo politica e mafia, grandi corporazioni e, ogni volta che ci sembra di essere arrivati a un traguardo, il gioco ricomincia portandoci in una direzione impensata. Perché è così che deve essere. C’è persino un perfetto killer che si rivolta contro i suoi committenti, una sparatoria epica all’interno del museo Guggenheim ( vabbè uscire feriti dopo una sparatoria ciclopica nel centro di Ny e non essere fermati neanche da un poliziotto è un po’ tirata ma ci sta…), poi arriva un ex agente del KGB e la mafiocrazia corporativa s’incrocia con lo spionaggio. E quando all’agente Salinger non resta che rinunciare alle regole del gioco per entrarci sempre di più (secondo una massima del Go giapponese, citato di striscio, senza enfasi … finalmente un paragone meno consueto degli scacchi del cliché abituale dell’intrigo politico da quattro soldi) arriviamo a scoprire che nessuno vince o perde mai. La partita può continuare in assoluto. Perché la chiave è il controllo del debito che generano le guerre, dice Luca Barbareschi -nei panni di un industriale fondatore di un nuovo partito che potrebbe portarlo ai vertici dello Stato - e chi ha il controllo del debito controlla il mondo. Però, alla fine, chi vince? chi sono i buoni? ESISTONO i buoni? La regola del sospetto, del tradimento quasi come ragione stessa dell’agitarsi dei personaggi sulla scena, del complotto tra i complotta tori domina su tutto. Inverosimile? troppo complicato? Open your eyes, this is the world … cantavano i Morcheeba dieci anni fa. Cambiato qualcosa?Ovvio che i legami con Montecristo e altri miei lavori mi saltano subito all’occhio. Be’, mi fa piacere. Perché questo film è nato in un ambito completamente differente da quello in cui lavoro eppure, per strade differenti, arriva a conclusioni e svolgimento simili. A questo punto uno potrebbe stare ad autocompiangersi e dire: “Se avessi avuto io l’occasione di fare un lavoro così, con quei soldi e quegli attori a disposizione…” Invece no. Perché questa non è la realtà. La realtà è che credo di aver avuto un’intuizione giusta e ho fatto quello che potevo con i mezzi che avevo. E ne ho ricavato la soddisfazione che era possibile ricavarne. Credete sia poco?No. È moltissimo. Abbastanza per continuare a essere una ‘macchina di storie’ perché questo è quello che volevo e questo è quello che faccio. Come Chance Renard è il Professionista e Bruno Genovese è il capo della DSE. E qui torniamo al combattente e al narratore. Un mio istruttore di close combat (uno con il naso gibboso come un raccordo anulare e forse qualche neurone bruciato dai colpi ma ancora lucido come un pezzo di acciaio temperato) diceva. “ Se Sali sul ring non pensare che il tuo avversario vada a casa al primo pugno. Si è allenato a prenderle. Fallo anche tu”. Giusto: no pain, no gain. Ma quel piccoletto di Liverpool con l’anca sciancata e un tic nervoso era anche il miglior pugile e combattente di coltello che abbia mai visto. E una volta mi disse: “Vuoi essere cacciatore o preda? Ricordati che i guanti non li metti per prendere botte.” You are damn right, Bob!