Prima di tutto, le presentazioni. Il risvolto di copertina ci viene in aiuto recitando: "Gianfrancesco Turano è nato a Reggio Calabria nel 1962. Giornalista e drammaturgo (premi Riccione Ater, Teatro e scienza, Enrico Maria Salerno), vive a Milano, dove ha incominciato a lavorare a 18 anni come venditore porta a porta di enciclopedie di cui sconsigliava l’acquisto. Essendo riuscito nell’intento di non piazzarne neanche una, si è laureato in greco antico, ha fatto il traduttore e ha insegnato inglese in un istituto per parrucchieri. È inviato speciale di un settimanale economico. Ha pubblicato inchieste su corruzione, riciclaggio, finanza off-shore, criminalità organizzata e altre realtà propulsive per lo sviluppo."
Poi, il libro: ci si accorge subito che la collana Gialloteca della Dario Flaccovio Editore ha cambiato aspetto. È vestita a nuovo, e anche bene. Ma non fermiamoci qui, si sa, l’abito non fa il monaco. E c’è qualcuno, del resto, che non crede troppo alle parole dei monaci.
Ma veniamo a Ragù di capra. Il protagonista, Stefano Airaghi, imprenditore sull’orlo del fallimento, ha un piano: truffare la compagnia delle assicurazioni affondando il suo yacht nello Jonio calabrese, darsi per morto e fare incassare il sostanzioso indennizzo al suo amichetto e socio Sammy Morabito, nipote di un capobastone della ‘ndrangheta, che gli procurerebbe anche l’ospitalità nel suo paesino d’origine. Tutto, almeno all’inizio, fila per il meglio. Airaghi, arrivato nel paesino, constata però che i tempi per la riscossione dei soldi sono lunghi, così, nell’attesa e nel sospetto di essere preso in giro, fonda una sua ‘ndrina, una cosca, reclutandone i componenti tra i ragazzi del paese. Il suo intento è quello di applicare la mentalità imprenditoriale alla ‘ndrangheta; ovviamente un proposito difficile, ma non ci sono ostacoli che possano fermare Stefano Airaghi che, oltre ad essere imprenditore, è anche cintura nera di karate(!). Sta al lettore scoprire se il protagonista riuscirà nei suoi scopi.
Ragù di capra è, se mi è concesso un giro di parole, un noir ironico, ma anche disperato, disperato come solo sanno esserlo i noir ironici. In alcuni passaggi, in quanto a disperazione, ricorda Le iene di Quentin Tarantino, film che comunque non ha la carica tragica che esplode, specialmente nel finale, in questo libro.
I personaggi sono tutti azzeccati, sfumati quel tanto che basta per farli bollire bene in una narrazione ellittica che si dilata di pagina in pagina. Questo tipo di stile narrativo è un pregio e un difetto contemporaneamente: pregio perché denota e fa apprezzare le qualità dello scrittore, difetto perché rischia di spiazzare i lettori poco disposti alla concentrazione, quelli che, per dirla con esempio facile facile, leggono nei ritagli di tempo, gli esponenti della congrega della lettura veloce, mordi e fuggi, "fast reading", quelli che, per intenderci, leggono in metropolitana o sul cesso.
Visto che si è in tema di difetti, Ragù di Capra, se proprio si vuole essere puntigliosi, ne ha un altro: l’uso del dialetto calabrese, sparso nel libro per colorare i personaggi e i luoghi e, soprattutto, per aumentare l’ironia di cui sopra. Ora, una parte di questa ironia si disperde nell’aria per il lettore non calabrese, che magari non sa come tradurre "pilu" e "prèscia".
Questo non vuol dire che tutta la popolazione italiana non calabrese che legge i libri a bagno non possa gustare questo romanzo, anzi. È un’occasione per confrontarsi con una scrittura leggermente più elaborata e, soprattutto, con argomenti e problemi poco trattati. A pensarci bene, infatti, di noir, gialli o polizieschi ambientati in Calabria in pratica non ce n’è, e, se ci sono, o non li si conosce o sono talmente pochi da costituire un gruppetto disperato e urlante. Effettivamente, non esiste un immaginario letterario sulla ‘ndrangheta: qualcosa di paragonabile a ciò che esiste sulla mafia siciliana, che in questo momento ha, in un certo senso, il problema opposto: un immaginario letterario svalutato, supersfruttato, talmente abusato che si potrebbe finire a provare simpatia per un boss mafioso reale e vivente come per un Marlon Brando ne Il padrino. Fatto assolutamente aberrante se si pensa che la mafia non è uno scherzo o una fiction e che la ‘ndrangheta detiene ormai la leadership criminale in Italia.
‘Ndrangheta ma non solo: Turano descrive con perizia il conflitto silente tra Nord e Sud, che si esprime, oltre che sul piano linguistico-dialettale e culturale, su una base socio-economica, spaccando, di fatto, la nazione in due, aumentando quell’incomunicabilità e quella rabbia che è tutta nel telefono rotto che si trova in copertina.
In definitiva, Ragù di capra è un romanzo sottilmente allusivo, ironico, dilatato. A qualcuno potrebbe risultare ostico, ma vale veramente la pena di leggerlo, anche per scoprire tutti gli altri spunti e argomenti che qui non sono stati descritti per esigenze di spazio.
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