“Il mio reportage è sfumato, Timothée, non è più informazione. Khun sa è moribondo. Non interessa più a nessuno.”

Scosse la testa.

“Ti sbagli. La gente se ne frega dell’informazione, oggi ha bisogno di storie. E fare giornalismo significa raccontare storie. Quelle che descrivono il mondo, la gente, i destini. Ci sono tante persone affascinanti... tanti che non sanno scrivere e avrebbero bisogno che qualcuno li ascolti, che si parli di loro. L’informazione... è ovunque, ma è priva di carne, di sensi, di forma, e bisogna darle tutto questo.”

Il passo sopra riportato è ripreso dal romanzo In Birmania (più precisamente dalla pag. 282 dell’edizione italiana, pubblicata da Cairo). Lo cito perché Christophe Ono-dit-Biot, l’autore del libro, è un giornalista. Poco più che trentenne, dirige le pagine culturali di Le Point, una nota rivista francese. Come scrittore, ha pubblicato quattro libri: Désagrégé(e) (Plon, 2000), Interdit à toute femme et à toute femelle (Plon, 2002), Génération spontanée (Plon, 2004) e questo Birmane (Plon, 2007), che ha vinto il Prix Interallié.

Quello del giornalista e quello scrittore sono “mestieri” differenti, che implicano approcci ben distinti, non solo dal punto di vista della scrittura. E’ anche vero, però, che l’interazione delle esperienze, più che di metodi e stili, se ben filtrata può giovare in entrambi i casi.

Lo scrittore Ono-dit-Biot fa sicuramente tesoro della professionalità e delle occasioni che il giornalismo offre, ma è anche ben capace di staccarsene per entrare nello spirito che “deve” animare il vero narratore.

Inoltre, condizione forse non essenziale ma certo preziosa per uno scrittore che voglia ambientare i suoi scritti in scenari esteri, Ono-dit-Biot ama davvero viaggiare. Non per niente i suoi romanzi propongono sempre ambientazioni differenti: Cuba, il monte Athos in Grecia, il Belize e, appunto, il Myanmar, scenario attivo del suo romanzo più recente, tradotto con titolo In Birmania.

Unione di Myanmar è da un ventennio il nome ufficiale della Birmania. Fu voluto dalla giunta militare che ancora oggi, con singoli ricambi ai vertici, regge dittatorialmente le sorti della nazione sudestasiatica, ignorando quasi ogni pressione internazionale volta ad una qualche apertura democratica.

Ad occhio e croce, In Birmania dovrebbe essere ambientato attorno al 2005 o 2006. Nel testo, la capitale non è infatti ancora stata trasferita da Yangon (ex-Rangoon) a Naypyidaw, però si vocifera delle intenzioni governative in tal senso. In questi ultimi anni, la Birmania ha avuto la rivolta dei bonzi, il tifone Nargis, gli occhi della stampa e delle Nazioni Unite puntati addosso (per poco, a dire il vero...). Eppure, a tutt’oggi, la giunta dell’esercito è ancora lì, saldamente al potere, solo con qualche piccolo ritocco (di cui uno recente ed eccellente) tra gli oligarchi militari.

Protagonista del romanzo è César, redattore di secondo piano di una rivista femminile francese. E’ in vacanza in Thailandia con Hélène, la sua fidanzata. Ma, come si evince dal breve prologo, le cose hanno inaspettatamente preso una brutta piega. Il rapporto con la donna, che pareva consolidato, si è interrotto in malo modo. César, decide allora di cogliere l’occasione per tentare lo scoop della sua vita: prende l’aereo e parte per Yangon, con l’intenzione di riuscire ad intervistare Khun Sa, il ribelle signore della droga che, prima di trovare un accordo con il governo e ritirarsi nella capitale, per decenni ha regnato sul cosiddetto Triangolo d’Oro, quando erano l’oppio e la derivata eroina il fulcro del mercato della droga asiatico, e non la metamfetamina ya baa, come ora.

Senza nessun appoggio, senza riferimenti, senza una conoscenza pregressa, quello di César è un tentativo privo di grandi speranze. Incredibilmente, grazie ad aiuti imprevisti e situazioni favorevoli, riuscirà invece ad arrivare sino al cospetto di Khun Sa, anche se non nei termini che aveva previsto. Ma non sarà questo incontro a cambiargli la vita, bensì quello con la Birmania stessa, con il suo doppio volto (esotico, sensuale, gentile e ammaliante e insieme violento, crudele, corrotto e prigioniero), e l’inatteso innamoramento per Julie, un’expat francese, medico di una NGO impegna a sostegno della popolazione locale.

Travolto da una serie di eventi imprevisti ed estremamente pericolosi, César sarà costretto a lasciare Yangoon per l’interno della Birmania, prima verso il lago Inle, poi sino nel cuore del Triangolo d’Oro, nella zona del popolo Akha. Qui, all’imporvvisato reporter verrà data l’occasione d’incontrare la misteriosa Wu Wei, la “donna-tigre” che cerca di riunire le tribù contro il governo e contro lo sfruttamento di chi sta rendendo le etnie minori schiave della yaa ba, la droga della follia, utilizzandole come manodopera per la sintesi ma rendo nel contempo interi villaggi assuefatti a questa devastante metanfetamina.

Tra motivazioni professionali e personali, César arriverà alla verità e alla comprensione. Ma, inevitabilmente, pagherà un caro prezzo.

In Birmania offre varie buone pennellate d’ambientazione, decisamente apprezzabili per quanto ci scappi qualche cliché (che forse può insospettire coloro che conoscono meglio paese, ma al quale è comprensibile sia difficile rinunciare, soprattutto in un’ottica di pubblico ampio). Discreta la sceneggiatura, ritmo godibile. Ottimo l’impegno umano, prima che politico, di Ono-dit-Biot nei confronti dello status della Birmania. Peccato che i veri protagonisti siano in pratica tutti europei. Anzi: francesi. Ma è una colpa che siamo disposti a perdonare all’autore, che per contro risulta abile nel caratterizzare figure contraddittorie e realistiche come quella dell’expatriate Timothée, vittima consapevole sia del fascino che delle insidie asiatiche, con il suo approccio ormai senza riserve all’esistenza che ha scelto.

Ancora una considerazione. Della Birmania non si sente parlare molto, da noi. E’ una di quelle nazioni che fanno capolino nei media solo a fronte di eventi di grossa portata, notizie che poi svaniscono in pochi giorni: sporadiche e fugaci apparizioni con notizie sulla dittatura, su dimostrazioni popolari rudemente soffocate, sugli eterni arresti domiciliari del Premio Nobel Aung San Suu Kyi, o per drammatici ed eccezionali catastrofi come il ciclone Nargis. Nel complesso però (fatto salvo uno zoccolo di viaggiatori e di persone interessate al mondo in generale e/o in particolare all’Asia sud-orientale, e attente quindi alla geopolitica internazionale) non credo che le persone comuni conoscano un granché di questo affascinante benché vessato paese.

I lettori però sanno bene quanto un valido romanzo ambientato in uno scenario estero contemporaneo (purché sia ben documentato, sufficientemente “vissuto” e soprattutto d’aderenza alla realtà “almeno” buona) oltre ad adempiere alla propria funzione narrativa, rappresenti anche un’occasione per accrescere conoscenze.

In tal senso, In Birmania ottiene risultati, senza che venga meno l’aspetto letterario. Non è poco.