L’uomo, seduto al tavolo, se ne stava in disparte con il giornale aperto sul tavolo.

Leggeva distrattamente i titoli e ogni tanto alzava lo sguardo dal suo caffè nero. Non badava alla fauna variopinta di adolescenti che quella mattina avevano marinato la scuola e, che non trovando di meglio da fare, si era rintanata nel vecchio bar del Budello per sfuggire ad occhi indiscreti.

Gli occhi dell’uomo guardavano però altrove, proiettati nel mare dei ricordi che quel luogo aveva la capacità di evocare.

Alassio era una piccola cittadina di mare, ancora più piccola nella stagione morta quando di turisti non c’è ne sono nemmeno a pagarne. Lui, o meglio il “foresto”, come lo avrebbero appellato i locali, dal suo angolo aveva una visione privilegiata su quella gioventù definita da alcuni di “bamboccioni”.

Giorgio però, non essendo certo un moralista, non se la sentì di tranciare giudizi. Il tempo della morale e delle paternali era passato da un pezzo e a lui, la parola morale, secondo il vocabolario piccolo-borghese, non era mai piaciuta. Anzi gli aveva sempre fatto schifo.

Era finito ad Alassio per chiudere un capitolo della sua vita, per firmare il rogito col quale aveva venduto l’appartamento di famiglia dove aveva trascorso molte estati. I suo figli, ormai accasati e padri di famiglia, della Liguria non avevano mai voluto sentire parlare. Aveva voluto dare un ultimo saluto a quella casa dopo l’appuntamento col notaio;  il nuovo proprietario non aveva avuto nulla in contrario.

Giorgio, dopo aver dato un’occhiata alla casa vuota da tempo, era sceso in cantina. Si era affidato alla memoria quando era sceso nei sotterranei polverosi, ma testimoni di anni lontani. Aveva varcato la porta della sua cantina e rivisto una montagna di oggetti dimenticati a lì messi marcire: un canotto, pinne da sub, un baule, pile di giornali e libri corrosi dall’umidità e dall’oblio. C’era una vecchia edizione di “Rivolta contro il mondo moderno” di Evola dalle pagine ammuffite. Aprì il baule e provò una certa emozione. L’incoscienza dei vent’anni aveva resistito a tutti quegli anni: la Luger P08 era ancora lì con una manciata di colpi.

L’aveva presa e se l’era infilata in tasca tanto per non arrecare problemi al nuovo proprietario. Nell’impugnarla aveva pensato a Giancarlo e agli altri amici che un destino crudele aveva fatto morire. Tutti crepati giovani e in circostanze mai del tutto chiarite.

A prima vista tra la sua generazione e quella di oggi c’era un abisso, ma Giorgio non sapeva se in meglio o in peggio. Ciascuno era costretto a vivere nel suo tempo, a confrontarsi col presente e col futuro agendo di conseguenza. Non c’erano generazioni migliori o peggiori. Quella era una concezione vecchia e ritrita, buona per i benpensanti.

Forse negli anni Settanta, nonostante i tempi grami, lui, Giancarlo e il resto del gruppo vivevano la loro giovinezza con maggiore spensieratezza, anche se portavano una pistola in tasca. Questione di sopravvivenza quando sapevi che i rossi stilavano le liste di camerati da far fuori. A volte ti sprangavano fuori da scuola perché facevi l’attacchino a tempo perso, altre volte ti sparavano alle spalle mentre te ne camminavi tranquillo sotto casa per andare al lavoro. Ogni giorno era un bollettino di guerra e i fascisti le vittime predilette da quel bracconaggio impunito.

Nessuno fermava la mattanza. La polizia si limitava a constatare, a tracciare cerchi di gesso sull’asfalto e il giorno dopo tutto tornava come prima. E così tra camerati ci si arrangiava per sopravvivere. Seppur in pochi, si era uniti e agguerriti, sia nel salvare la pelle che nel farla pagare. E anche i rossi, che erano la maggioranza, col tempo impararono a conoscere la paura.

Eppure a vent’anni, anche nelle loro pazzie, c’era sempre posto per il sorriso che era la chiave di tutto.

Quel sorriso che bombe e stragi di stato si portarono via, infamando una generazione e infangando il ricordo dei morti.

Proprio ad Alassio Giorgio e Giancarlo avevano vissuto estati travolgenti, fra notti brave in discoteca a fare a pugni con i rampolli borghesi, feste con le ragazze e progetti di vita futura. La politica in quegli anni non la si dimenticava per la spiaggia e l’ombrellone. Era uno stile di vita buono per ogni stagione, da affrontare come una sfida nelle strade e nelle piazze.

Giorgio ripensò a una delle tanti notti d’agosto quando Giancarlo era andato giù ad Alassio per raggiungere l’amico. Era partito a mezzanotte da Lodi col Gilera Giubileo facendo la vecchia strada camionale e guidando per tre ore. Come al solito Giorgio aveva riconosciuto il motore sotto le finestre di casa sua. Al solito segnale convenuto, la sgasata, Giorgio era sceso in strada, mentre suo padre dal letto imprecava.

Avevano girato per un’Alassio deserta, quasi irriconoscibile, nonostante fosse estate. Poi Giancarlo non aveva trovato niente di meglio che operare un’opera di pulizia sulla solita targa partigiana che campeggiava sulla piazza. Era il suo modo per inaugurare la loro stagione estiva.

-Via il dente, via il dolore- aveva detto Giancarlo mentre attaccava saldamente alla sella della Gilera una corda. Avevano imbragato la targa commemorativa e con un’accelerata lui e Giorgio si erano portati dietro, con un fracasso infernale, il souvenir per le strade del centro suscitando le ire di chi dormiva.

Quei ragazzi, additati come teppisti e fascisti, chiedevano soltanto che anche i camerati venissero ricordati, che chi aveva combattuto dalla parte dei vinti non finisse nel dimenticatoio.

Nelle loro azioni notturne non avevano mai bruciato auto per divertimento, né per noia, né avevano mai devastato negozi o rubato. In quegli anni non si bruciavano i barboni per ammazzare la noia. Lui e Giancarlo erano solo stufi di sorbirsi l’agiografia della resistenza, sostenuta dai loro coetanei armati di spranga sobillati dai baroni delle università e dei licei.

E allora occhio per occhio, dente per dente.

Il giorno dopo il distacco della targa ad Alassio era scoppiato il solito putiferio: si denunciava il vile attacco al cuore della democrazia, tutti che sventolavano la bandiera, sporca di sangue, dell’antifascismo militante.

Giancarlo e Giorgio il mattino dopo se ne erano andati in spiaggia ridendosela di gusto mentre gli angeli della “democrazia” emettevano proclami e tuonavano dalle loro scrivanie che sapevano di menzogna e ipocrisia.

Due mesi prima a Lodi, durante un tentativo di pacificazione con quelli dell’ANPI voluto dai vecchi missini, che comunque non ci credevano per primi, Giorgio e Giancarlo si era trovati nella  sede dei partigiani per discutere. Il clima era teso, la sala gremita di militanti di destra e di sinistra.  Per cause ignote, ma sicuramente per un guasto, era andata via la luce per qualche minuto. Giancarlo, nella penombra della sala, aveva esordito divertito: “E’ saltata la Resistenza!”. I partigiani non avevano colto l’ironia. Dalla sua battuta era scoppiata la nuova ennesima rissa: i fascisti ridevano, i compagni urlavano, sedie che volavano e poi botte da orbi. Ma quelle erano scazzottate dal sapore paesano che non lasciavano presagire il destino che avrebbe atteso Giancarlo dietro l’angolo.

Anche questo era fare politica: scendere in campo, compiere azioni clamorose e prendere a calci le coscienze assopite della gente che preferiva voltarsi dall’altra parte di fronte allo schifo quotidiano. Il benessere a larga diffusione di quegli anni aveva sopito gli ideali della maggioranza silenziosa, dei bolsi borghesi amanti del quieto vivere. Gli stessi borghesi che facevano finta di non vedere il sangue innocente dei ragazzi ammazzati per un’idea.

 Ma qualcuno ancora non si era arreso.

Giorgio, dopo più di trent’anni, era diventato un disilluso dagli smacchi della vita, ma non per questo si era arreso. Non girava più con la Luger P08, non scriveva neanche più sui muri inneggiando al Duce e alla rivoluzione, ma una scintilla gli era rimasta. Era ancora capace di emozionarsi per quei lontani clamori, per quei sogni tramontati da un pezzo. Come allora ascoltava De Andrè e si perdeva fra le pagine di “Viaggio al termine della notte” di Celine.

Sorseggiava il caffè e interpretava quei ricordi con il senno di poi, accorgendosi di aver peccato d’innocenza. Quella era stata la loro unica colpa che rivendicava. Giancarlo, proprio per questo motivo, era morto. Ammazzato due volte. Ucciso prima da coloro che prima gli avevano dato protezione e poi l’avevano usato e  tradito; ammazzato una seconda volta dalla coscienza comune che ne aveva infangato la memoria.

Da quel lontano 30 maggio del 1974 Giancarlo, una volta riempito di piombo a Pian del Rascino, era diventato per tutti lo stragista, il bieco terrorista nero che metteva le bombe vigliacche. Anche la gente della sua città aveva preferito dimenticarselo. Non tutti, ma molti. Il suo era un ricordo pesante e scomodo per molti.

Ma la memoria e l’amicizia, se sono vere, rimangono vive, come braci ricoperte dalla cenere del tempo. E prima o poi la fiamma può tornare a risplendere. E se così non sarà rimarrà un po’ di calore. Lo stesso calore che scalda il cuore anche dopo decenni.

Giorgio sulla tomba dell’amico ci andava ogni tanto, ma non volentieri. Troppi ricordi legati alle tombe.

Giancarlo aveva il pessimo vizio di nascondere le sue armi in tombe che prima si doveva andare a svuotare. Un bel casino quando ci si dimenticava dove le si seppelliva e così, da ragazzi, si giocava pure a fare i becchini. Una volta riempite le bare di armi, al morto si doveva pur trovare una nuova casa.

A Milano, in questura, qualcuno era ancora memore dei loro scherzi telefonici.

-Venite vi prego, mi hanno sparato e sto morendo- diceva concitata la voce anonima al pronto intervento. Una pantera della Volante puntualmente arrivava alla cabina telefonica da dove era arrivata la telefonata trovando il morto trafugato dalla tomba nella cui cassa stava l’arsenale di Giancarlo.

I poliziotti quando arrivano non sapevano se ridere o piangere. Riconoscevano al volo la firma delle loro bravate, ma in quegli anni di piombo  quelle goliardate, seppur macabre, facevano sorridere.

Poi, subito dopo, venne il periodo delle cose serie.

Giancarlo era un uomo d’azione e Giorgio e gli altri erano tutti con lui. Avevano al liceo un preside tutto speciale, quasi un segno del destino, un tipo sanguigno pronto a scattare come una molla quando qualcuno lo metteva alla prova. Si chiamava Peirani, capitano della Folgore a El Alamein. Durante le commemorazioni del 25 aprile nell’aula magna dell’istituto aveva spiazzato tutti, studenti e professori. Il preside paracadutista, piccolo e rosso di capelli, nervoso come pochi, aveva iniziato a leggere il discorso istituzionale propinatogli per l’occasione. Gli toccava l’ennesimo soliloquio in onore della resistenza, della democrazia e di tutti i valori imposti come sinonimo di libertà. Tutti gli occhi quella mattina erano puntati su di lui. Peirani lesse il ciclostilo lentamente, scandendo parola per parola, tenendo l’attenzione della platea costante. Poi si era fermato, aveva messo via il foglio e  alzando gli occhi sulla folla di studenti aveva detto candidamente: “Io però, la penso in maniera diversa!-. Prima c’era stato il silenzio, poi il boato generale. I compagni erano pronti alla sommossa,  i camerati avevano fatto quadrato intorno a lui e i rossi si erano dileguati. Due settimane dopo l’amato preside per ringraziare Giancarlo e Giorgio aveva fatto loro un regalo inaspettato: due giorni a Pisa, ospiti della caserma Gamerra dei paracadutisti. Peccato che non fosse una visita di cortesia.

Giorgio e Giancarlo si erano ritrovati la domenica con il loro preside nella carlinga di un aereo, imbragati a una sacca che conteneva il paracadute. Niente corsi o lezioni di mesi. Peirani li buttò giù come sacchi di patate, dando loro solo i rudimenti per aprire l’eventuale emergenza. Quel giorno, facendosela sotto, i due ragazzi affrontarono quella prova forti dell’incoscienza dei vent’anni.

Giorgio ripensò all’azzurro dei cieli di Pisa, a quel momento di gioia, follia e libertà. Se lo sarebbero portati dentro negli anni avvenire anche quando le cose sarebbero purtroppo cambiate.

La sera Giancarlo andava sempre più spesso a Milano, e i due amici iniziarono a perdersi di vista. Si rivedevano solo per qualche serata. Come ai vecchi tempi si finiva sempre per andare a fare il tiro a segno ai cartelli stradali e a sognare la rivoluzione. Ma Giancarlo aveva messo in piedi un gruppo tutto suo e quello che era nato come un  gioco aveva iniziato a prendere una brutta piega.

L’ultima volta che Giorgio lo aveva visto era in compagnia di quegli stessi figuri che la notte ti piombavano in casa per perquisirti in cerca di chissà quali segreti. Erano coloro che ti stavano col fiato sul collo da bravi e indefessi servitori dello stato.

Giorgio di loro non si fidava. Meglio soli che male accompagnati, pensava quando alcuni camerati simpatizzavano con la gente in divisa. Quella gente faceva il doppio gioco, sembrava aiutarti quando ne avevi bisogno, ma alla fine rispondeva sempre e solo a chi dava loro da mangiare, al loro datore di lavoro. Questo Giancarlo non lo aveva capito o forse si era illuso che per una volta le cose potessero davvero cambiare. Il clima di quell’anno, il 1974, sembrava promettere bene, c’era fermento, aria di cambiamento. Lui l’aveva fiutata decidendo di passare dalla loro parte. All’inizio forse aveva creduto di poter coltivare indisturbato i suoi sogni di rivoluzionario sapendo che al momento giusto avrebbe avuto il loro appoggio.

Nessuno ha mai saputo come sono andate davvero le cose quel giorno in montagna, lontano da casa. Su quegli istanti di morte  sono state scritte pagine e pagine, prima da chi lo ha tradito, poi da tutti gli altri.

Quel 30 di maggio Giorgio, nella sua casa di Lodi, aveva assistito allo scempio fatto da televisioni e giornali. Il nemico della democrazia era stato tolto di mezzo dai volenterosi servitori dello stato, mentre si preparava a compiere l’ennesima strage.

Tutta l’Italia aveva provato sdegno per il “nero” attentatore e aveva esultato per l’operazione ben riuscita. Peccato che sulla scena dell’omicidio ci fossero dei testimoni, camerati che avevano condiviso con Giancarlo quella tragica avventura. Come sempre avviene in Italia sugli ultimi istanti della vita del ragazzo iniziarono a circolare versioni contrastanti, tutte diverse e tutte tese a tacere la verità.

Così tutto era finito. Giancarlo era stato consegnato alla storia con un’immagine che non era la sua e nessuno avrebbe potuto in qualche modo cambiarla. Neppure Giorgio e gli amici che aveva avuto accanto avrebbero potuto far sentire la loro voce.

Giorgio, oggi quasi sessantenne, provava lo stesso affetto per l’amico in maniera immutata.

Pagò il caffè, liberò il tavolino, e s’incamminò lungo il Budello dove si affacciavano le vetrine dei negozi. Alcuni li ricordava, altri no. Poco importava. La brezza del mare d’autunno spirava tra quelle case con tutto il suo carico di iodio. Dicono che lo iodio faccia bene ai polmoni. Per lui e per Giancarlo erano le sigarette il vero toccasana a quei tempi in cui Alassio era un po’ loro. Arrivò agli stabilimenti balneari chiusi e dismessi, in attesa che tornasse la stagione estiva. Provò un vago senso di malinconia che subito soffocò. In lontananza delle note familiari giunsero a rompere la monotonia di quel tardo mattino.

Si voltò e vide davanti a sé, una banda che si trascinava avanti circondata da un gruppo sparuto di persone. Suonavano “Bella Ciao” e intorno ai musicanti si trascinavano alcuni vecchi, intirizziti dall’aria frizzante e dagli anni sulle spalle. Giorgio li guardò avvicinarsi e per un attimo provò la stessa sensazione di allora: il desiderio di menare le mani. All’epoca aveva la fama di picchiatore e sapeva destreggiarsi piuttosto bene di fronte ai bastoni dei compagni che calavano inesorabili.

Poi Giorgio vide bene in faccia quegli irriducibili coetanei con i loro fazzoletti rossi al collo e sorrise. Non avevano l’aria di chi se la passava bene. Erano ancora lì, a recitare un ruolo che la storia, quella vera, aveva già giudicato da un pezzo. Inutile ostinarsi a rivangare un passato per raccontarlo a modo proprio per farselo amico; eppure quei superstiti della resistenza si ostinavano ancora in una consunta parodia che impestava l’Italia tutta. Avevano volti spenti e tristi, fantasmi di sé stessi.

Solo alcuni ragazzi che li accompagnavano dimostravano una certa convinzione nell’aspetto, uniformandosi come sempre ai canoni del rivoluzionario da salotto. Si vedeva che erano quasi tutti figli di papà.

Giorgio sorrise e li vide passare davanti a lui. Gli sarebbe piaciuto che in quel momento accanto a lui ci fosse stato Giancarlo. Era certo che anche a distanza di decenni non gliela avrebbe fatta passare liscia. Pochi contro tutti, come ai bei tempi… Ma chi può dirlo.

Giorgio raggiunse il molo che si spingeva nel mare leggermente increspato. Non c’erano neppure i pescatori quella mattina. Era solo. Canticchiò una canzone dal titolo “Un uomo da perdere”, scritta tanti anni prima da Fabrizio Marzi e dedicata proprio a Giancarlo. Una delle strofe così recitava:

Ma il cuore è un po' matto/ e il passato ritorna per battere forte,/ ricorda le scelte di vita,/le inutili sfide alla morte. /Non puoi condannare te stesso, /spiegare le trame sottili/ con logica fredda di toga,/ con logica grassa di fifa. / E piango, ragazzo bruciato,/ ultrà di un "commando" sbagliato,/ se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato. / Se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato”.

In quelle parole il ricordo di Giancarlo sembrava rivivere.

La sua voce si perse nel vento e il sole, seppur velato da un sottile strato di nuvole, sembrò farsi più luminoso. Poi Giorgio prese la pistola e la lasciò cadere in acqua sorridendo. Una battaglia lontana, era stata persa con onore, ma la guerra non era ancora finita…

 

(Racconto ispirato alle vicende di Giancarlo Esposti)