Il MATTINO di NAPOLI 25 OTTOBRE 1981 Esplosione a mezzogiorno in Via Chiaia. Tra le vittime accertate noto avvocato del Foro napoletano.
Il MATTINO di NAPOLI 26 OTTOBRE 1981 Confermata l’ipotesi eversiva. Cinque le vittime del vile attentato terroristico. Una sesta si dibatte tra la vita e la morte all’Ospedale Cardarelli.
Il MATTINO di NAPOLI 27 OTTOBRE 1981 Si è spento anche il giovane studente del Politecnico. Si indaga a tutto campo tra le frange estremiste napoletane. Si ipotizzano collegamenti con la malavita organizzata.
Il MATTINO di NAPOLI 25 OTTOBRE 1982 Strage di Via Chiaia un anno dopo: ancora nessun colpevole. Sit-in di protesta dei familiari delle vittime davanti al Municipio.
L’avvocato Guido Sabetti chiuse il fermaglio della borsa di pelle, lanciò un’occhiata distratta alla specchiera dorata nell’ingresso, per controllare che la cravatta fosse a posto e uscì. Ufficialmente era solo diretto in Tribunale, e la borsa gonfia di documenti serviva ad avallare la bugia. Erano le otto di mattina, sua moglie Nora dormiva ancora, ma lui era abituato ad anticipare le difficoltà, non a metterci una toppa sopra dopo che il guaio era fatto. Il guaio in questione era Maria Allegra, venti anni di allegria, capelli biondi, gambe lunghissime e maglioni sdruciti, in prima fila ai corsi di Diritto Penale, un magnete che calamitava i suoi sguardi, gli impappinava le parole della lezione sulle labbra, e alla fine lo aveva vinto e sconvolto su tutto il fronte. Ma con una moglie, due figli adolescenti, e molti amici specialisti in Diritto di Famiglia, l’avvocato Sabetti sapeva bene che occorreva essere prudenti.
La facoltà di Ingegneria si era rivelata molto più complicata e noiosa di quanto si poteva prevedere. Sasà Formisano al liceo andava bene in matematica, andava bene in tutte le materie scientifiche, era uno bravo e impegnato, anche nel collettivo studentesco. Ora, all’università, aveva la sensazione di stare iniziando a disperdersi in una marea di inutile nozioni, con lezioni che non riusciva a frequentare e appuntamenti per esami assolutamente impossibili da rispettare. La sua famiglia riteneva che fosse prossimo alla laurea, lui teneva il libretto universitario accuratamente chiuso a chiave, aveva riallacciato i contatti con gli amici del collettivo. Ora finalmente gli era stato assegnato un incarico importante, il primo. Lo zaino era pesante, e il pacco che c’era dentro era da maneggiare con cura. Gettò un ultimo sguardo in giro prima di spegnere la luce, erano le nove di mattina ma gli piaceva tenerla accesa, la stanza era un contenitore anonimo di poster, dischi, libri e fumetti. Una stanza da ragazzo, che non rivelava niente. Meglio così, lui era uno come tanti, e insieme agli altri avrebbe cambiato il mondo.
Tre figli piccoli, il doppio lavoro, Francesco con la gamba ingessata dopo l’incidente al cantiere che non poteva lavorare ancora per chissà quanto. Non era possibile andare avanti così. A trent’anni Giulia Caruso si sentiva già vecchia, ma Giovanni, Marina e Vittorio necessitavano di tante cose, mancava il cappottino per l’inverno per il più grande, e le scarpe, mentre gli altri due si sarebbero arrangiati con le cose usate, e i pastelli per la scuola, e i quaderni, e c’era già da pensare ai soldi per i giocattoli a Natale, e anche loro ogni tanto avevano diritto ad avere una tavoletta di cioccolata, o le gomme da masticare. E così lei di pomeriggio teneva i conti di una piccola fabbrica di scarpe, e la mattina lavava i pavimenti e le scale di due condomini a Via Chiaia. Aveva le mani tutte rosse e screpolate, e un diploma di ragioniera che non le bastava per dar da mangiare ai suoi figli, e due pullman da prendere per arrivare al lavoro. Già le dieci! Se non si sbrigava non sarebbe tornata in tempo per prendere Giovanni e Vittorio da scuola. Marina era a casa con la febbre. Le diede un bacio sulla fronte che scottava, salutò il marito che trascinava la gamba ingessata in giro per il loro bilocale cercando di mettere in ordine, e uscì per iniziare un’altra lunga giornata.
A Maria Allegra Postiglione i vecchi non piacevano. La pelle grinzosa, i peli sul petto grigiastri, l’addome poco tonico. Il livello delle scopate, poi era bassissimo. L’avvocato Sabetti non aveva smentito le sue aspettative: vecchio, quarantacinque anni dichiarati, pomposo e flaccido nonostante il tennis e i patetici tentativi di mettersi in jeans quando faceva lezione in facoltà. Però le aveva messo trenta e lode, e l’aveva raccomandata per altri due esami importanti, due trenta assicurati, e in cambio si doveva fare soltanto lui, un bel sollievo, visto che a volte per metterlo fuori gioco bastava un lavoretto di bocca, cosa in cui lei era molto abile. Ancora Politica Economica e poi basta, il titolare era un amico di Guido che le aveva assicurato che non c’era nemmeno bisogno di aprire i libri; dopodichè l’avrebbe mandato affanculo. L’idiota già stava progettando come passare del tempo insieme l’estate prossima, se non stava attenta avrebbe cominciato a cianciare di lasciare la moglie eccetera. Questi vecchi sono tutti uguali. Si accese la sigaretta, accavallò le gambe fasciate da calze a rete e scaldamuscoli e atteggiò le labbra a un sorriso imbronciato guardandosi nello specchietto. Le dieci e mezza, ma quando arrivava? Tirò l’orlo della gonnellina di merletto un po’ più su, godesse pure il nonno bavoso al tavolino d’angolo. Il bar era semivuoto, il suo grande e importante avvocato l’avrebbe vista subito, e gli si sarebbe acceso quello sguardo disperato e voglioso negli occhi. Quasi romantico, se non fosse stato così tremendamente vecchio. L’avrebbe fatto impazzire, quella mattina, l’avrebbe fatto mugolare come il maiale che era. Tutti trenta sul libretto fino ad ora, che bello!
Filone a scuola. E che era, alla fin fine? Si era fatto tanti film, tante fantasie, ma alla resa dei conti non sapeva che farsene, di questo tempo rubato alle lezioni. Ciondolava per Piazza Trieste e Trento con le mani in tasca, dando un calcio ai tappi che incontrava sul selciato. Pinuccio gli aveva dato buca, aveva giurato che avrebbe fatto filone anche lui, e invece niente, non arrivava. Marcello Cicala non sapeva che fare. Non aveva un soldo in tasca, a scuola non poteva più entrare ormai, in casa non era possibile tornare, sua madre gli avrebbe fatto un mazziatone. Però aveva fame, era quasi ora di ricreazione, a scuola sarebbe sceso in cortile, avrebbe mangiato la merendina con gli altri, avrebbe riso delle ragazze grandi, quelle di terza media che già si truccavano, sarebbe stato in compagnia. Che palle ‘sto filone! Solo come un cane, la merendina l’aveva divorata alle nove sull’onda dell’eccitazione, e ora non sapeva come far passare il tempo. Nemmeno qualche lira in tasca per comprarsi una Fanta.
Da quando era in pensione il tempo non passava mai. Sessantasei anni tre mesi e dodici giorni, e il tempo non passava mai. Non aveva amato il suo lavoro, assolutamente no, ma ora il tempo si era dilatato in una serie interminabile e inutile di minuti che era impossibile far scorrere più velocemente. Sua moglie gli rendeva la vita impossibile in casa. La casa editrice l’aveva sbattuto fuori senza esitazione, nonostante i chilometri di enciclopedie che aveva venduto in tutti gli anni di onesta fatica. Forse si sarebbe messo a scrivere un libro di memorie, si sarebbe fatto pubblicare da un editore più importante e gliel’avrebbe fatta vedere lui, a tutti. Ma per ora era solo un povero pensionato con un brutto pullover giallo canarino seduto ad un tavolino di un bar di Via Chiaia. Gli piaceva vedersi così, in terza persona, e raccontarsi. L’avrebbe scritto, quel libro, e tutti avrebbero visto che Gennaro Mautone aveva ancora qualcosa da dire al mondo. La bella ragazza bionda al tavolino di fianco al suo si era girata a guardarlo sorridendo. Aveva parlato ad alta voce ? A volte gli capitava, da quando era in pensione. Sua moglie non lo voleva in casa. Aveva già bevuto tre caffè, con che scusa rimanere seduto? No, la bionda aveva sorriso a questo bel tipo brizzolato e profumato che ora si sedeva contento di fronte a lei. Uno con i soldi, bastava guardare la borsa di pelle e il completo di sartoria. Il padre, lo zio? Naaah! Ma con il suo libro di memorie, le belle ragazze giovani e bionde avrebbero guardato sorridendo anche lui. Nemmeno mezzogiorno, se rincasava prima dell’una e mezza Carmela l’avrebbe spedito in giro di nuovo.
Lo zaino era anonimo ma lui non poteva correre rischi. La sede del partito era in un palazzotto su Via Chiaia, di fianco ad un negozio di abbigliamento per bambini. Lui non poteva accostarsi, l’avrebbero individuato a tre metri di distanza. Erano in due a stazionare con aria indifferente là davanti, ma erano cani da guardia, porci con i capelli rasati e il giubbotto di pelle la cui puzza si riconosceva da lontano. Non poteva entrare direttamente con lo zaino, ma poteva affidare il pacco che conteneva a qualcuno. Aveva osservato il palazzo per giorni. La donna delle pulizie arrivava a metà mattina, puliva la guardiola, poi iniziava a lavare le scale del palazzo, infine entrava con stracci e scope nella sede del partito. Se riusciva a depositare il pacco in portineria mentre era affaccendata per le scale lei avrebbe letto il nome del dirigente del partito e l’avrebbe consegnato personalmente. La bomba avrebbe devastato tutto, era un ordigno potente e delicato. La donna delle pulizie l’avrebbe consegnato e sarebbe tornata su per le scale, al sicuro, a fare le sue faccende. E se no, peggio per lei. A volte la gente normale ci rimetteva, ma Sasà era un combattente, e sapeva che era un prezzo piccolo da pagare se si combatteva per un ideale. La donna delle pulizie era sacrificabile per la causa, come anche il messaggero che avrebbe scelto per depositare il pacco in guardiola.
Diecimila lire per fare pochi metri con un pacco delicato! Che fortuna, Marcello non credeva alle sue orecchie. Questo ragazzo con i capelli a riccioli e l’orecchino ce le aveva però diecimila lire? Non scherziamo, qua non si faceva niente per niente. Gli stava raccontando una storia complicata sulla fidanzata che non doveva scoprire che era una sorpresa, e perciò doveva dare il pacco alla portiera, ma che gliene fregava a lui? Cinquemila di anticipo e cinquemila dopo, a cose fatte, appuntamento al bar in fondo, sotto l’ascensore di Via Chaia. Una pazziella, e poi diecimila lire in tasca da spendere fino all’ora di tornare a casa. Grande! Un filone da sballo. Pinuccio sarebbe schiattato di invidia.
Le pulizie nella sede del partito erano un’aggiunta insperata al suo budget. Aveva detto al dirigente che aveva un diploma da ragioniera, e chissà. Giulia non voleva illudersi, i politici fanno solo promesse, ma forse stavolta le sarebbe toccata un po’ di fortuna. Destra, sinistra, a lei non fregava nulla. Giovanni aveva bisogno del cappotto, gli antibiotici costavano, Marina si lamentava di portare sempre scarpe da maschietto, i vestiti a Vittorio arrivavano sempre consumati in maniera vergognosa. Lei e Francesco non andavano a cinema da mesi, che vita era quella? Se pensava che solo pochi anni prima era ancora una ragazza spensierata, con niente in testa se non la voglia di divertirsi. Ma i figli sono figli, e le scale pure, ancora un piano e sarebbe tornata dabbasso.
Lavare, asciugare, conservare. Lavare, asciugare, mescere. Ma lui voleva fare il cantante, mica il barista. Questo era un lavoro temporaneo, anche se gli si era incrostato addosso ormai da troppo tempo. Sciacquare, insaponare, asciugare, conservare, mescere, servire, intascare cinquanta miserabili lire, sorridere, asciugare,lavare, mescere. Con i piedi gonfi, le vene varicose e un sorriso idiota congelato su mezza faccia. Lui era Carletto Branca, e sarebbe diventato un cantante. Gli bastava solo un po’ di tempo, un po’ di tempo ancora, fra una settimana avrebbe iniziato a cantare in un ritrovo a via Medina, e poi chissà. Il tizio in giacca e cravatta con la bionda scosciata gli stava facendo cenno, ancora due caffè. Gennaro era un cliente conosciuto, un bicchiere di frizzante e avrebbe passato il tempo fino ad ora di pranzo, bastava che non gli parlasse ancora del suo libro, per carità. Il ragazzo con l’orecchino e i jeans sporchi e lo zainetto aveva preso una spremuta d’arancia e un toast stava seduto sull’orlo della sedia come se fosse pronto a fuggire via. Da tenere d’occhio quello, non sia mai che non pagasse il conto, il padrone se la sarebbe presa con lui. La signora di bell’aspetto con gli occhiali e il libro non sembrava ancora pronta a ordinare. Beata lei che aveva tempo da perdere. Lui lavava, asciugava, serviva, caffè, tè, aperitivo, prosecco, cornetto, cappuccino, aranciata, spremuta, amaro, caffè lungo, caffè corretto, graffetta o panino. Ancora pochi giorni. Ancora un po’ di tempo.
Tempo perso. Una giornata di shopping, parrucchiere, poi il corso di ceramica e di pomeriggio la riunione del comitato. Era stufa anche della beneficenza. Le mestruazioni non le venivano da tre mesi. Il ginecologo aveva detto: aspettiamo ancora, Chiara, e le aveva accarezzato la gamba sornione. Pronto a consolarla, quando i dubbi sulla sua femminilità declinante fossero divenuti troppo angosciosi. Forse era il momento di fare quel viaggio a New York che rimandava da tempo. Napoli era invivibile, in questo periodo: caos, rumore, traffico e immondizia, e la cinghia della borsa da tenere ben stretta per evitare gli scippatori. Che città fastidiosa, pensava Chiara Paoletti, sporca, incivile e provinciale, senza un negozio decente, uno spettacolo degno di nota, priva di stimoli culturali, uno zero. Tutto arrivava in ritardo. Che depressione, ma era certo colpa degli ormoni, questi pensieri cupi e noiosi che le rubavano la gioia di vivere. Avrebbe voluto dire alla ragazza imbronciata che sedeva al tavolo vicino, sorridi, divertiti, esci con coetanei, molla questo tizio che potrebbe essere tuo padre. Bell’uomo, somiglia al marito di Nora. Probabilmente è il marito di Nora. Più tardi forse le faccio una telefonata. Lui sembra proprio innamorato. Dopotutto non sono fatti miei. Chi è ‘sto ragazzino che gira qua attorno? Uno scippatore? Non avrà nemmeno undici anni. Ha un’aria furtiva che non mi piace, meglio tenere d’occhio la borsa.
Il ragazzino si era già affacciato due volte sulla soglia del bar. Cercava con lo sguardo il giovane con lo zaino, ma quello si stava arrotolando una sigaretta e pensava ai fatti suoi. L’avvocato Sabetti era abituato a notare i dettagli, e il ragazzino incerto che indugiava sul marciapiedi gli metteva ansia. Qualcos’altro lo innervosiva, e quando ripescò nella mente il nome della donna elegante che sedeva più vicino alla vetrina cominciò a sentire il nodo della cravatta troppo stretta. Doveva pensare subito ad una balla credibile da raccontare a Nora. Una tesi di laurea da iniziare a progettare. Una cliente. La figlia di un amico che voleva iscriversi a legge.
Il guaio era che la donna cui doveva consegnare il pacco era una che conosceva. Un’amica della mamma. Come glielo avrebbe spiegato alla mamma che stava in giro a consegnare pacchi invece di essere a scuola? Andava bene se il pacco lo lanciava dentro il palazzo da fuori e fuggiva via? Avrebbe avuto lo stesso le altre cinquemila lire? Che avrebbe detto il ragazzo con l’orecchino e jeans? Forse si sarebbe arrabbiato, aveva detto di darlo a lei, e farle vedere l’indirizzo del destinatario. Che doveva fare? Ora questa signora spocchiosa si girava con aria infastidita, faceva segno al barista, si giravano tutti a guardarlo in questo maledetto bar, tutti tranne quello stupido che stava fumare con gli occhi chiusi. Si girava il vecchio con la cravatta unta e il gilè giallo, si girava la bonazza con gli scaldamuscoli e le cosce da fuori e anche il signore con la borsa di pelle. Marcello ne aveva abbastanza di questa giornata da solo come un disperato, meglio la scuola, meglio tornare a casa con una scusa qualsiasi, forse la mamma gli avrebbe creduto se avesse detto che lo avevano lasciato uscire perché aveva mal di testa.
Sasà seguiva il ritmo nella testa, sapeva le parole a memoria, belle parole di lotta e coraggio e speranza. Doveva aspettare solo un altro po’, fino a sentire il botto. Peccato per la portinaia, se ci rimaneva sotto anche lei. Ma quei porci là dentro si meritavano questo ed altro. Napoli aveva bisogno di una scossa, e lui era quello che gliel’avrebbe data. Ancora poco, poi il botto, e questo grumo di tensione e paura dentro di lui si sarebbe sciolto. Avrebbe voluto stare in Facoltà a studiare, e non essersi mai immischiato in questo maledetto casino. Aprì gli occhi giusto in tempo per vedere il ragazzino con il maledetto pacco, incontrare il suo sguardo e vedere che faceva una specie di cenno di assenso. Poi il pacco fu deposto a terra sulla soglia del bar. Il ragazzino si chinò, gli diede una spinta indirizzandolo verso di lui e scattò in piedi. Sasà non lo vide correre via, perché con gli occhi della mente vedeva solo sé stesso alzarsi in piedi, la bocca spalancata in urlo silenzioso, un attimo prima che il mondo cominciasse a impazzire.
Il MATTINO di NAPOLI 25 OTTOBRE 1991 Dieci anni fa mattanza di innocenti in Via Chiaia. Nessuna giustizia per le vittime della bomba di mezzogiorno. All’interno un articolo ripercorre le stragi di questi anni di piombo in Italia.
Giulia chiuse il giornale sospirando. Tempo da perdere non ne aveva. Ricordava ancora il botto, la polvere, i clacson delle macchine, il panico della gente, vicinissimo. Era passato tanto tempo. Giovanni ora era all’università, gli altri due al liceo, suo marito aveva un lavoro decente. Dieci anni prima, il brivido, l’eccitazione,le domande della polizia. La bomba era esplosa in un bar, poche decine di metri dal palazzo dove lavorava. Aveva una montagna di panni da stirare, non poteva perdere tempo con i giornali. Camicie dei ragazzi, pigiami, lenzuola. Meglio così, meglio tanta roba da stirare, ragazzi chiassosi per casa ad ogni momento, compiti non fatti, la cucina sporca, ma una casa viva. Meglio così, non come quella poveretta di Marilena. Suo figlio Marcello si era suicidato il giorno prima. Ventun anni, una vita davanti, e si butta dal quinto piano di un palazzo così, senza un perché. Senza un biglietto di spiegazioni, niente. Un bravo ragazzo, serio, mai un brutto voto, mai un filone a scuola, niente droghe o altro, che si uccide così. Il giornale andava bene per foderare il secchio dell’immondizia, e di quei poveri morti dimenticati si sarebbe parlato di nuovo tra dieci anni, insieme alle altre vittime di attentati e stragi senza colpevoli. Lei ora aveva da stirare.
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