Full
Mi sono svegliato di soprassalto, hanno acceso le luci.
Fracasso di porte sbattute, tintinnii metallici, strascicare di anfibi sul cemento.
Mi alzo stiracchiandomi, mentre allungo il collo per vedere oltre la rete chi è l’imbecille che fa tutto quel baccano a quest’ora del mattino.
«Toh, guarda chi c’è!», penso tra me.
«E che ci fa Pasquale ancora da queste parti?».
«Ma non doveva partire ieri sera per Altamura in licenza natalizia?».
Ed io che me lo immaginavo mentre già annaspava tra le generose rotondità di Maristella.
Invece eccolo là, in completo assetto operativo, che avanza nel corridoio, con l’aria più ingrugnata del mondo.
Avanza verso di me, s’intende.
È più di un anno e mezzo che io e Pasquale facciamo coppia fissa.
Il mio compagno è il vicebrigadiere Lorusso Pasquale, di anni ventotto, stato civile celibe, fidanzato con Papangelo Maristella, di anni ventisei, professione parrucchiera, segni particolari: seno extra large. Non che le abbia mai viste realmente, intendiamoci, io ho vissuto tutta la mia vita tra la Toscana, dove sono nato e cresciuto, e l’Umbria, dove presto servizio attualmente.
Le virtù di Maristella, invece, non si sono mai mosse da Altamura.
La leggenda è nata dalle estenuanti evocazioni nostalgiche cui il vicebrigadiere mi sottopone nelle pause del lavoro, tra un messaggino e una telefonata, quando non ci sono orecchie indiscrete ad ascoltare. Pasquale è molto geloso di Maristella e dei suoi accessori. È geloso con tutti ma non con me che sono il suo inseparabile compagno, e quindi mi tocca sorbirmi pazientemente tutte le sue confessioni più intime.
In ogni caso sa che non andrei mai a spifferarle in giro per due fondamentali motivi: primo, non tradirei la fiducia di un amico per niente al mondo, secondo, anche volendo non potrei, perché non ho l’uso della parola.
In effetti per Pasquale mi manca solo quella e so che quando lo dice è sincero.
A proposito, mi chiamo Full, ho sei anni e sono un Pastore Tedesco in forza al Nucleo Carabinieri Cinofili di Bastia Umbra.
Per quanto riguarda l’aspetto del pastore e del tedesco, ci terrei a precisare che non ho mai visto una pecora in vita mia e che nella mia famiglia siamo italianissimi da generazioni.
Forse una trisnonna da parte di madre veniva da Francoforte, per il resto, mamma Lara era di Grosseto, e mio padre Zagor un fiorentino purosangue.
Mi pare il colmo dare del Tedesco a uno che ha la nausea solo all’odore della birra e che adora la pizza anche se non gliene danno mai, maremma lupa! Sono un pubblico ufficiale che invece di fare rapporto, come sarebbe stato suo dovere, ha fatto le feste al vicebrigadiere Lorusso, il quale in servizio e in divisa, davanti al maxischermo e a testimoni, al momento del goal del due a zero di Del Piero sulla Germania, rivolgeva ripetutamente il “gesto dell’ombrello” all’indirizzo dei miei presunti connazionali.
Pasquale apre il cancello del mio box e mi aggancia al lungo guinzaglio in cuoio che si è sfilato dalla tracolla, non senza avermi prima dato un buffetto amichevole sul muso, come al solito.
E come al solito riesce a leggermi i pensieri dallo sguardo. Non so come succede, ma succede tutte le volte che ci guardiamo negli occhi, io e lui.
«Beh?», mi fa, «che hai da guardare? Licenza annullata fino a nuovo ordine, tra cinque minuti si parte».
«Se devi fare pipì questo è il momento. Ci aspettano quasi due ore del dannato furgone. Siamo di servizio alla Stazione Termini».
«Pare che un’informativa dei Servizi prospetti possibili attentati terroristici sui treni carichi di passeggeri che tornano a casa per il Natale».
«I fortunati che ci tornano, naturalmente!».
E così questo è il motivo, povero Pasquale. Colpa mia se gli salta la licenza.
Il fatto è che tra i miei colleghi c’è chi si occupa di ritrovare le persone, chi di scovare la droga e chi, come il sottoscritto, ha il pallino per gli esplosivi.
Non per vantarmi, ma sono considerato uno dei massimi specialisti del settore.
Non c’è situazione a rischio, di solito negli aeroporti, ma anche negli stadi, nelle manifestazioni di piazza, nelle stazioni ferroviarie per l’appunto, che non vede protagonista l’unità cinofila costituita da Full e dal vicebrigadiere Lorusso Pasquale. Con buona pace di Maristella, che dovrà tenere in serbo le sue preziose risorse fino al cenone di Capodanno.
Chiunque sia dotato di un barlume di buon senso, potendo, evita con cura la stazione ferroviaria di una grande città durante il primo week-end di agosto e nei giorni che precedono il Natale. Colonne di persone che si spostano, trascinandosi dietro bagagli che sferragliano su minuscole rotelle di plastica. Un flusso interminabile di schiamazzi, confusione di richiami e di urla in cento lingue e dialetti diversi, solo a tratti sovrastato dall’indecifrabile borbottio degli altoparlanti. Una selva di gambe che sfila ininterrotta e che chiude la visuale, ma soprattutto, cosa in assoluto più grave per quelli che fanno il mio mestiere, un’autentica tempesta di odori. Ci aggiriamo da un’oretta tra le banchine dei treni in partenza e le sale d’aspetto.
Siamo passati anche nel deposito bagagli, ma non c’era niente di significativo, a parte gli stimoli olfattivi legati alla quantità industriale di roba buona da mangiare di cui la gente in questi giorni, inspiegabilmente, riempie le valigie.
Passiamo davanti a una signora che tiene per mano una bimbetta con una selva di riccioli neri e che mi guarda con gli occhi sgranati.
La signora realizza l’oggetto della meraviglia di sua figlia.
«Guarda amore, un cane poliziotto!».
«Poliziotto a chi, scusi?».
«Prego signora, se non le dispiace io sarei un carabiniere!».
«E poi si meravigliano se le nuove generazioni crescono con le idee confuse».
Stanno controllando i documenti ad un gruppo di ragazzi dall’aria malandata. Probabilmente sono reduci da una severissima dieta, anche peggiore della mia.
Il fondo dei loro pantaloni penzola penosamente verso il basso, e una larga fascia di schiena ne rimane scoperta.
E non solo della schiena, poverini.
Ma è mai possibile che in giro non ci sia un’anima caritatevole che glielo faccia notare?
A parte un forte odore molto aromatico che proviene da una delle tasche dei loro zaini, odore che conosco ma che non rientra nella sfera delle mie competenze, sono a posto.
Mi guardo intorno, narici in alto, al limite del raggio di azione concessomi dal guinzaglio.
Mi sembra… ma forse mi sbaglio… è stato un attimo, una sensazione fuggevole che è sfumata tra le mille altre che affollano il mio naso.
Eccola! Stavolta è più forte, sulla mia destra.
Maledette gambe! Maledetto guinzaglio!
Dò uno strattone, Pasquale mi guarda con aria interrogativa, allenta la presa e viene verso di me.
«Che c’è, Full?».
Nella sua voce c’è tensione, nel suo sguardo preoccupazione. Sa che non sono uno che si agita per nulla.
Ci guardiamo negli occhi per una frazione di secondo, poi ci facciamo largo tra la folla.
Lo vediamo quasi subito.
È molto giovane, un ragazzo, capelli folti e neri, carnagione olivastra.
Tratti mediorientali, direbbe uno di quei giornalisti che, a cose fatte, commentano le tragedie nei telegiornali.
Cammina a passo svelto davanti a noi, in direzione dell’uscita.
Si volta e ci vede, nei suoi occhi un lampo di paura. Allunga il passo.
«Fermo!» gli grida Pasquale.
È come se gli avesse detto: «Corri!».
Il ragazzo si dà alla fuga zigzagando tra la gente e spintonando quelli più lenti a scansarsi.
Qualcuno cade.
Qualcuno comincia a gridare.
Ci lanciamo all’inseguimento, ma in due siamo troppo lenti ed impacciati.
Perdiamo terreno.
«Sganciami Pasquale, sganciami sennò lo perdiamo!».
Clack! La tensione sul collo scompare allo scatto del moschettone, sono libero.
«Vai Full, prendilo!».
«Raccomandazione superflua, collega, conosco il mio mestiere!».
Mi lancio tra due ali di folla sgomenta, la gente mi guarda atterrita, le urla ormai sono assordanti ma io non ci faccio caso, sono concentrato sul mio obiettivo.
L’odore dell’esplosivo si fa più forte man mano che mi avvicino, frammisto a quello acre della paura.
L’individuo sospetto, come si chiamano in “verbalese” quelli che scappano davanti agli agenti delle forze dell’ordine, ha un attimo di incertezza, rallenta.
Due agenti della Polfer lo hanno notato e si muovono rapidamente verso di lui.
Cambia improvvisamente direzione, ma è troppo tardi, spicco un salto da olimpionico e gli sono addosso.
Non per vantarmi, ma è un’azione da manuale.
Fase uno: presa al volo dell’avambraccio sinistro. Sbilanciato dalla spinta del mio tuffo, il ragazzo ruota su se stesso e crolla al suolo sulla schiena con un tonfo sordo.
Fase due: lo immobilizzo salendogli addosso con tutte e quattro le zampe, e lo sconsiglio dal compiere gesti inconsulti, mostrandogli tutta intera la scintillante dentatura di cui mamma Lara mi ha generosamente provvisto.
Il tutto accompagnato, naturalmente, da un ringhio cupo e profondo che fa venire la pelle d’oca anche ai delinquenti più incalliti.
Mi sposto solo all’arrivo di Pasquale che mette pancia a terra il ragazzo e gli porta i polsi dietro la schiena.
Lo scatto metallico delle manette chiude la scena.
Non ci metterei la zampa sul fuoco, ma credo di aver sentito anche degli applausi.
La voce maschile viene fuori dagli altoparlanti, miracolosamente chiara.
«Signore e signori, prego! È in corso un’operazione antidroga e chiediamo la vostra collaborazione! Riteniamo che sia stato depositato in un treno un grosso carico di stupefacenti che ora le squadre cinofile cercheranno di recuperare».
«Per facilitare il loro lavoro vi chiediamo di scendere dalle carrozze che sono sui binari uno, due, tre, quattro, cinque e sei, e di avviarvi con calma ed ordine verso le uscite, secondo le istruzioni che vi verranno fornite dal personale delle Ferrovie dello Stato e dagli uomini delle forze dell’ordine. I bagagli dovranno essere lasciati a bordo. Vi preghiamo ancora una volta di mantenere la massima calma, ci scusiamo per il disguido e faremo in modo che il vostro viaggio possa riprendere al più presto possibile».
L’annuncio viene ripetuto molte volte, anche in inglese.
«Non se la berranno mai questa panzana!», dice sottovoce Pasquale al Maresciallo Ferri, scuotendo la testa.
«Dove si è visto mai che per trovare la droga si evacuino le persone!».
«Si vede che non hanno avuto altra scelta», risponde lui, «l’ordine tassativo è di scongiurare il panico tra i passeggeri. In queste condizioni potrebbe essere più disastroso di una eventuale bomba».
«Purtroppo addosso al ragazzo, a parte l’odore avvertito da Full, non c’era traccia di esplosivo, e nemmeno di un congegno elettronico che potesse funzionare da comando a distanza. Questo vuol dire che l’ordigno è stato già piazzato e che molto probabilmente sarà azionato da un sistema ad orologeria. Abbiamo i minuti contati!».
Nonostante le previsioni pessimistiche del mio compagno, il trucco sembra funzionare.
Una folla compatta ma ordinata si sta muovendo sulle banchine in direzione dell’uscita. Il passo è leggermente affrettato, le voci concitate, gli sguardi sono carichi di interrogativi, ma per ora mantiene la calma.
Il nostro obiettivo è l’Intercity delle 10 e 35 per Reggio Calabria, binario tre.
Era l’unico treno fermo sulla banchina dove abbiamo effettuato l’arresto.
L’Eurostar per Milano è arrivato solo cinque minuti dopo sul binario due.
Pasquale mi fa una lunga carezza dalla testa fino alla schiena. «Andiamo Full, adesso tocca a noi».
Poi aggiunge con un sospiro: «Andiamoci a guadagnare la tredicesima!». In realtà non ha detto guadagnare, ma abbuscare, in dialetto, solo che io a forza di frequentarlo ho imparato a capire anche un po’ di pugliese.
Alla faccia del crucco!
Ci avviamo.
Il vicebrigadiere Lorusso mi guida con il passo sicuro e lo sguardo deciso, solo io però riesco a leggere fino in fondo quello che vi scorre dentro.
Solo io sono in grado di sentire la tempesta di emozioni che diffonde dal suo corpo.
Il vicebrigadiere Lorusso Pasquale, di anni ventotto, ha paura. Ha paura di morire senza rivedere gli occhi di Papangelo Maristella, ventisei anni, parrucchiera.
Gli occhi, sì, perché al di là delle cose che dice quando fa il gradasso con me, sono quelli che lo hanno fatto innamorare. Occhi grandi e luminosi, verde cupo, il colore di una foresta.
Foresta nella quale si era perduto e dalla quale non aveva più trovato la via del ritorno.
Per Natale le aveva comprato degli orecchini con delle pietre che ricordavano quel colore.
Non proprio smeraldi, col suo stipendio non se li sarebbe potuti nemmeno sognare, ma erano molto belli lo stesso. Non vedeva l’ora di farglieli indossare.
Se fosse sopravvissuto.
Se fosse sopravvissuto le avrebbe finalmente detto che desiderava avere dei bambini con i suoi stessi occhi. Glielo avrebbe detto al suo ritorno a casa.
Se il Buon Dio gli avesse concesso di ritornarvi.
Avevamo individuato quello che ora veniva definito come sospetto terrorista all’altezza della quinta carrozza, questo poteva voler dire che era sceso dal treno da quella o da quelle successive.
Noi, per prudenza, cominciamo a cercare dalla terza.
Non è un lavoro facile, i corridoi sono ingombri di bagagli, altrettanti traboccano dalle rastrelliere in alto sopra i sedili. Ce ne sono anche tra i sedili e qualcuno è infilato sotto di essi.
Il treno era zeppo di passeggeri che tornavano a riabbracciare i loro cari lontani per le feste.
Procediamo con metodo, senza tralasciare nulla e senza toccare nulla.
Pasquale m’incoraggia con i gesti e con la voce.
«Forza Full!… Cerca Full!… Bravo Full, bravo cane!…cerca!…cerca!…cerca!».
Ed io cerco.
Il mio naso e il mio cervello scandagliano senza sosta tra l’infinità di odori che ricevono dall’ambiente circostante.
Mi sollevo sulle zampe posteriori per annusare i bagagli che si trovano più in alto.
Solo quando sono sicuro che non ci sia nulla di significativo faccio forza sul guinzaglio per comunicare a Pasquale che possiamo andare avanti.
All’imbocco della carrozza numero sette, all’incirca la metà del treno, lo sento.
Man mano che avanzo lungo il corridoio si fa più forte, molto più forte.
Comincio a strattonare e ad abbaiare.
Pasquale punta i piedi e mi trattiene a stento.
Sono sovreccitato, mai sentito un odore di esplosivo così forte in vita mia.
Viene da sotto un sedile della fila sinistra.
C’è un grosso borsone sportivo di tela scura infilato lì sotto. È da lì che viene l’odore intenso, immenso.
Cerco di arrivarci con le zampe, con i denti, raspo il pavimento con le unghie, abbaio furiosamente.
Pasquale mi tira via strattonando il guinzaglio con tutte le sue forze.
Intanto grida nella trasmittente che ha sfilato dal cinturone.
«L’abbiamo trovata! Carrozza sette, sotto il sedile numero quindici! Mandate gli artificieri!».
Poi si rivolge a me massaggiandomi vigorosamente il collo e le spalle per tranquillizzarmi.
«Andiamo, Full. Il nostro lavoro è finito. Sei stato fantastico!».
Scendiamo dal treno per far posto alla squadra del Gruppo Carabinieri artificieri-antisabotaggio di Roma. Procedono goffi nelle loro imbottiture protettive, più o meno come il robot telecomandato munito di telecamera con il quale lavorano a distanza dall’obiettivo.
Precauzioni inutili.
C’è tanto di quel Semtex, in quel borsone, da sventrare mezza stazione.
In caso di esplosione saremmo tutti spazzati via come pagliuzze al vento.
Anche gli artificieri hanno paura, anche loro hanno qualcuno che li aspetta a casa per Natale, anche loro vanno a portare a termine il proprio lavoro.
La bomba, di terrificante potenza, sarebbe esplosa alle 10 e 36, un minuto dopo l’orario previsto per la partenza del treno, quando sarebbe stato stracolmo di gente, ma ancora in stazione.
Avrebbe fatto strage dei passeggeri a bordo, di quelli presenti sulle banchine e sui treni vicini.
Qualche giornalista, citando le stime di non meglio identificati esperti, aveva parlato di almeno un migliaio di vittime e di un numero incalcolabile di feriti.
La notizia aveva fatto il giro del mondo in poche ore, e puntuali erano arrivate le rivendicazioni dei soliti noti.
Io e Pasquale abbiamo avuto un periodo di straordinaria e non richiesta popolarità. Il ruolo che abbiamo avuto nella vicenda è stato spettacolarizzato dai media, che lo hanno caricato di toni romanzeschi da epopea di Zanna Bianca.
Non ne siamo stati particolarmente contenti, ma ci siamo dovuti sottoporre comunque a foto ed articoli sui giornali, per non parlare delle trasmissioni televisive che ci hanno visto fin troppo spesso come ospiti d’onore.
Per fortuna, col passare delle settimane l’attenzione su di noi si è attenuata e così abbiamo ripreso a poco a poco la nostra vita di sempre.
Oggi però è un giorno speciale.
Brilla uno splendido sole primaverile al Centro Carabinieri Cinofili di Firenze, la grande scuola dove tutti noi, uomini e cani, abbiamo imparato a svolgere il nostro lavoro.
C’è l’atmosfera delle grandi occasioni.
È stato allestito un palco dove, tra il pubblico, ci sono alcune grandi personalità dello Stato ed i massimi vertici dell’Arma. Davanti al palco è schierata un’ampia rappresentanza delle unità cinofile provenienti da tutti e ventitre i distaccamenti sparsi per il territorio nazionale.
In prima fila, al centro dello schieramento, il sottoscritto ed il brigadiere, ex vice, Lorusso Pasquale.
Sono tutti molto agitati, pare che debbano conferirci una medaglia al valore. Non sono molto addentro alla materia, ma sembra che sia il più alto riconoscimento che lo Stato conferisca ai cittadini in uniforme più meritevoli.
Ringrazio di cuore e ne sono onorato, anche se personalmente, come segno di gratitudine, avrei preferito una pizza.
Ebbene, poco prima della cerimonia, ho avuto l’onore di conoscere nientemeno che la signorina Papangelo Maristella, splendida con tutti i suoi annessi e connessi. Veramente notevoli, in verità!
Si è avvicinata a noi e Pasquale mi ha indicato, ma senza guardarmi negli occhi. Lo sa bene che gli leggo nei pensieri, ed il sentimentalismo non fa parte delle nostre consuetudini.
Tuttavia non è riuscito a nascondere un leggero tremito della voce quando le ha detto: «Maristè… lui è il mio Full».
Lei mi ha sorriso e si è chinata verso di me accarezzandomi la testa dolcemente.
«Grazie per avermelo rimandato a casa sano e salvo!».
Mentre lo diceva, il suo alito profumava di buono, ed i suoi meravigliosi occhi verdi luccicavano alla luce di aprile molto più del suo nuovo paio di orecchini.
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