…oggi, più che mai, sentiamo come primario impegno morale quello di sventare ogni tentativo di supremazia della sovversione comunista. Dobbiamo reagire, e colpire. Anche con l’inganno. Il nostro obiettivo è di adoperarci in uno scontro frontale, ma evitando le condizioni che porterebbero a tempi inevitabilmente lunghi, e con il rischio di perdere e disperdere forze giovani. Questa è la svolta politica. La svolta dell’ordine finale. E deve essere la svolta vincente, capace di riportare la nostra patria al destino già tracciato dal fulgore del passato fascista. Occorre colpire nell’ombra, cercando di vivere alla luce del sole. Occorre nutrire la potenza del nostro braccio con il nero delle tenebre, e risplendere con la forza delle nostre idee alla luce della gloria…
(da “Il Nuovo Ordine Sociale”, maggio 1979)
L’hotel era un’architettura semplice, priva di balconi, incassata tra un magazzino di giocattoli e un negozio di fiori. Era stato costruito lontano da qualunque percorso turistico, e negli ultimi tempi era frequentato solo dalle poche battone rimaste a lavorare nei pressi dello svincolo della Prenestina. Sulla porta di vetro smerigliato una scritta in tondo, “Hotel Terminus”, e due stelle a separare le parole color argento. Terminus, come il dio minore dei romani, il protettore dei confini. Si rivolgevano a lui i legionari che stavano al confine delle province per essere salvati dagli attacchi e dalle incursioni dei barbari.
Io me ne stavo seduto nella hall su una sedia di vimini mezza spelata, quando Willy Fontana abbassò la maniglia e fece tintinnare la porta. Entrò con la postura del figlio di famiglia per bene, e con lo sguardo di uno capace di fare del male. Sulle spalle aveva ventidue anni e una facoltà di medicina abbandonata da sei mesi.
Il portiere era semisdraiato dietro una vecchia scrivania bassa, con il culo su una poltroncina di pelle nera, un cuscino dietro la schiena e le gambe allungate in avanti. Guardava in tv un vecchio film in bianco e nero. Il volume era talmente basso che sembrava senza sonoro. Fece una mezza torsione sulla seggiola, poi si alzò controvoglia. Era magro, con i capelli che si arricciavano alla base del collo. Guardò il nuovo arrivato con occhi intontiti. Forse il sonno, forse un paio di bicchieri di troppo bevuti dalla bottiglia di Matheus vuota appoggiata sul banco. Ma appena mise a fuoco il nuovo venuto, diede subito l’impressione di averlo riconosciuto.
Willy evitò qualunque commento. Mi passò davanti senza degnarmi di uno sguardo. Io stavo con un occhio sul giornale e con l’altro intento a seguire i suoi movimenti. Lo vidi prendere le chiavi della stanza numero quattro, che l’altro zitto zitto gli aveva messo sotto il naso, e far scivolare una banconota da diecimila sul piano della vecchia scrivania. Il portiere incassò con un mezzo sorriso. Forse sapeva che Willy stringeva in tasca una pistola con il silenziatore. E lo ammirava, come si ammira un eroe.
Forse sapeva anche che si era occupato lui di sparare a Corrado Mattina, giornalista del Messaggero con l’abitudine di ficcare il naso nell’attività di gruppi eversivi. Rossi e neri. Indifferentemente. Gli ordini che aveva ricevuto Fontana erano di colpirlo all’arteria femorale con un colpo, un altro invece lo doveva ferire a un piede, e due proiettili finire fuori bersaglio. L’obiettivo era la morte del giornalista, ma doveva apparire come una morte accidentale, un’emorragia causata da qualche pivello senz’arte né parte che non sa tenere in mano una pistola e che si incaponisce a giocare alla rivoluzione cercando di gambizzare qualche nemico di classe. Un imbecille rosso, tanto per dirla chiara. Uno su cui fosse facile attirare l’attenzione degli inquirenti, un fiancheggiatore di qualche gruppo armato, un fuoriuscito dall’autonomia che cerca di fare il salto di qualità.
La colpa di Mattina era stata di voler pubblicare sul giornale per il quale lavorava tutto quello che aveva scoperto sul Nuovo Ordine Sociale. Doveva cadere in nome della gloria dei camerati, aveva detto Ottaviano Lojacono, quello che teneva le fila dell’organizzazione e che, nel vestire e nei modi di fare, ricordava l’Hercule Poirot sulle copertine dei gialli. Era proprietario di una palazzina di tre piani in pieno centro dove avevano la loro sede una serie di ditte, tra cui una di import-export, due finanziarie, e la casa editrice Nova Lux che pubblicava poesie e brevi saggi di cultura germanica. Tutta roba controllata da Lojacono… a suo tempo discusso e giovanissimo funzionario del ministero degli Interni del governo Mussolini, oggi “con forti velleità politiche”, come aveva scritto di lui Corrado Mattina, definendolo “un affarista coinvolto in grosse operazioni speculative, forte di contatti con il mondo mediorientale mascherati da vicende commerciali a loro volta piuttosto discutibili: uno che sopravvive nei suoi affari con una serie di protettori nel mondo della politica e di connivenze con i servizi segreti”. Una lunga lista di fatti concludeva quel servizio che alla fine era costato la condanna a morte al giornalista.
— Gli altri dove stanno? — chiese Willy.
— Stesso piano. Stanza tre e cinque… non vi disturberà nessuno… le puttane con i loro clienti le faccio salire al secondo.
— Ci sono già tutti?
— Sì.
Infatti Dario era chiuso nella cinque. Ormai da tre giorni. Da quando aveva finito il suo lavoro.
E sapevo benissimo cosa stava facendo. Se ne stava sdraiato sul letto, con un braccio steso fuori e una sigaretta che si consumava tra le dita. Giaceva con gli occhi arrossati per la stanchezza e per l’aria ormai satura di fumo. La camera era ridotta all’osso, e non sapeva bene neanche lui come faceva a resistere lì dentro senza dar fuori di matto. Non c’era neanche un angolo con specchio e lavabo. A stento conteneva il letto e un tavolino con gli avanzi di una pizza e una bottiglia di aranciata piena a metà, e cerchi gialli qui e là della dimensione del fondo del bicchiere. Schiacciata sotto il tavolo una sedia, e appoggiata a terra una borsa floscia aperta. Dentro, un kalashnikov.
Gli obiettivi di Dario erano stati due poliziotti e un giudice, due divise e una toga indossate da gente che non era nemmeno schierata politicamente, a sentire voci di corridoio. Talmente anonimi che qualche giornale aveva perfino sbagliato a scrive il nome di uno dei due poliziotti. Ventotto e trentadue anni. Un po’ di esperienza a fare la vita da sbirri li aveva spinti a ficcare il naso in questioni poco chiare. E le attività di Lojacono erano tra queste. Da un po’ di tempo i tre gli stavano con gli occhi addosso, e anche se la giustizia è lenta come una lumaca stanca, prima o poi arriva vicino al traguardo, e proprio sulla scrivania di Antonino Ruotolo si andavano accumulando i verbali che aveva incominciato a stilare con tanto di nomi, cognomi, legami e possibili capi d’imputazione.
Due agenti che raccoglievano informazioni, che facevano appostamenti e foto, e un giudice, Antonino Ruotolo, che valutava il materiale. Persone che volevano chiarire dei dubbi. Ma sul loro cammino avevano incontrato gente senza dubbi. E così gli appartenenti al NOS gli avevano tolto per sempre il vizio di curiosare in questioni troppo grandi per loro.
Era stato Dario a sparare, su una vespa guidata da un complice, proprio davanti al tribunale. Lasciando sul posto piombo caldo e alcuni volantini firmati da una stella a cinque punte e piena di minacce ai rappresentanti dello stato borghese. Era di mattina presto quando i tre erano crollati a terra senza neanche avere il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo. Appena il ricordo sulle labbra del gusto del caffè.
A coprire Dario una coppia di studenti alla guida di una Giulia rubata. I due che stavano nella stanza numero cinque.
— Ottimo lavoro… — aveva commentato Lojacono. — La storia è capace di ripetersi.
I nuovi gladiatori avevano colpito, con la rabbia e la crudeltà di ventenni che si sentono oppressi dalla società e vogliono cambiare le regole uccidendo, magari colpendo i bersagli più facili. Per ritrovarsi alla fine chiusi dentro la gabbia della loro ferocia a gioire del sangue versato. Sangue con cui celebrare riti, come i nuovi dèi delle tenebre.
Anche se i due della stanza cinque, a dire il vero, un gran bel lavoro non l’avevano fatto. Negli ultimi mesi si erano sbizzarriti a rapinare banche e gioiellerie in alcuni paesini del Nord, e sembrava gente in gamba. A loro era stato assegnato il compito di recuperare armi di domenica mattina prendendo d’assalto il deposito dell’Ospedale Militare. La scusa di voler entrare per trovare un ricoverato aveva funzionato. Ma il sottufficiale di guardia li aveva notati mentre tentavano di caricare le armi su un furgone. Era scoppiato un gran casino. Avevano mollato tutto tirando fuori la pelle per miracolo.
È per questo che ero entrato in ballo io.
Lojacono aveva bisogno di armi e soprattutto di esplosivo senza passare attraverso i suoi soliti canali. Niente favori dai potenti. Niente roba di provenienza libanese. Non voleva dare troppo nell’occhio.
Questa volta aveva in mente qualcosa di grosso, e non era il caso di lasciare tracce. Meglio servirsi di qualcuno della mala. Qualcuno a cui poter tappare la bocca in fretta se le cose non andavano per il verso giusto.
Amici comuni gli avevano fatto il mio nome, garantendogli che io ero il tipo giusto per procurargli tutto quello che voleva. Perché avevo fatto molti soldi con le armi, anche se non ne avevo mai usata una.
Mi staccai dalla poltrona di vimini. Feci un cenno al portiere e mi diressi nella mia stanza. La numero sette. L’unica con la vasca da bagno. Erano le undici e mezza, e avevamo ancora un’ora di tempo prima di trovarci tutti quanti nella hall e andare insieme al cascinale a recuperare il furgone con la merce.
Mi infilai in bagno per pisciare, e fissavo i tubi esterni smaltati di beige che si gonfiavano qui e là lasciando a terra una polvere leggera. Prima pensai che quei tubi sapevano di antico, avevano il sapore della casa della nonna in campagna. Poi, una volta aperto il rubinetto del lavandino, infilai la testa sotto l’acqua.
Facciamo finta di scegliere, dicevo tra me. Tutto quello che facciamo, come viviamo, è una specie di condanna che ci è cascata tra capo e collo, come nel momento in cui una donna è cosciente di essere incinta. È qualcosa di ineluttabile, come il tempo, come lo scorrere dell’acqua, come il calore prodotto dal fuoco. Come una colla vischiosa da cui è impossibile tirarsi fuori. Lo pensavo stando seduto sul bordo della vasca, sporca come me, come i miei pensieri e le mie azioni. Una vasca dove non avrei mai immaginato di immergermi.
Aprii di nuovo il rubinetto e feci scorrere l’acqua calda. Diedi una passata con l’asciugamano all’interno della vasca per togliere residui di sporco. Misi il tappo e lasciai che si riempisse.
Poi mi infilai dentro. L’impatto mi provocò subito un formicolio su tutta la pelle, e immediatamente dopo incominciai a rilassarmi. Chiusi gli occhi. Ero stanco. Sfibrato dalla mia esistenza, troppo spesso nascosta anche a me stesso. Forse avrei pregato volentieri, se solo mi fossi ricordato una qualunque preghiera. Avevo perso la strada che mi portava a Dio, a un qualunque dio a cui potermi rivolgere. In quel momento era un dio ignoto, che mi rendevo conto di non aver mai conosciuto nelle parole, nei gesti, e forse neanche amato. Solo qualche volta bestemmiato. Insomma, non avevo mai creduto nella sua forza, nella sua esistenza, nella sua capacità di farci vivere con più serenità e umiltà.
Ma stavolta ne ero certo. Avrei chiuso la partita quella sera stessa, il furgone e le armi dovevano essere recuperate. Poi la svolta: sarei sparito per un bel pezzo su un’isola greca, dove provare a ricostruire un pezzo di vita.
L’hotel Terminus era una costruzione semplice, come quella che avevo adocchiato sull’isola di Samo. Dentro però si consumavano esistenze troppo complesse.
Arrivammo sul posto a bordo di una 124, dopo aver percorso un lungo viottolo fatto di sterpaglie e ghiaia. La coppia di studenti rimase in macchina per tenere sotto controllo la situazione. Quando noi tre scendemmo li sentimmo ridere. Parevano un po’ nervosi. Forse avevano paura. E chi ha paura prima o poi crolla. Perché non avevano messo in conto che scegliendo questa vita avrebbero vissuto in ogni momento a contatto con la morte. La propria.
La notte sembra avere un odore diverso quando si cammina in campagna. Me lo ricordavo già da bambino quando andavo con mio nonno per sentieri a cercare lumache nelle sere d’estate. E ha anche un profilo diverso. Più opaco, meno delineato. Forse è più libera, la notte in campagna.
Mi sembrava di correre indietro di almeno dieci anni con i piedi tormentati dalle zolle spigolose, e in bocca il gusto amarognolo dell’aria fresca che si porta dietro l’aspro della vegetazione ormai secca. Faceva freddo, e c’era solo un riverbero di luna a illuminare i passi.
Dario e Willy stavano un passo dietro di me. Muti. Come per tutto il tempo del viaggio. Il loro silenzio incominciava a pesarmi sulla schiena, e rendeva ancora più inquietante la penombra della campagna, dove i contorni della vegetazione sembravano dover prendere vita da un momento all’altro per consumare antichi riti pagani.
Attraversammo un ponticello che tagliava un piccolo canale d’irrigazione, e trovammo davanti a noi il cascinale con la stalla dove avevo nascosto il furgone. Mi avevano accompagnato in quattro per verificare la qualità della merce. E chissà se dopo mi avrebbero puntato la pistola contro. Chissà se era nelle loro intenzioni farmi saltare il cervello, liberarsi di un testimone e magari lasciare qualche diversivo sul terreno umido del mio sangue.
Li guardai. Credo che sia stata l’ultima volta che ho visto la loro faccia. Poi feci ancora due passi. Il portone era a filo del mio braccio steso.
C’era il buio a farmi da complice, a nascondere la paura che incominciava a farsi sentire. Credo che stesse lasciando tracce molto evidenti sulla mia faccia. Ma gli altri due erano troppo intenti a giocare la parte dei soldati muti e freddi per accorgersi dei miei gesti diventati più lenti, più impacciati.
Non si degnarono nemmeno di darmi una mano ad aprire la porta della stalla. Così mi ci aggrappai facendo forza con tutto il mio peso, e la spalancai tenendomi nascosto.
I carabinieri schizzarono fuori come molle, e io mi accucciai subito tra la parete esterna e il portone spalancato, cercando rifugio nell’odore delle vecchie assi.
Lasciai gli altri due da soli a fare i conti con la sorpresa e con il loro futuro.
Non vedevo altro che il buio, raggomitolato fra me e me, con il collo incassato nelle spalle, cercando di diventare sempre più piccolo. Quasi invisibile. Strizzavo gli occhi e provavo a immaginarmi il sole di Samo scaldarmi la pelle della faccia, l’azzurro del mare e dell’orizzonte illuminare la mia vista.
Sentivo solo dei rumori, e mi sembravano così fuori luogo in quel posto abbandonato, in piena notte, rumori prepotenti, acuti, bestemmie, parole che si accavallavano, gesti soffocati di corpi che si stringevano, si colpivano. Ma nessuno sparò. Neanche un colpo.
Dario e Willy erano stesi, senza potersi muovere, con la faccia premuta contro la terra fredda in una smorfia grottesca che nulla aveva da spartire con il loro ruolo di soldati freddi e muti.
I carabinieri stavano loro addosso chiudendo ogni più piccolo spazio di movimento. Si erano trasformati in uomini senza più libertà, chiusi nei loro confini, senza un dio a proteggerli. Anche il dio Terminus guardava da un’altra parte quella notte.
Poi sentii il cigolio della porta che ondeggiava.
Davanti a me si inginocchiò il tenente.
— Almeno sei stato di parola, — mi ha detto con voce stanca.
— Li avete presi tutti?
— Tutti e quattro. La loro avventura è finita qui.
Chissà se i due in macchina ridevano anche quando si sono visti piazzare le canne delle mitragliette all’altezza della testa al di là del finestrino.
— E Lojacono?
— È questione di qualche minuto… i colleghi sono già davanti alla porta di casa sua e aspettano solo un ordine per fare irruzione e portarlo via… e poi toccherà a tutti gli altri. Il giudice Ruotolo stava facendo un buon lavoro…
— E voi sarete di parola?
— Certo, ma tu vedi di sparire dalla circolazione e pure in fretta. Questa volta ti è andata bene ma sappi che una seconda opportunità non ce l’ha nessuno, nemmeno noi.
Mi lascio il porto di Ancona alle spalle. Viaggio come un turista qualunque. Un turista fuori stagione. Senza dare nell’occhio. Zaino in spalla, una borsa indiana a tracolla e un giornale piegato che scappa fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni. Guardo il mare, le onde spezzate dal movimento della nave e la schiuma biancastra, e gioco con gli spruzzi d’acqua che si perdono nel vento.
C’è colore attorno a me, mentre mi lascio dietro un pezzo di vita torbida. Ho scambiato quella di prima con la mia libertà.
La nave si allontana e io mi lascio dietro il limite della mia esistenza.
Lo spazio circoscritto dove ho sguazzato finora.
Mi lascio indietro anche il confine italiano, una delle tante linee invisibili che dividono il mondo in mille fette, come una carta geografica governata dal dio Terminus. È la linea che cambia la cultura della gente, il colore delle divise degli sbirri, e il gusto del pane. Dove trovi o non trovi un caffè decente da mandare giù al mattino presto.
Mi lascio indietro il confine della mia terra.
Proprio là dove il dio Terminus ha guardato verso di me mentre transitavo dalla Svizzera per entrare in Italia, e per una volta ha voluto occuparsi dei fatti miei provando a darmi una seconda opportunità.
Il gioco è incominciato quando un doganiere giovane e un po’ troppo curioso ha infilato il naso dove non avrebbe dovuto. Si era convinto che io avessi degli orologi nascosti da qualche parte. Dei banali orologi.
— …ho ricevuto una segnalazione dalla dogana svizzera. Sembra proprio questa la macchina… — l’ho sentito dire mentre insieme a due finanzieri mi metteva sotto sopra la vettura.
E ha trovato il doppiofondo con le armi.
Armi sotto la macchina, cioccolata sul cruscotto e un orologio sfizioso al polso. In Svizzera non trovi altro, se non la voglia repressa delle donne di ubriacarsi al sabato sera e tradire mariti molli e acidi come pane nell’aceto.
Il doganiere non doveva aver mai visto nemmeno uno schioppo arrugginito in vita sua, perché quando è spuntato il mirino del kalashnikov a momenti gli saltavano le coronarie.
Subito dopo, con una mandria di sbirri incarogniti che mi stava addosso, e davanti a un giudice che mi piantava gli occhi in faccia e mi bombardava di domande, ho dovuto scegliere.
Tra la galera e collaborare con i carabinieri.
— La nostra costituzione vieta la ricostruzione del disciolto partito fascista, — mi aveva detto il giudice a un certo punto, — ma questa gente ci sta riprovando, magari cambiando nome… la sostanza è quella. Dico che è ora di chiudere con quei matti che vogliono un nuovo duce a guidare l’esistenza degli italiani e non fanno altro che sporcare di sangue i marciapiedi delle città e le coscienze degli uomini onesti.
Subito dopo mi ha buttato lì la proposta, guardando di traverso un ufficiale dei carabinieri. L’altro era rimasto silenzioso. Poi gli ha fatto un cenno come per dire ‘va bene’.
Avevano l’aria severa. Tutti e due.
Ma anche lo sguardo di uomini di cui fidarsi.
E io ero stanco. Stanco di domande, e di paura, di entrare e uscire da quella cella dove non c’era nemmeno uno straccio di compagno con me, con il catenaccio che ogni volta che scorreva mi rimbombava nel cervello insieme a tutta la mia solitudine. Ed erano passati solo quattro giorni.
— Basta con questa gente, e con tutti i disastri che combinano, — mi ha detto il giudice appoggiandomi una mano sulla spalla, allo stesso modo di quelli che mi accompagnavano in cella e mi stavano al fianco convinti forse che potessi scappare da qualche parte, — e se non ci dai una mano a inchiodare quei criminali, finisci dietro le sbarre per una quindicina d’anni… e noi troveremo prima o poi qualcun altro disposto a collaborare con la giustizia…
Non era intenzionato a darmi tanto tempo per pensarci.
E io ho scelto.
Subito.
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