Non c’è niente da fare, il fascino della divisa è proprio irresistibile! Questo mese quindi siamo felici di ospitare nel nostro salotto letterario virtuale Roberto De Luca, carabiniere, alla sua prima volta editoriale con Insospettabili Ombre (libri/7796), che per una volta ha accettato di sottoporsi al nostro interrogatorio.
Allora come si sta dalla parte di chi alle domande deve rispondere?
Intanto, prima di cominciare, grazie per lo spazio che concedi ogni mese a tanti esordienti come me. Questo mese sta a me, quindi grazie ancora. Poi però mi verrebbe la voglia di interrogarti…….ops!!! intervistarti; che vuoi!! Deformazione professionale, la norma vuole che sia lo sbirro a fare domande e non a subirle, quindi ogni tanto, se me lo consenti, libero la mia parte sbirresca e ti farò qualche domanda ….tipo: cosa ti spinge a cimentarti ogni mese alla ricerca di esordienti da proporre nella tua rubrica? Lo fai per passione, per pietà o per quello spirito da crocerossina che in fondo hai?
Per spirito da crocerossina no di certo, chi mi conosce bene sa che ne sono completamente priva. In realtà, lavorando per Thriller Magazine, nel corso degli anni mi sono resa conto che in Italia esiste una grande offerta di opere prime, valide e interessanti, che restano per lo più nascoste al grande pubblico e che io stessa non avrei mai scoperto, se non fossi stata contattata dai relativi editori. Da qui l’idea di una finestra dedicata agli autori esordienti, per dare il mio piccolo contributo alla loro visibilità. Ora però tocca a me. Per introdurre i lettori al tuo romanzo e alle sue tematiche prova, con poche immagini a riassumerne brevemente la trama
Una donna: il suo dolore, la sua disperazione, la sua rabbia, la sua vendetta. Una escalation di esperienze negative che la risucchiano in una spirale di violenza che la trasformano in un una sorta di mostro, in una omicida seriale. Un uomo: il suo tragico passato, la volontà di dimenticare e andare avanti, la testardaggine e il desiderio innato di giustizia, la consapevolezza che i super eroi esistono solo nei fumetti. Una corsa/rincorsa in una Bologna dai toni cupi e reali, dove il fascino dei portici viene violato dalla cruda realtà dei giorni nostri.
In copertina Insospettabili Ombre viene definito un thriller: secondo te è un’etichetta azzeccata?
Io lo definisco un umano thriller noir ma penso che tutto ciò non potesse essere scritto. Quindi ritengo che thriller vada bene. Il thriller rappresenta il sale della vita, dentro c’è tutto: emozioni, paure, terrore, speranze. È un genere all’interno del quale puoi metterci veramente di tutto. La vita è un thriller dove i protagonisti siamo noi. Nel romanzo penso di averci messo tutte queste forti emozioni.
Da dove è nata l'idea per questa storia?
L’idea viene dalla voglia di mettere insieme ventidue anni di esperienze. Spesso quando guardo indietro vedo tanti pezzi di puzzle, di tante storie e orrori altrui dei quali sono stato, mio malgrado, testimone. Io non ho fatto altro che creare un filo conduttore ed unire i tasselli del puzzle: tante piccole verità che si uniscono in un’unica storia di fantasia.
Quindi il tuo lavoro ha avuto un ruolo importante nella stesura dell'opera?
Il lavoro sicuramente mi ha sia ispirato che aiutato. In tutti questi anni mi sono sempre imposto di non lasciarmi condizionare da ciò che mi succedeva intorno. Ma non ci sono quasi mai riuscito. Un’indagine ti lascia sempre qualcosa, una volta finita, positivo o negativo che sia l’esito, non ti lascia mai uguale a prima.
Quindi possiamo dire che la tua necessità di scrivere nasce, in un certo senso dal tuo lavoro?
Proprio da qui la necessità di scrivere. La necessità di voler raccontare nella maniera più verosimile possibile, com’è articolata un’indagine. No come quelle raccontate con successo nelle fiction attuali. Le fiction sono sicuramente belle e molto ben fatte da un punto di vista televisivo o in alcuni casi cinematografico. Il grosso rischio è però quello di creare delle false aspettative in chi le guarda nei confronti delle forze dell’ordine. Innanzitutto strutturalmente le caserme non sono quasi mai messe così come sono riportate nei films. Molte volte le strutture sono fatiscenti, i mezzi a disposizione pochi e mal messi, può succedere che le macchine siano in riserva di benzina e che non possano uscire se non per i servizi indispensabili. E poi c’è l’indagine tecnica. Nei film sempre più frequentemente, la scientifica da sola risolve il caso, nella realtà non è così. Un’indagine è strutturata cercando di ricostruire storicamente l’evento. Si parte da un reperto, dal conoscere le abitudini di chi è rimasto vittima di un reato, dalle sue frequentazioni lavorative e personali. Quando si inizia un’indagine ci si immette su una strada sconosciuta dai mille svincoli e sta a te prendere quelli giusti. Le strade di un’indagine possono apparire simili ad altre già percorse in altre indagini, ma non sono mai uguali l’una all’altra. Quindi c’è bisogno dell’intuito dell’uomo, del saper cogliere l’indizio giusto, di saper prendere i giusti svincoli per arrivare ad identificare e fermare di chi ha commesso un crimine.
Questo mi fa pensare a un passaggio molto preciso del tuo romanzo, in cui ho colto una sorta di “polemica” o se vuoi “denuncia” nei confronti di tutti i mezzi che tanto vanno di moda ora e che tu hai citato poco fa. In particolare nel romanzo ti sei “scagliato” contro i cosidetti profiler… o è solo una mia impressione?
L’attualità ci pone di fronte il fatto che senza i così detti “profiler” un’indagine non possa essere fatta o comunque sia incompleta. Ritengo che il profiler sia una figura di indubbia utilità, ma non la sola indispensabile. L’indagine tecnica e l’indagine dello sbirro fatta porta a porta devono compensarsi non annullarsi. Non deve essere una corsa a chi è più bravo a risolvere il caso, ma deve rappresentare una collaborazione valida per un unico scopo, quello di arrivare all’identificazione del criminale. Rifacendomi alla domanda di prima, le stesse serie televisive mettono in luce l’indispensabilità di dette figure. Ho visto una sola puntata di RIS e ti dico che la realtà è molto lontana dalla fiction. Il carabiniere del RIS è una persona altamente specializzata che fornisce un’indispensabile valore aggiunto alle indagini, ma lo fa dal laboratorio, quando esce lo fa per raccogliere i reperti da analizzare. Mentre nel telefilm è lo stesso RIS che si accolla tutta l’indagine con tanto di inseguimenti, rapimenti e sparatorie. Una sorta di CSI all’italiana. Ma l’Italia non è l’America. È così che si creano le false aspettative di cui ti parlavo prima.
Toglimi invece una curiosità: come hai scelto il titolo, che personalmente non mi convince molto?
Il titolo nasce in treno. Mi sciroppo due ore di treno al giorno e ogni giorno, da tanti anni a questa parte, vedo le stesse facce che salgono alle stesse stazioni, persone che mi sfilano davanti anonimamente da anni senza che io conosca loro e loro conoscano me. Poi la fantasia vola: chissà che fa nella vita questa gente, che storie avrà alle proprie spalle. Me le immagino come ombre che si muovono anonimamente, come delle Insospettabili Ombre. Ognuna di loro può essere la persona più buona e disponibile verso gli altri, o più semplicemente un insospettabile killer. Mi pungi nell’orgoglio e mi viene da farti la domanda più scontata che possa esserci: come poteva essere intitolato?
Non potevi farmi una domanda peggiore: sono una schiappa a trovare i titoli! Prima di ascoltare la tua risposta però, non lo avevo capito, lo ritenevo un titolo come un altro, ora invece mi convince di più. Ma ora cominciamo a parlare dei tuoi personaggi. Quanto di te c’è nel protagonista del tuo romanzo?
Qualcosa c’è sicuramente. La professione innanzitutto:stessa divisa e stesso grado che è quello di maresciallo. Stesse passioni musicali, l’amore per la bicicletta, per la montagna e per il mare, nonché stesse abitudini culinarie, stessa testardaggine e stesse paure.
E’ un caso che si chiami Luca De Robertis?
In pratica Luca De Robertis è la mia bella copia, ho giocato con il mio nome e cognome per creare il personaggio. Scrivere di lui non mi è rimasto difficile. Gli ho fatto rivivere alcune mie esperienze positive e negative, gli ho fatto dire cose che penso, gli ho fatto vivere le mie paure. Sicuramente la paura più grossa per un operatore di polizia è quella di sbagliare persona, di prendere una cantonata durante le indagini e indirizzare le attenzioni investigative verso l’individuo sbagliato. Una doppia sconfitta. Uno sbaglio che uno sbirro non dovrebbe mai commettere. Un’indagine viene vissuta con frenesia, mentre andrebbe affrontata con calma. Ma non lo si può fare. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno che passa ti porta sempre più lontano dal colpevole. La fretta può far sbagliare chiunque però quando a farlo è un operatore di polizia è grave per i motivi che ti ho prima spiegato. Comunque il carabiniere, o il poliziotto, è un uomo e non un super eroe, una persona con le proprie certezze, ma anche con le sue paure e i suoi difetti.
Fermiamoci qui, altrimenti rischi di svelare troppo della trama. Parliamo, però, del lato che più mi affascina di Luca De Robertis: la sua passione per la musica.
Come ti ho detto prima, ho “prestato” a De Robertis alcune delle mie passioni; tra queste sicuramente c’è la musica. Suono e scrivo canzoni da quando avevo quindici anni, suono, ma non conosco la musica. Prendo uno strumento, lo guardo, cerco di capire come funziona e poi comincio a suonarlo. Così, a orecchio. Nel romanzo il cantante di riferimento di De Robertis è sicuramente Ivan Graziani. Le sue canzoni, una in particolare, lo aiutano a identificare il colpevole. E poi c’è “Il vento del soldato”. Quelle due pagine riportate nel libro sono una sorta di diario autobiografico. Quando scrissi il testo della canzone “Il vento del soldato” a seguito dell’attacco kamikaze a Nassirya che spazzò via tanti, troppi tra civili e militari italiani, vissi quei momenti come sono riportati nel libro. Stessa escalation di emozioni, stessa rabbia, stessa impotenza. E ogni volta che ripenso a ciò che è successo in terra irachena e che continua a succedere, mi sento un grande vuoto dentro. Sai Chiara!!? Anch’io volevo partire per l’Iraq. Lo sai perché non ci sono andato? Per paura, codardia, chiamala come vuoi tanto il significato non cambia. Non ho trovato la forza di lasciare “una zona relativamente tranquilla” e rimettermi in discussione. Chi ha accettato di fare servizio in quei posti, sa che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante la sua vita è a rischio. Lo sa comunque si mette a disposizione del prossimo per aiutarlo. Credimi è bello sapere che ci sono ancora persone capaci di tale altruismo. Molti, sicuramente troppi, li chiamano mercenari. La vita non ha prezzo e chi la mette in gioco per gli altri non è un mercenario e chi pensa ciò è solo una persona egoista, che della vita ha capito poco e niente. E dato che l’istinto di fare domande mi assale, tu cosa ne pensi?
Mamma mia, che domanda impegnativa! Sull’Iraq nello specifico mi piace sentire quello che pensi tu, ma preferisco non entrare nel merito perché ci infileremmo in un discorso lungo e complicato. Riguardo, invece, il testo della canzone, ti dirò alla prima lettura non mi ha colpito particolarmente. Come ti dicevo l’ho, semplicemente, inserito, nel complesso e affascinante rapporto che De Robertis ha con la musica in generale, facendolo diventare un altro tassello del quadro. Una cosa però la devo dire: mi piacerebbe sentirla suonata e cantata da te, sicuramente mi farebbe un altro effetto. Il testo da solo, non rende come una canzone nel suo complesso. Ora proseguiamo parlando dei protagonisti della vicenda. Marica e De Robertis: due facce della stessa medaglia, con alcuni punti fortemente in comune?
Nel grande medaglione della vita, le due facce sono rappresentate dal bene e dal male. Quindi sì. Marica e De Robertis nella loro vita sono le facce di questa medaglia. Entrambi vivono una esperienza tragica e negativa che segna loro un solco indelebile nel profondo dell’anima. De Robertis a contrario di Marica riesce a reagire, trova la forza di vivere una vita quasi normale mentre Marica sprofonda in una spirale di violenza senza fine.
A tratti, però, l’impressione durante la lettura è che tu giustifichi con il trauma subito di Marica il suo operato.
No. Non ci sono attenuanti per chi uccide. Ho solo cercato di analizzare come il destino di ogni persona può essere segnato da singole azioni che determino e condizionano poi tutta l’esistenza. Su come una singola azione negativa possa generare una serie di reazioni a catena dall’esito devastante e tragico. Marica è vittima di una società sordo/muta che non sa ascoltare e non sa parlare. La madre non l’ascolta, la professoressa di cui tanto si fidava la violenta, chi la circonda la ignora. La tragedia di Marica e di tante altre anonime Marica, è il dramma della solitudine, del vuoto che ha creato il benessere. Questo vuoto ci porta alla paura e soprattutto alla paura del diverso. Ti racconto una storia accaduta a un mio parente durante la seconda guerra mondiale. Una storia dove la disperazione e la paura portavano ad essere solidali, a guardare oltre l’aspetto esteriore, a scavare nel profondo ed ad ascoltare l’altro. Era un giovane marinaio imbarcato su una nave italiana al largo del mediterraneo. La nave fu affondata e il mio parente vide morire tantissimi suoi coetanei. Lui rimase vivo aggrappato a un relitto della nave e per tre giorni rimase a mollo senza vestiti. Quando arrivò a riva era nudo e stremato, passò un uomo in bicicletta e si fermò ad ascoltarlo. Quando finì di sentire la sua storia si tolse la giacca (all’epoca la giacca era un bene prezioso e forse unico e non un arredo da armadio come lo è adesso!!) e gliela diede per coprirsi. Poi il naufrago con la sola giacca addosso si incamminò e trovò un’abitazione, in quelle condizioni bussò alla porta, ad aprirgli fu una donna che non ebbe paura di quell’uomo seminudo e denutrito, ma lo ascoltò. Lo ascoltò, lo accolse in casa dandogli dei vestiti puliti, lo sfamò e il mio parente ripartì. Oggi una cosa del genere non succederebbe mai. Forse servirebbe un passo indietro, il dialogo dovrebbe tornare a essere il pane quotidiano da masticare e far masticare agli adulti di oggi e di domani. Oggi si comunica solo con SMS, chat, e-mail, face book, tutto ciò ci inaridisce. Toglie la linfa dell’essere vivi: il rapporto umano. Il piacere di stringere una mano, il bello di abbracciare e ascoltare un amico, il gusto di bere una birra insieme, la goduria di una risata fatta in compagnia, il fascino di un’occhiata compiacente tra un uomo e una donna. Sono sensazioni uniche, che si hanno solo rapportandosi personalmente e quotidianamente. Concedimi ancora una domanda: tu che mi sembri ultra tecnologica, cosa ne pensi di tutta questa virtualità?
Io penso che sia una grande occasione e un utile strumento, se usato con intelligenza. Non serve a nulla demonizzarla, accusando internet, le chat, face book e tutto il resto di tutti i problemi di comunicazione. La “virtualità”, come la chiami tu, può spalancare molte porte e ridurre le distanze e, se vissuta nel modo corretto, può addirittura essere il veicolo, in certi casi, per rapporti veri. Deve essere presa e vissuta come un “in più”, non deve certo andare a sostituire i rapporti “tradizionali. Alla fine anche noi ci siamo conosciuti per via di una rivista on-line, se ci pensi…
Ha ragione, però tutto andrebbe vissuto come hai detto giustamente tu, come un qualcosa in più, non come la cosa essenziale su cui basare la propria esistenza. Credimi mi sono trovato di fronte tanti appena maggiorenni e anche tanti minorenni che dipendono esclusivamente dalla tastiera e dallo schermo del pc, ignorando il mondo reale che li circonda. Questa per me è una sconfitta. Per comodità diamo la colpa alla società, ma se è colpa della società allora è colpa di tutti noi. La società siamo noi nel bene e nel male.
Si dà la colpa alla società per comodità, per evitare di prendersi le proprie responsabilità. Io, invece, credo molto nella responsabilità dell'individuo. Ma qui entriamo in un altro discorso che meriterebbe del tempo per essere sviluppano... Invece ora mi piacerebbe dedicare una breve parentesi a un personaggio minore, che rappresenta, però, un piccolo capolavoro: la signora dei cani.
La signora dei cani è senza nome. Senza nome volutamente….vuole rappresentare il diverso. Quello di cui un po’ tutti abbiamo paura. E’ una signora che vive anche lei un fortissimo dolore e che trova conforto nei suoi tre cani che preferisce al mondo degli uomini, un mondo esteta, frenetico, che non si ferma ad ascoltare, che diffida di chi veste in modo stravagante e parla con i suoi cani solo perché è fuori dagli stereotipi comuni. Una donna consapevole di tutto ciò che preferisce essere considerata una mezza svitata da tutti, pur di non far parte della società che la circonda. Ma come avrai capito non è svitata. Anzi!! Ha quella capacità oramai rara, di saper ascoltare e saper vedere oltre, capendo uno stato d’animo dal solo sguardo di chi gli si pone davanti.
Ora cambiamo per un attimo argomento e parliamo della fase “post- scrittura”: come sei arrivato alla pubblicazione?
Non ci crederai: ho fatto un unico invio del manoscritto. Lavoro a Bologna e ho cercato una casa editrice di lì. Ho provato con la Pendragon e mi è andata bene. Poi ho capito che il concetto di tempo di una casa editrice è totalmente diverso dalla realtà: è passato un anno prima di avere una risposta definitiva. Però alla fine sono stati di parola ed ora eccomi qua.
E sei soddisfatto?
Sì. Sono consapevole che gli spazi riservati ad un esordiente sono ridotti al minimo, so di non poter ottenere le stesse attenzioni di chi scrive da una vita. A livello letterario sono l’emerito signor nessuno che cerca di farsi largo sgomitando, tra migliaia di nomi e volumi. Sto avendo la mia opportunità, quindi devo solo ringraziare chi mi ha dato la possibilità di averla. Mi hai chiesto se sono soddisfatto. Vuoi sapere la soddisfazioni più grande qual è? I commenti delle persone che lo hanno letto. I commenti di alcuni di loro, non hanno veramente prezzo: “…bellissima la ricostruzione psicologica della serial killer…” “…tecnica e precisa la fase dell’indagine….” “…commuovente la figura della signora dei cani….” “…con due pennellate hai creato dei personaggi che rimangono impressi per tutto il libro…” “…ho pianto quando ho letto il testo della canzone sui caduti di Nassirya…” …il finale è degno di una persona che vede oltre…” Sono tutti commenti che tengo preziosamente custoditi in mail e sms. E sicuramente la soddisfazione più grande è l’aver lasciato qualcosa in chi mi ha letto. Emozioni diverse, belle o brutte, comunque emozioni che sono riuscito a far provare.
Cosa consigli a chi ha il romanzo nel cassetto?
Di tirarlo fuori e mettersi in gioco. Di accettare i consigli di persone che ne sanno più di te in quel campo. Di non ritenere perfetto il lavoro svolto. Di prendere le critiche in maniera costruttiva e non distruttiva. Insomma il romanzo nel cassetto è un po’ come un’aquila in gabbia: non riesce mai ad aprire le sue ali, ed il bello di un’aquila è che tutti possano prima o poi vederla volare con la sua imponente apertura alare.
E ora permettimi una provocazione: ora che hai una prima esperienza alle spalle, in cosa devi migliorare con il prossimo romanzo?
E’ la mia prima volta in assoluto. Non ho mai partecipato a concorsi o premi vari dedicati ad esordienti. Quindi c’è molto se non tutto da migliorare. Forse lo stile è un po’ grezzo e sicuramente mi somiglia. Guardo poco ai convenevoli e vado subito al sodo, cercando di individuare subito il fulcro del problema per risolverlo, cercando di guardare oltre le apparenze, considerando tutti sullo stesso piano:ricchi,poveri, italiani e stranieri, pie donne e prostitute. Dovrò migliorare me stesso e poi, forse, riuscirò a smorzare anche il “grezzo scritto”.
Secondo te qual è la frase più bella del tuo romanzo? Secondo me “De Robertis non era certo un paziente modello, anzi, era un impaziente modello.
La frase che hai scelto tu nasce dalla rabbia che ognuno di noi ha dentro. Quando si sta male e si ha la voglia di stare bene, te ne infischi di ciò che ti dicono, mandi al diavolo tutti e con la forza di volontà riparti, nonostante il dolore. Comunque secondo me la frase più significativa è quella che il padre di De Robertis dice al figlio quando sono soli in mezzo al mare in uno scenario quasi surreale “…Tutti ti diranno che non è colpa tua, che è stato un incidente. È vero. È stato un incidente, ma solo quando dentro di te ti convincerai di questo, capirai che la vita getta le sue reti, se sei fortunato riesci a scappare, se sei incosciente rimani subito impigliato, se sei sfortunato qualcuno ti ci butta dentro contro la tua volontà. Il destino, Luca, è il bello e il brutto della vita, non sai mai quando verrà il tuo momento. Noi siamo dei pesci che seguono la corrente. Non l’hai ucciso tu». Parole semplici dette da un vecchio pescatore con il volto scolpito dal vento e mangiato dal sale, che riassumono il senso essenziale e vero della vita.
Inventa una slogan per convincerci a comprare il tuo romanzo.
…il bene ed il male sono in mezzo a noi, sta a te scegliere da che parte stare…
E chiudiamo con la più classica delle domande: progetti?
Continuare a sciropparmi le mie due ore quotidiane di treno e perché no! Intrecciare un’altra storia e romanzarla…come si suol dire l’appetito vien mangiando e credimi, io ho sempre un grand’appetito!!
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