Oggi non c’è nessuno in questo cimitero di provincia. Fa freddo e nevica. Fuori le automobili passano veloci, sollevando spruzzi dalle pozzanghere, e poco più in là un negoziante sta togliendo gli addobbi natalizi dalle vetrine. Il chiosco del fiorista ha già le serrande mezze abbassate: fa buio presto e dopo le quattro, a far visita alle tombe, non ci viene più nessuno. Devo correre sull’asfalto ghiacciato per riuscire a comprare un vasetto di ciclamini prima che chiuda.

Mi avvio per il vialetto deserto e sotto le scarpe sento scricchiolare la neve frammista a ghiaia. Gli occhi fissi dei defunti mi osservano dalle fotografie marmorizzate appese alle lapidi, alcuni di loro mi sembra persino di conoscerli. O di averli conosciuti. Sono tanti anni che c’incontriamo qui: loro sempre uguali, io ogni volta più rugoso e ingrigito.

Svolto in un viottolo costeggiato da vecchi cipressi. Ce n’è un paio in meno, quest’anno. Forse s’erano ammalati e sono stati abbattuti. Ma le mani forti e sapienti del giardiniere hanno già provveduto a piantarne due nuovi, alti appena pochi centimetri, che spuntano testardamente dalla neve. Se passeranno l’inverno, in primavera germoglieranno e si avvieranno a diventare due alberelli di tutto rispetto, degni di sorvegliare la quiete del camposanto.

Senza neanche rendermene conto, sono già davanti alla tua tomba. Mentre pensavo ai cipressi le gambe mi ci hanno portato, come un vecchio cavallo che riconosce la strada per la sua scuderia. Anche quest’anno nessun fiore fresco. I tuoi vecchi non ci sono più e tua sorella si è trasferita all’estero. Viene una volta all’anno, quando può. Mi tolgo il berretto di lana, incurante dei fiocchi che si depositano sui capelli sempre più radi, sciogliendosi al contatto con la cute ancora calda. Quando sono uscito dalla mia casetta nevicava pure là, sui monti. E sul treno non sono riuscito a riscaldarmi, né sull’autobus mezzo vuoto che mi ha portato fino a qui. Con la mano avvolta nel guanto di pile cerco di scostare la neve dalla lapide. Mi appare quella data, che ci ha cambiato per sempre: 8 gennaio 1978.

*****

Il telefono squillò verso le sette e mezzo di sera, mentre Richie Cunningham cercava inutilmente di trovare il coraggio per baciare Laurie Beth. Orso scrollò le spalle, continuando a guardare il telefilm. “Non è certo per me”, pensò. Non lo chiamava mai nessuno, figuriamoci a quell’ora, quando la maggior parte delle famiglie sono pronte a sedersi a tavola. Scrollò le spalle. “Sarà Luisa, che vuole raccontare a Fede della sua ultima conquista”. Infatti la sorella schizzò giù dal divano e si precipitò verso l’apparecchio, appeso al muro dell’ingresso.

Sullo schermo Richie continuava a tergiversare, facendogli ritornare in mente quella tragica serata al mare, pochi mesi prima. Quando si era ritrovato sul molo con Giulia e la compagnia di amici se n’era andata a far casino più in là. E loro due rimasero soli. E lui non sapeva cosa fare. Lei lo guardava con la coda dell’occhio. Lui pure. Sforzandosi di pensare a una manovra più o meno razionale per riuscire a baciarla. Senza però correre il rischio di venir rifiutato. Non gli venne in mente nulla. E continuò a parlare di cazzate, tanto per prender tempo. Alla fine tornarono gli altri con il gelato e il momento magico svanì. E lui prese coscienza di essere un coglione. Come Richie.

Fede riapparve pochi secondi dopo. Strano, perché di solito al telefono con Luisa ci passava almeno mezz’ora, fino a quando mamma non iniziava a gridare.

“E’ per te. Un tuo amico…”.

“Per me? Non ti ha detto come si chiama?”.

“Mi sembra Luca, ma non ne sono sicura”.

Era Luca, un ragazzo di quinta ginnasio che Orso aveva conosciuto pochi mesi prima durante uno sciopero. Quel mattino lui, Beppe e Andrea avrebbero voluto andare al bar Impera a giocare a biliardo, come si faceva sempre quando i compagni organizzavano qualche manifestazione antifascista. Ma Luca e Bernardo, uno di prima liceo amico di Beppe, li convinsero ad accompagnarli alla sede dell’Msi.

“Ciao Luca, come va?”.

“Guarda il telegiornale. A Roma hanno ammazzato due camerati”.

“Cosa? Ma… chi è stato?”.

“E chi vuoi che sia stato? I comunisti. Li hanno aspettati fuori da una sezione del partito e gli hanno sparato con una mitraglietta, ‘sti figli di puttana”.

“Chi te l’ha detto?”.

“Mi ha chiamato Bernardo dieci minuti fa. L’ha saputo dal padre, che è amico di un pezzo grosso della federazione. Dobbiamo fare una catena telefonica, tu avverti Andrea e digli di farlo sapere anche agli altri. Giù a Roma sta succedendo un casino… Mi raccomando, domattina ci si trova al bar dell’angolo mezz’ora prima dell’entrata a scuola. Dobbiamo decidere il da farsi…”.

“Ma noi che possiamo fare, Luca…”.

“Come che possiamo fare? Cristo, Orso, quelli ci stanno massacrando! Sai quanti anni avevano quei due di Roma? Diciotto. Due più di me. E tre più di te. E’ ora di mandare un segnale forte a queste merde. E anche ai capoccia del partito, che sono soltanto capaci di mandarci allo sbaraglio. Però se hai paura stattene pure a casa, non abbiamo bisogno di cagasotto…”.

“Ma che dici? Certo che vengo… mi chiedevo solo che diavolo potremo fare, noi soliti quattro gatti”.

“Non ti preoccupare, domani forse viene anche gente da fuori. Adesso sbrigati a chiamare gli altri, fra poco c’è il tigì”.

Posò la cornetta con la mano tremante. Non sapeva se era più per la rabbia o per la paura, pensando all’indomani. Si precipitò al televisore e cambiò canale, incurante delle proteste di Federica che voleva vedere la fine di Happy Days. Il telegiornale non era ancora cominciato. Provò allora ad accendere la radiolina per cercare una stazione che trasmettesse notizie, ma riuscì solo a captare la voce di Umberto Tozzi che cantava Ti amo e le previsioni del tempo. Per l’8 gennaio 1978 al Nord erano previste temperature rigide e possibili precipitazioni, a carattere nevoso oltre gli 800 metri d’altezza.

Corse al telefono e chiamò Andrea. Parlando a bassa voce lo informò della sparatoria e dell’incontro al bar prima di entrare a scuola, poi si incollò alla tivù per vedere il telegiornale. Suo padre di solito guardava distratto i titoli principali, tanto per farsi un’idea, poi si spostava nel tinello per la cena, lasciando il televisore acceso.  “Caso mai dessero qualche notizia interessante”, diceva.  Quella sera di fianco a lui, sul divano, si sedette anche Orso. E rimase lì, con gli occhi incollati allo schermo. Anche quando il padre si alzò per andare a tavola. Mamma lo chiamò un paio di volte, la pasta era già nel piatto, ma lui non ci fece caso.

Il mezzobusto del Tg1 lesse la notizia dell’assalto alla sede missina di via Acca Larentia e parlò dei due ragazzi rimasti uccisi, ma la cosa non finì lì. Un altro giovane “estremista di destra” era stato ucciso durante gli scontri, scoppiati dopo la strage fra militanti dell’Msi e le forze dell’ordine. Aveva diciannove anni.

“Da una prima ricostruzione”, recitava il mezzo busto, “sembra che il giovane impugnasse una pistola e abbia aperto il fuoco contro un drappello di carabinieri. L’arma non è ancora stata trovata, forse è stata trafugata dagli amici della vittima”.

Una perfetta cronaca da giornalista di regime. Democristiano, naturalmente. Oddio, non che nelle sezioni missine non circolasse gente armata e anche fuori di testa, ma quella descrizione puzzava un po’ troppo di velina della questura. Sua mamma si riaffacciò alla porta.

“Allora, vieni o no? Guarda che la pasta è ormai fredda…”.

“Un attimo, mamma. Sto guardando il tigì”.

“Com’è che oggi ti interessano tanto le notizie del telegiornale?”.

“Giù a Roma hanno ammazzato tre ragazzi, stavo guardando…”.

Sentì la voce del padre, dal tinello.

“Finché si uccidono fra loro, va sempre bene. Brigate rosse, autonomi, fascisti… Io li lascerei fare, che si sparino liberamente e lascino in pace la gente perbene…”.

Si sentì avvampare. Lo stomaco si contrasse, come se avesse preso un pugno. Si avvicinò alla tavola, pallido.

“Guarda che oggi hanno fatto fuori tre ragazzi disarmati, che non avevano fatto niente di male. E l’ultimo l’hanno ammazzato i carabinieri, proprio come quella militante radicale l’anno scorso. Se non l’hai capito, qui ormai c’è un clima da guerra civile, può succedere di tutto. E può andarci di mezzo anche la tua gente perbene”.

L’uomo lo guardò come se avesse visto un alieno di Spazio 1999. E non fiatò, neppure quando Orso girò i tacchi e se ne andò in camera. Sbattendo la porta e senza neppure aver assaggiato gli spaghetti, ormai scotti. Cercò una cassetta di Lucio Battisti e la mise nel registratore, facendo attenzione a tenere il volume basso. Risuonarono le prime note di Amarsi un po’. Trafficò fra gli scaffali della libreria, spostando i volumi dell’enciclopedia De Agostini e i romanzi di Salgari. Lì dietro, oltre a una piccola raccolta di Playmen e Caballero, teneva nascoste alcune copie di La voce della fogna, una rivista giovanile che aveva scoperto pochi mesi prima grazie a Bernardo.

A scuola circolava di straforo, proprio come le pubblicazioni pornografiche. In un liceo rosso come il suo, dovevi guardarti le spalle non solo dai compagni, ma pure dai professori. Non avrebbero gradito, quei tromboni,  la diffusione di giornali di quel genere  nel tempio dell’antifascismo torinese, dove insegnarono Augusto Monti, Cesare Pavese e altri brontosauri democratici. Bla bla bla…

Perciò Bernardo lo vendeva di nascosto, nei cessi e negli angoli dei corridoi, proprio come i fighetti della collina spacciavano i tocchetti di fumo. Tutti sapevano che era un nero, ma giravano al largo. Soprattutto da quella volta in cui un manipolo di compagni aveva fatto irruzione nella sua classe, durante l’intervallo, e pretendevano di perquisirlo per trovargli addosso adesivi della Fiamma e altri simboli neri.

Da un paio di settimane emblemi dell’Msi e croci celtiche erano comparse un po’ dovunque, a scuola, e i rossi diventavano matti. Sospettavano che Bernardo c’entrasse  qualcosa. Sospetti fondati, in effetti: al mattino al bar distribuiva mazzette di adesivi e poi i ragazzi facevano il giro dei cessi e dei corridoi per appiccicarli dovunque. Quel giorno, all’intervallo, Bernie era pulito. Li aveva già fatti fuori tutti. Ma non gli sembrava un motivo sufficiente per farsi mettere le mani addosso da quei pulciosi. Quando il soviet fece irruzione, in classe c’era pure il professor Tarchetti, un tremebondo trentenne di area Pci che trovava molto democratico farsi dare del tu dagli studenti. A quanto pare trovava democratica anche la perquisizione forzosa del fascista, perché se ne rimase in silenzio alla cattedra, fingendo di leggere il registro.

I capelloni si fecero avanti con aria minacciosa, chiedendo a Bernardo di svuotare le tasche e lo zainetto. Ai ragazzi la scena l’aveva raccontata Luca, che era andato a cercare l’amico per farsi dare l’ultimo numero della Voce della fogna. Nessuno sapeva se veramente Bernardo fosse coraggioso oppure bluffasse come un giocatore di poker; fatto sta che allontanò la compagna di classe che parlava con lui, afferrò una bottiglietta di coca-cola e la spezzò sul banco.

“Venite di persona a vedere quel che ho in tasca”, li sfidò brandendo la bottiglia come una spada.

A quel punto il prof democratico riemerse dal registro, invitò tutti a darsi una calmata e chiese a Bernardo di buttare i cocci di vetro nel cestino.

“Sono certo che questi ragazzi volevano solo parlare”, li giustificò, mentre quelli masticavano amaro e Bernie continuava imperterrito ad agitare la bottiglietta spezzata. Alla fine suonò la campanella e i giustizieri del popolo dovettero battere in ritirata, promettendo vendetta. Naturalmente Tarchetti colse l’occasione per interrogare Bernardo, a tradimento, sul sesto canto dell’Inferno.

Orso preparò con cura l’abbigliamento per il giorno dopo. Maglione dolcevita nero, jeans a sigaretta sdruciti, fazzolettone per tamponare eventuali emorragie al naso o alle labbra, sciarpa del Toro… caso mai avesse dovuto coprirsi il volto durante i casini. No, pensò: forse sarebbe stata meglio una normale sciarpetta di lana scozzese, per non dare troppo nell’occhio. Agli scarponi neri, tipo anfibi, preferì un paio di scarpe da ginnastica blu scuro: andavano meglio, se ci fosse stato da correre. Anche se avrebbe avuto freddo ai piedi. Tirò fuori dal cassetto pure un paio di guanti di pelle. Avrebbe sempre desiderato avere quelli da motociclista, ma costavano troppo. Così aveva ripiegato su un paio di guantoni marron da giardinaggio, comprati in ferramenta. E poi il berrettino di lana nero che usava Jack Nicholson nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo. Gli sembrava molto barricadero. Sul giaccone color verde militare si era cucito da solo un teschio, comprato in curva allo stadio, al quale aveva tagliato via la scritta ultras.

Dopo l’episodio di Bernardo e della bottiglia spezzata, lui e Andrea s’erano comprati un coltello serramanico in un’armeria vicino alla stazione. Lo portavano in tasca di fianco al portafogli, aspettandosi da un momento all’altro una spedizione punitiva dei compagni. In cuor loro speravano di non doverlo mai usare, anche perché non avevano la minima idea di come maneggiarlo. Ma gli dava coraggio. “Se ci vengono addosso in dieci”, commentavano spavaldi, “se non altro ne mandiamo un paio all’ospedale. O al cimitero”. Bernie non era d’accordo. “E’ troppo rischioso”, sosteneva. “Se vi ferma uno sbirro andate dritti in galera”.

Quella sera si rigirò il coltello fra le mani, facendo scattare più volte la lama lucente. Per l’indomani tirava brutta aria. E con tutta probabilità ci sarebbero stati dei ficcanaso della questura a dare un’occhiata davanti alle scuole. Forse era meglio lasciarlo a casa. Mollò nel cassetto anche i ray-ban a goccia che si ero comprato mesi prima, dando fondo ai risparmi. Ci mancava solo che un rosso glieli rompesse con un pugno sul naso…

Si coricò sul letto, sfogliando La voce della fogna. Ne capiva poco di politica, ma quella roba era davvero forte. A partire dal titolo, che ironizzava su come i rossi chiamavano i giovani di destra. Fino all’anno prima, quando andava alle Medie, Tommaso Orsiera, detto Orso, pensava più che altro alle partite di pallone con gli amici, alle ragazzine che uscivano con i compagni più grandi e al metodo per sfuggire alle prepotenze dei truzzetti, che affollavano la scuola del suo paesone di provincia. Ma da quando era al ginnasio, in città, all’improvviso i suoi orizzonti si erano aperti. Non tanto per il programma scolastico: studiare a memoria le declinazioni latine era una gran palla e di greco non ci capiva quasi nulla. Però se non altro aveva scoperto un altro mondo. Si sentivo libero, nella metropoli. Nessuno lo conosceva e intorno vedeva solo facce e posti nuovi.

Se ne andava in giro da solo per strade sconosciute, osservando gente vestita in modo strano e strane scritte sui muri. Anche al paese ce n’erano, ma di meno. Lì camminava e s’imbatteva in un tripudio di stelle rosse, falci e martelli, sagome di rivoltelle, chiavi inglesi, caschi da motociclista. E poi slogan minacciosi: “Fascisti carogne tornate nelle fogne”, “Morte al fascio”, “Bastardo fascista sei il primo della lista”, “Occupare e creare contropotere”, “Msi fuorilegge”, “Agnelli ladro”, “Brigate rosse”, “Autonomia operaia”, “Potere operaio”, “Il potere a chi lavora”, “Fascisti occhio”, “Almirante boia”, “La Cina è vicina”. Ogni tanto, timidamente, ne compariva una di segno opposto: “Europa nazione”, “Dux nobis”, “Rossi al muro”, “Socializzazione”. Il rapporto, anche qui, era di uno a dieci. E di solito il giorno dopo la scritta non c’era più, coperta da slogan truculenti di vernice rossa.

Alla sede del partito non c’era mai molto da fare, tranne al sabato pomeriggio, quando era pieno di gente e ci si poteva imbattere nei reduci della Rsi, che raccontavano dei tempi eroici della guerra civile. Altrimenti se ci andavi in settimana, magari tagliando la scuola, non c’era nessuno. Solo un panzone che rispondeva al telefono e un paio di impiegati che leggevano il giornale. Il Secolo d’Italia, naturalmente. All’inizio Orso non capiva il perché, ma La voce della fogna e altri fogli giovanili non erano molto ben visti, lì dentro. Non circolavano e tanto meno li esponevano in bacheca al piano terreno, come invece facevano con l’organo ufficiale. Che però era piuttosto noioso, pieno di articoli sui verbosi interventi in Parlamento degli eletti e di appuntamenti nelle sezioni con l’onorevole Pinco e il senatore Pallino.

Gli piaceva solo quando c’era un editoriale di Almirante, che scriveva benissimo; anche se in tivù, alle tribune politiche, era ancor più bravo. Ogni tanto capitava che lo guardasse con suo padre, perché sull’altro canale non c’era nulla di interessante. E pure il vecchio, che odiava la politica, doveva riconoscere che il segretario se la cavava bene. “Però, a l’è propi brau”, si lasciava sfuggire di tanto in tanto, attirandosi le occhiatacce di mia madre. A Orso faceva impazzire quando Almirante ascoltava impassibile le domande più carogne, fatte dal giornalista democratico di turno, poi lo guardava con quegli occhi chiari, freddi, e gli diceva: “La ringrazio molto per la sua domanda, perché mi dà l’occasione di chiarire la nostra posizione…” e via con delle rasoiate della madonna,  che al malcapitato gli facevano pelo e contropelo. Evvai! Si sentiva orgoglioso di essere di destra, anche se in modo marginale, visto che non aveva ancora preso la tessera del partito. E non vedeva l’ora di compiere diciott’anni per poter andare a votare.

Leggere La voce della fogna, però, era un’altra cosa. Lì ci trovavi un sacco di roba interessante. Fumetti, caricature, recensioni musicali, cinema, libri alternativi. E articoli scritti con un linguaggio giovanile, anche se parlavano di personaggi che non aveva mai sentito nominare: Pound, Céline, Brasillach, Jünger, Drieu La Rochelle, Alain de Benoist. Ma erano i temi affrontati, che facevano sembrare quel giornaletto così lontano dagli uffici grigi e male illuminati della federazione.  Si parlava di ecologia e sociobiologia, di demografia e pubblicità, di Europa nazione e piccole patrie. Niente resoconti parlamentari e né colate di piombo redatte da  oscuri federali di provincia. E neppure slogan dal sapore elettorale.

Se notavi una frase ad effetto, puoi star sicuro che si trattava della presa per il culo di qualcuno. Il ministro democristiano, il finto oppositore del Pci e magari pure il vecchio trombone missino, che chiedeva la pena di morte e la polizia nelle scuole. Sfogliando quelle pagine in bianco e nero, a volte stampate con troppo inchiostro, avevi l’impressione che si cercasse con ostinazione di guardare avanti, non di girare il collo verso l’esperienza politica conclusa 35 anni prima. Era quello che gli piaceva. E che piaceva a tanti ragazzi che avevano smesso di leggere giornali come il Candido o il Borghese, ormai considerati un po’ troppo moderati.

Si addormentò sfogliando le ultime pagine di una storiella a fumetti realizzata da Jack Marchal, un francese tostissimo che disegnava vignette, incideva canzoni di musica alternativa e faceva il disc-jockey in una radio parigina. Era stato lui a inventare la saga dei topacci neri, di fogna appunto, che vanno in giro a combinar casini e a scandalizzare i benpensanti democratici. Nelle ultime strisce  i topi neri sono sempre più numerosi, sempre più incazzati. E alla fine, come toccati da una bacchetta magica, scoprono di non essere più dei ratti, ma ragazze bellissime e giovani aitanti.

Poi gli passò per la mente che anche quei tre camerati uccisi a Roma, forse, avevano letto la stessa storia. E magari ci avevano provato a lottare, a venir fuori dalle fogne in cui erano stati spinti. Ma non ce l’avevano fatta. E adesso era troppo tardi per riprovarci. Chiuse la rivista e spense la luce, tanto con gli occhi umidi non riusciva più a leggere.

* * *

Faceva un freddo cane, quella mattina dell’8 gennaio 1978. I piedi di Orso congelavano nelle scarpette di tela blu, mentre gli altri ragazzi, incuranti all’ipotesi di una “ritirata strategica”, indossavano scarponcini o stivali camperos. S’erano ritrovati alle 7,30 all’angolo della scuola, un po’ defilati ma ben visibili ai capoccia dei “rossi”, che li controllavano a distanza. Erano una dozzina non di più. Altri tiepidi simpatizzanti avevano promesso di partecipare, ma poi non s’erano fatti vedere. “I soliti borghesi cagasotto…”, aveva commentato Bernie, i capelli lunghi che sbucavano dal casco da motociclista fino a coprire il colletto del chiodo. Sul petto aveva appuntato un fregio da paracadutista e una spilletta con il teschio e la scritta “Me ne frego”.

Nel gruppetto abbondavano i giubbotti neri e i giacconi militari. Un “quartino” un po’ troppo esaltato s’era messo addosso una mimetica leopardata con tanto di basco nero d’ordinanza. Bernardo lo spedì subito a casa a cambiarsi: “ Ma sei scemo? Credi di andare a una sfilata di carnevale? Vai a metterti qualcosa di più decente e poi ci raggiungi in piazza”. Il programma era semplice: alle otto meno un quarto avrebbero bloccato il portone della scuola e appeso uno striscione di solidarietà per i morti di Roma. Luca aveva rubato un lenzuolo bianco a casa e Attilio, detto Attila, s’era dato da fare con la bomboletta spray che usava per imbrattare i muri del suo quartiere. Uno slogan semplice ma efficace: “Giustizia per i camerati caduti in via Acca Larentia”.

Poi avrebbero distribuito i volantini ciclostilati, in cui si smentiva la verità di regime diffusa da giornali e televisione, e infine si sarebbero spostati fino alla piazza della stazione, dove sarebbero confluiti tutti i gruppetti delle altre scuole e i militanti della federazione per dar via a un corteo di protesta. Bernie stava dando le ultime disposizioni, quando i ragazzi udirono l’inconfondibile rombo della A112 del Santo. Arrivò sgommando, con i finestrini aperti malgrado il gelo di gennaio. Dall’autoradio a tutto volume sgorgarono le note della sua canzone preferita:

People try to put us d-down (Talkin' 'bout my generation)

Just because we get around (Talkin' 'bout my generation)

Things they do look awful c-c-cold (Talkin' 'bout my generation)

I hope I die before I get old (Talkin' 'bout my generation)

This is my generation

This is my generation, baby

 

Una volta Luca aveva provato a chiedergli che cazzo fosse quella vecchia canzone rocchettara e lui, Roberto Santoro detto “il Santo”, 22 anni per 80 chili di muscoli e karate, l’aveva guardato con aria schifata: “Uei bimbo, bada a come parli. Mai sentito nominare i mitici Who? Questa è My Generation, l’inno di una generazione. E se tu sapessi un po’ di inglese, forse capiresti che il testo può fare anche al caso nostro. Dice più o meno così: La gente cerca di metterci sotto (parlando della mia generazione); Solo perché noi gli stiamo intorno (parlando della mia generazione); Le cose che loro fanno sembrano terribilmente fredde (parlando della mia generazione); Spero di morire prima di diventare vecchio (parlando della mia generazione). Questa è la mia generazione,

questa è la mia generazione, baby…”.

Il Santo aveva portato i volantini. Non quelli ufficiali del Fronte della Gioventù: gli altri, ciclostilati in uno scantinato dal gruppetto di fuorusciti dal partito che si era avvicinato ai veneti e ai romani di Terza Posizione. Parole molto più dure, slogan ancor più taglienti. Nessuno ci fece caso. Anche i due o tre che avevano in tasca la tessera del Fronte li presero senza batter ciglio e cominciarono a distribuirli agli studenti infreddoliti, che si accalcavano all’ingresso del liceo. Indisturbati, Bernie e Marcheselli appesero il lenzuolo alle inferriate delle finestre del piano terreno. I compagni sembravano spariti. Con il suo mazzo di volantini in mano, Orso si voltò indietro e capì: il Santo e un paio dei suoi amici arrivati in moto controllavano la strada con le catene in mano. Bernie urlò un paio di frasi con il megafono, raccontando dei tre coetanei ammazzati a Roma il giorno prima, ma la maggioranza degli studenti entrava a scuola con gli occhi bassi, senza neppure guardarlo. Prendevano il volantino e camminavano come pecore verso il portone del liceo, in silenzio.

Alle 8 e un quarto non c’era più nessuno. I “rossi” non s’erano fatti vedere. Il Santo e i motociclisti sgommarono verso la piazza della stazione, mentre gli altri sciamarono via a piedi, carichi di adrenalina per l’insperato successo. E’ vero, nessuno si era unito al gruppo per andare al corteo; ma se non altro i bolscevichi se n’erano rimasti rintanati a guardare i fascisti che volantinavano e spicheravano davanti al liceo più rosso della città. Svoltato un angolo, notarono la 127 bianca che li seguiva a duecento metri di distanza. “Sbirri!” esclamò Luca, alzando le spalle.

La piazza era abbastanza piena. Almeno trecento persone, quasi tutti giovani e studenti. Non pochi, per un città governata da Pci e sindacati e stretta nella morsa del terrore delle Brigate Rosse. Orso era emozionato e felice, non sentiva neanche più freddo ai piedi. Si guardava attorno e vedeva sventolare tricolori e bandiere con la fiamma. Le braccia tese e gli slogan truculenti non lo spaventavano, anzi si sentiva parte di quello strano animale che è la folla, eccitata e partecipe, che si muoveva all’unisono.

La polizia osservava a distanza, in assetto anti-sommossa. Dei “rossi” neppure l’ombra. D’un tratto Luca gli diede di gomito, indicandogli un ragazzo che si era staccato dal corteo. Avrà avuto poco più di vent’anni, i capelli cortissimi e un giubbotto di pelle nera. Orso non l’aveva mai visto, Luca neppure. “E quello chi è?” gridò Bernie, cui non era sfuggita la strana manovra. All’improvviso il ragazzo estrasse una pistola e la puntò verso il più vicino drappello di carabinieri. Si sentirono delle grida, mentre i militari imbracciarono i moschetti e l’ufficiale che li comandava tese il braccio impugnando la rivoltella verso la folla.

Orso udì due spari, forse tre. Si ritrovò per terra, sull’asfalto gelido, in mezzo alla gente che scappava. Dal basso vide un’orda di scudi e di scarponi chiodati che lo travolgeva. Provò a rialzarsi, per fuggire. Ma le gambe erano di pietra. Notò un celerino che manganellava Luca, a pochi metri da lui; e altri due che avevano afferrato Bernie e gli sbattevano la testa sul selciato. Poi non vide più niente, ma sentì il freddo salirgli dai piedi fino al petto. “Non avrei dovuto mettermi quelle maledette scarpe da tennis”, pensò.

* * *

Tolgo il guanto e con la mano nuda sposto ancora un po’ di neve dalla lapide. Ecco il tuo nome: Tommaso Orsiera. Ed ecco le date che racchiudono la tua breve vita: 21 luglio 1963 – 8 gennaio 1978. Due date che da trent’anni segnano in modo indelebile anche la mia, di vita. Non ci siamo mai conosciuti, non abbiamo neppure mai incrociato lo sguardo. Quel maledetto 8 gennaio, quando uscii dal corteo con la pistola in mano, nella calca non ti avevo neppure notato.

     Quella del commissario lì per lì mi era sembrata una buona idea. “Mischiati in mezzo a loro”, mi aveva detto, “e poi tira fuori la pistola. Così ci dai il pretesto per caricare e per bloccare i più facinorosi, che sono sicuramente armati. In questo modo li impacchettiamo ed evitiamo che succedano casini più grandi”. Mi sembrava una buona idea, perché avevo visto cos’era successo il giorno prima a Roma e non volevo che si ripetesse. “Tu c’hai l’età e il physìque du role”, aveva aggiunto il commissario, “basta che ti metti un giubbotto nero e nessuno ci farà caso”.

     Infatti nessuno ci fece caso, quella mattina, quando mi infilai nella folla e gridando slogan contro gli sbirri e i comunisti raggiunsi la testa del corteo. Mi guardavo attorno con circospezione, cercando di intuire quali fossero i possibili soggetti armati. Ma non li distinguevo. Notavo solo dei ragazzi come me, alcuni pure più giovani, che gridavano la loro rabbia per tre coetanei ammazzati come cani. Non capivo, ma obbedivo. E quando il commissario, da dietro una colonna, mi fece l’occhiolino, capii che era il momento giusto.

     Non ho mai capito se fosse tutto pianificato. Oppure se la situazione sia sfuggita di mano al comandante di piazza, come spesso accade. Mi venne anche da pensare che forse i carabinieri non sapevano nulla, non erano stati avvertiti della presenza di un agente provocatore. O che magari qualcuno abbia agito d’istinto, innescando senza volere quel pandemonio. Non lo so, davvero. Ho sperato per anni che sia stato solo un incidente. Più ci penso e più mi vengono dubbi. Ancor oggi, a trent’anni di distanza, non ho trovato risposta.

Di certo non mi sono accontentato di quanto mi spiegò il commissario, poche ore dopo, in questura. Disse che era stata una fatalità, che un paio di fessi impauriti anziché sparare in aria avevano tirato ad altezza d’uomo. Ma il suo sguardo tradiva la menzogna. E mesi dopo, in convalescenza dagli zii in Puglia, mi era arrivata voce che ad ucciderti era stato un proiettile sparato dalla pistola in dotazione agli ufficiali dell’Arma. Naturalmente non ci fu nessuna inchiesta. Venne tutto insabbiato e, come per i tumulti successivi a via Acca Larentia, si parlò di legittima difesa da parte delle forze dell’ordine. Il misterioso estremista uscito dal corteo, che avrebbe aperto per primo il fuoco, non venne mai scoperto.

Non sai quante volte ho avuto la tentazione di andare dal magistrato a raccontare tutto. A dire: “Sono io l’uomo che cercate! E’ colpa mia se quel ragazzo è morto…”. Ma poi non ho avuto il coraggio. I colleghi mi hanno fatto capire che in fondo a tutti andava bene così. Alla polizia, è ovvio. Ma anche ai giudici, che non avevano nessuna voglia di delegittimare gli stessi agenti con i quali combattevano quotidianamente il terrorismo. E agli opinionisti e ai mezzi d’informazione, per i quali un fascista ammazzato in più non faceva nessuna differenza. Anzi, in qualche modo se l’era andata a cercare. Andava bene a tutti, perfino al segretario del tuo partito. Che poteva rinfocolare la sua crociata per chiedere di reintrodurre la pena di morte.

A me non andava bene, ma quando rientrai dopo una lunga licenza il commissario questa volta fu ben più esplicito: “Non farti venire strane idee, altrimenti ci va di mezzo tuo cugino, che sta facendo la scuola di sottufficiale dell’Arma. E tuo padre si gioca la pensione, proprio adesso che dopo anni di onorato servizio nella pubblica sicurezza sta per maturare i contributi per giubilarsi…”. Anche quella volta mi mancò il coraggio di andare fino in fondo. Ebbi solo la forza, sei mesi dopo, di congedarmi. E di rifugiarmi in quella casetta sui monti, lontano da un mondo che non mi apparteneva più. Due capre, le galline, un cane per avere compagnia nelle sere d’inverno. Il laboratorio per intagliare il legno e dare una forma ai miei incubi.

Gli anni sono passati lenti e la mia vita non è cambiata, anche se ora dicono che sono un artista. Guadagno quattro soldi in più, talvolta mi invitano ad esporre in altre città. Sono sereno e ti penso quasi ogni giorno. E vengo a trovarti tutti gli anni, l’otto di gennaio. Porto dei fiori freschi e pur non credendoci troppo ti recito un “Eterno riposo”, come sto facendo adesso. Stasera, davanti al camino, berrò un bicchierino di grappa alla tua memoria. E riascolterò una vecchia canzone che mi piaceva tanto… Com’è che faceva? Ah sì…

People try to put us d-down (Talkin' 'bout my generation)

Just because we get around (Talkin' 'bout my generation)

Things they do look awful c-c-cold (Talkin' 'bout my generation)

I hope I die before I get old (Talkin' 'bout my generation)

This is my generation

This is my generation, baby