La vendetta del gufo nero
Tutto era avvenuto così alla buona, come tutte le cose di paese. Un alterco a prima mattina, diciamo alle sei, sei e un quarto. Totonno, l’infermiere figlio dei furnari, è a casa dell’ingegnere, che da anni sta male. Si sentono grida, scalpiccii, trambusto. Poi nulla più. Alle sette, più o meno, Carmela va a dare la colazione all’ingegnere, che è allettato. Sapete, è malato assai. Ma tutto è in disordine nella stanza, il letto è scomposto, il povero ingegnere è al suolo, gelido come il pavimento di marmo bianco; sul bavero del pigiama uno schizzo di sangue rappreso. È già morto. Carmela grida, chiede aiuto, è tutto inutile.
A sera arrestiamo Totonno: è lui che l’ha ucciso nel sonno, all’alba. Un’iniezione letale non deve lasciare traccia; Totonno ha un debito di denaro con l’ingegnere: sono tanti soldi per sposare la figlia Adelina; il corredo, il viaggio, l’appartamento, la mobilia, eccetera. L’ingegnere è, sì, malato ma è attento custode dei propri averi, reclama rate non pagate, pretende interessi, qualcuno dice di peggio, insomma è mezzo morto ma non muore mai.
Totonno è di mestiere, sa come si fa. Un’iniezioncina e ciao; chiusa la partita, debiti addio e arrivederci all’ingegnere troppo zelante, troppo, troppo attaccato ai soldi.
E poi è malato, lo sanno tutti, può morire un giorno o l’altro. E non ha nessuno che possa reclamare il debito al suo posto; l’ingegnere vive solo, non ha nessuno.
Totonno a sera è qui in caserma. Lo vedo, il volto chiuso nel mutismo. Vuole un avvocato, vuole mangiare e bere e vuole anche fumare. Totonno e io abbiamo giocato a pallone insieme, ieri sera, al campo sotto il cimitero, due tiri senza pretese, tanto per fare. Ora però è difficile la recita in scena, gli attori sono gli stessi ma i personaggi sono cambiati. Totonno si mette seduto sullo sgabello di ferro della caserma e piange, piange, piange. La figlia non sposerà nessuno, dice, la vergogna, il suo arresto, la tragedia, l’ingegnere morto con i suoi segreti. «Povera figlia mia, innocente vittima del destino cinico e baro: lui è di città, non può capire e l’allontanerà per sempre».
Ma lei è incinta, ho detto incinta, avete capito bene. È la tragedia, è il lutto senza morto, anzi è il lutto con il nuovo nato, insomma è come una morte civile che inizia con la nascita di un innocente.
Guardate che stiamo al sud, in provincia di Raccioppo; il paese, San Zupone, conta solo 1.589 abitanti, il mare è a 70 km, la città è lontana. I migliori, i più fortunati, sono a Torino, Firenze, Roma, Milano; gli altri, i peggiori o i più sfortunati, sono al paese. Intendiamoci: io non c’entro, mi ci ha mandato l’Arma qui; sono un brigadiere dei Carabinieri e chissà dove mi manderanno l’anno venturo. Ma Clementina farà le medie e Gino la prima elementare. Marietta, mia moglie, dice che va bene ovunque ci sia un tetto e la salute. Ci basta poco per stare bene insieme, tutti e quattro, cinque con l’Arma.
Abbiamo già sentito i testimoni, quelli del palazzo, i cugini, quelli di fronte; pure la zia in carrozzella ha voluto dire la sua.
Totonno ha infilato l’ago in vena e cosa ha spinto nello stantuffo? Un soffio, un farmaco letale, la sua paura di poveraccio o l’odio per chi possiede troppo senza troppo merito?
Totonno piange. Piange a dirotto e non si riesce neanche a capire cosa dica. Francesco, il mio appuntato, è a San Zupone da due settimane. Vorrebbe verbalizzare, ma poi mi guarda come per dire: «E adesso che ha detto?». Ha pure ragione; lui è di Frollino Terme, nel cuore delle Marche. Per capire le lacrime di Totonno ci vorrà un po’ di tempo. Ma i Carabinieri sono tutti poliglotti per intima vocazione, dovunque vadano imparano subito gli idiomi locali: è proprio vero che oggi bisogna sapere le lingue, specialmente quando sono lunghe come quelle dei paesani. Appuntato Francesco, non ti preoccupare: ci sono qua io, posso farti qualche lezione privata, una full-immersion di Sanzuponese.
Si inciampa nella boscaglia del monologo disperato del nonno del nascituro: dice che la figlia è come una santa; il paese è infame, i paesani i carnefici. Ma lui, l’ingegnere, neanche lo ha toccato. La solita iniezione per l’asma, un broncodilatatore. Poi lui va via e lo lascia appisolato alle sei, sei e un quarto al massimo. Fuori è ancora notte; il fiume scorre piano tra le pietre delle lavandaie; il castello è circondato dalle impalcature dell’ultimo restauro mai finito, nel campetto di pallone il vento notturno spinge un cartone vuoto che rotola nel polverone. Poi sale il giorno, poi la gazzella con me e Francesco, poi la Caserma e le domande; poi la Caserma e le risposte: tutto a verbale, a domanda risponde. La moglie di Totonno viene anche lei in caserma, appena sa. Tutto il paese parla, tutti sanno: nomi, cognomi, fatti, fattacci, vedove, spose, corna, lutti, tormenti, tradimenti, soldi, troppi soldi.
È sera tardi quando il maresciallo se ne va. Io resto qui, ancora con Totonno. Due fagioli con la cipolla fresca, un pezzo di pane, un quarto di vino nero. Domani si va a Raccioppo per la consegna dell’omicida al carcere, a disposizione del magistrato.
Totonno sa, ha capito tutto e piange, piange, piange. Non è stato lui, dice, l’ingegnere era malato, tutti i giorni erano buoni per morire.
«Perché proprio io? Perché dicono di urla e di trambusto? Io non ho fatto altro che la solita puntura come tutti i giorni; perché adesso il paese grida all’assassino?».
I colleghi venuti dalla città hanno fatto i rilievi, hanno preso impronte, sono venuti zitti zitti e zitti zitti se ne sono andati. Riferiranno al magistrato. Totò, per te ora c’è solo la matricola del carcere di Raccioppo domattina, poi si vedrà. Ma io voglio capire meglio, voglio vederci chiaro: in questa mattinata buia d’inverno c’è un po’ poca luce, troppe ombre. Sì, sì, forse c’è troppo buio.
Chiudo Totonno in camera di sicurezza, lascio al piantone le consegne, esco dalla Caserma. In macchina vado verso casa. Vado piano. È buio, c’è nebbia, il fiume esala vapori, la montagna è nera come la pece, il cielo è viola, la bruma assale di angoscia le fioche luci dei lampioni. S’appanna al fumo della sigaretta il parabrezza della macchina gelata. Mi fermo in piazza; torno indietro. Vado verso la casa dell’ingegnere.
Stamattina in questo cortile non c’era alcun segno premonitore dell’accaduto; tutto era insonnolito; Rosina al primo piano si sarebbe alzata alle sette, Carmela avrebbe rifatto i letti, la colazione dell’ingegnere, la spesa, il pranzo a mezzogiorno, il caffè e così di nuovo fino a sera e poi domani e dopodomani. All’ingegnere si sarebbero presentati nel pomeriggio, accanto al fuoco, i paesani bisognosi di consigli, quelli che volevano sapè, quelli che volevano capì.
Certo che c’era da sapere e da capire e l’ingegnere, sicuro, qualche cosa di certo adda sapè.
Sul monte, dopo la rocca, si diceva ormai da un mese che gente venuta da Milano avesse fatto dei sondaggi, delle ricerche. Nel bosco addirittura petrolio e gas metano da scaldare l’Italia intera per cent’anni.
Ma si sa, di queste favole al bar in piazza se ne dice e se ne scuce. A noi in Caserma tutto arriva perché noi siamo, nel paese, il paese intero. Chi siamo noi? Voi, voi siamo: l’Anima mundi. Ma che c’entra l’ingegnere, che ne può sapere un ottantenne che a malapena sbarca la giornata tra la piazza e il caffè, il camino di casa e quel misero lettino nella stanzetta in fondo al corridoio? Ne sa, ne sa eccome, dice il paese. Il paese, il paese; ma chi?, ma di che cosa? Tutto si sa; tutto è noto a tutti; è inutile fingere di non sapere. Cosa? Che l’ingegnere ha un bosco, ’o vuosc, ’ngoppa alla muntagna. E allora? Il bosco sono sei ettari, sapete, sei ettari di piante fitte fitte ma scoscese sulla costa della collina. Appena appena si scalda, l’ingegnere, con la legna di quei castagni. Sì, ma poi? Poi niente, dice il paese. Niente che possa convincerlo a disfarsene di quel castagneto che non produce niente, neanche un frutto acerbo. Cadono i ricci al suolo alle prime piogge di novembre e poi i vermi ci fanno il loro comodo nella foschia appiccicosa del bosco.
E perché dovrebbe cederlo ad altri? E a chi? Ma come, lo sanno tutti che i cugini della valle vorrebbero unire le terre di ponente con quelle di levante. Ma in mezzo c’è il bosco dell’ingegnere e per poter andare da una parte all’altra bisogna fare il giro e passare sul ponte sopra il fiume. Se invece il bosco fosse un tutt’uno con le terre sarebbe un passo ed ecco fatto.
Ma l’ingegnere ha detto: «Non venderò mai! La terra non si vende, si compra». Figuriamoci un bosco.
E allora? Allora c’è Totonno; l’ingegnere è malato, se muore senza testamento (non ne ha fatto alcuno, il notaio ha fatto intendere che lui non ne sa niente – se pure ne uscisse fuori uno, che ci vorrebbe a farlo sparire?) i cugini erediterebbero proprio il bosco, ma subito-subito, adesso, che non ci sono ancora i pozzi che succhiano dall’altopiano gas, greggio e altre iradiddio. Perché, un domani, l’ingegnere si vende la concessione chissà a chi, chissà a che cifra, non certo un castagneto qualunque che vale un pugno di monete e quattro foglie secche. Ecco perché Totonno è l’uomo nostro, anche lui «ci ha interesse» (il debito, vi ricordate?). Se, appunto, l’ingegnere muore, nessuno può pretendere nulla e in più c’è una bella camera da letto nuova di zecca, regalo dei cugini dell’ingegnere alla sposa, diciamo «per lo scomodo».
E poi, sapete, una sera da Giggino il calzolaio, l’ingegnere venne a riprendersi certi stivali da risuolare.
Beh, Giggino disse ridendo: «Ingegne’, ma dove siete andato, al mare con questi stivali?». Io non capivo la domanda; chi andava al mare con gli stivali? E poi l’ingegnere non era tipo da gite al mare. «Ingegne’, tutto ’sto catrame, una sera intera ci ho messo per pulirlo dalle suole. Si vede che a Marezzara ha naufragato averamende una petroliera, lo sapete, no? Sulla spiaggia, dicono, è tutto nero di bitume. Ingegnere, ma almeno valeva la pena, con quel freddo?». Si capisce, l’ingegnere è vecchierello e claudicante ma le donne gli sono sempre piaciute e perciò Giggino pensa che abbia fatto una chissà quale passeggiata al mare di Marezzara con qualche ragazza dell’Est, qualche “figlioccia” dell’ingegnere, e che lì si sia sporcato gli stivali di catrame. Ma l’ingegnere è furbo più di una volpe: «Eccome!», risponde ridendo e ammiccante; paga e se ne va zoppicando con gli stivali sotto il braccio. Io mi riprendo le scarpette di Ginetto mio da risuolare e me ne vado a casa.
Ma Totonno nega, nega. L’avvocato non ce l’ha, costerebbe assai, dovrebbe trovarsene uno a Raccioppo, uno da tremila euro a botta appena vi sedete di fronte a lui, giusto un acconto. Non se ne parla proprio: la figlia è incinta e il paese parla, e lui è un infermiere assassino e senza scrupoli. Pensate, per quattro soldi ha mandato al creatore un povero ingegnere malato, molto malato ma poco povero.
Giro il volante, entro nel cortiletto del palazzotto. Da un lato, la Madonnina con la fontanella, dall’altro il cancellone aperto; per terra la ghiaia bianca. Mi fermo. Al primo piano la luce accesa di donna Assunta; l’ingegnere l’avranno messo in salotto, si sentono le suore dire il rosario nella camera ardente. Da Napoli sono venuti certi parenti assai lontani «che non erediteranno niente», dice il paese che sa tutto, proprio tutto.
Scendo dall’auto. Un grosso gatto, no, più grosso; ma quale gatto: è un ragazzo che scappa, scappa via nel cortile buio appena mi vede.
Ma lui vede me, io non vedo lui. Faccio il giro. Di qua deve uscire, se vuole tornare a casa. Sto dietro l’angolo del cancello. Ecco i suoi passi sulla ghiaia. La luce al primo piano si spegne. Sento voci all’interno. Agli altri piani i televisori mandano lampi colorati di pubblicità e gli echi di una partita di calcio. Allungo un braccio e tiro via. È un ragazzotto paffutello, avrà undici-dodici anni: «Guaglio’!». Trema di paura, io ho una torcia accesa, e, a quest’ora ed in divisa, forse gli faccio un po’ paura, la paura di chi ha qualcosa da nascondere. «Che fai qui?». «Niente». «Niente? Niente come? Non me la conti giusta. A casa ci vuoi andare da solo o con quella?». Dietro il cancello c’è la gazzella con il faro blu spento. Ma posso accenderlo, se voglio. La sirena no, è un quarto a mezzanotte e il ragazzo ha già tanta paura. Non serve fargliene venire ancora.
Trema come una foglia. «Non aggio fatto niente, niente. Lassàteme». «E proprio per questo hai fatto qualche cosa. Perché sei qui a quest’ora e dov’è che scappi di corsa?».
Al primo piano c’è sempre buio, qualcuno scende le scale e impreca. Non si capisce bene contro chi.
«Allora? Che fai qui a mezzanotte?». «È la vendetta del gufo nero», dice in fretta il ragazzo. «Come, come?». «Sì, sì, la vendetta del gufo nero, accussì impara». «Chi?». «Lo zoppo col bastone, quello che ci ha levato il campetto». «Ma chi, l’ingegnere del primo piano?». «Sì, ci ha tolto il campetto dove giocavamo, dietro la canonica. Ha messo il filo spinato e noi non ci possiamo più giocare». «E tu che c’entri?». «Io sono il gufo nero. Mi vendico». «E cioè?». «Gli stacco la luce la sera, cosi non può vedere la televisione». E dalla tasca esce la chiave di un contatore.
Si apre il portoncino al piano terra; due donne cercano di farsi luce con una candela; aprono un sportello di un contatore, la luce torna in casa; dal balcone un uomo dice: «È tornata, è tornata». «E adesso?». «E mo’ niente, la vendetta del gufo è finita. Ne troviamo un’altra domani». «Vattinne, va’», lo lascio andare. Appena lascio il braccio del ragazzo lui scappa via, butta in terra la chiave dei contatori; la raccolgo anche se non serve più; in casa ne hanno un’altra, forse hanno capito che c’è qualcuno che toglie la luce per dispetto, che stacca l’interruttore.
Ma quel qualcuno ha capito che il gioco è finito, ora tutti sanno, hanno scoperto. Non sa, il monello, che c’è scappato il morto, non sa di Totonno, non sa che nel cortile, se non avesse trovato me che non ho sonno, nessuno avrebbe saputo, nemmeno il paese che tutto dice di sapere o di aver capito.
Totonno va a fare la puntura la mattina all’ingegnere mezzo morto, anzi quasi morto. Sembra che dorma, come tutte le mattine. Ma quella mattina l’ingegnere è più morto che vivo perché la notte, senza luce, la macchina che gli dà ossigeno non ha ossigenato e nessuno, neanche il paese che tutto sa e vede, se n’è accorto. All’alba il suo sangue è nero, senza ossigeno, la puntura di Totonno non serve più a nessuno. Totonno esce, l’ingegnere muove gli ultimi spasmi contratti d’agonia, cadono a terra le coperte, cerca aiuto senza voce, getta via la lampada del comodino. Trambusto, urla, rantoli di morte. O’ dispietto do guaglione ha fatto terno secco, anzi è una tombola; Totonno è l’ultimo che ha visto vivo l’ingegnere; il condominio ha sentito rumori e grida; il bosco era il suo segreto, i cugini vogliono comprarlo; il petrolio è il tesoro sommerso che tutti immaginano e la figlia di Totonno è sempre più incinta.
Il debito è come una malattia incurabile, una peste bubbonica; il vecchio ingegnere è troppo ricco e i suoi stivali calpestano il bitume che affiora sotto il castagneto.
È tutto chiaro; due più due fa quattro: io l’avevo detto che c’era troppo buio in questa storia; che ci voleva un po’ di luce in più per capire. E infatti di luce si può anche morire, se ve la staccano di notte per farvi un dispetto. Ma Totonno piange, piange, piange e dice: «Non sono stato io» ed è ’o vero. E adesso viene il bello: il paese dorme il suo morto, ingloriosa vittima del segreto del bosco; l’omicida è al gabbio; domani si caveranno i pozzi e la benzina, il gas, il bitume… fiumi di ricchezza sconvolgeranno il borgo che già vuole dimenticare il delitto, seppellire il colpevole e la vittima sotto le lapidi ciclopiche dell’indifferenza.
Ma io sono qui. Ho la chiave del contatore dell’ingegnere in mano; so perché il dispetto notturno di un monello può provocare conseguenze inaspettate, m’accorgo che sarà difficile spiegare tutto domattina al magistrato; ancora di più restituire la vita e l’onore a Totonno ed ai suoi cari, figlia a parte, incinta più che mai ma ancora salva e pronta alle nozze.
Se il paese vuole, si capisce.
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