Questo romanzo di Massimo Carlotto è stato ottimamente recensito un anno fa da Piergiorgio Pulisci (libri/5469), articolo a cui rimando per i dettagli inerenti l’intreccio della vicenda e lo stile dell’autore. Quello che interessa Il nero tra le righe è vedere in che modo la parabola esistenzial-politica di Giorgio Pellegrini, protagonista e narratore di Arrivederci amore ciao, si inscrive nel mare magnum del genere noir, cui indubitabilmente appartiene. L’ex-brigatista ex-latitante ex-facinoroso e assassino che passa dalla rivoluzione armata alla borghesia dei parvenus è certamente emblematico della figura, cara all’hard-boiled fin dai tempi di Hammett e Chandler, dell’opportunista spietato e indifferente. Fin qui niente di nuovo. Naturalmente, l’utilizzo che Carlotto fa di questo ‘tipo’ è, contrariamente a ciò cui ci hanno abituato gli scrittori americani, del tutto scevro da schematizzazioni moralistiche e prese di posizione a priori: per quanto sgradevole e corrotto sia Giorgio Pellegrini, l’autore lo tiene sempre ben alla larga dalla macchietta e dalla riduzione a ‘cattivo’. Può sembrare cosa da poco ma non è così. Come rilevava infatti David Foster Wallace in uno dei saggi apparsi nella raccolta Una cosa divertente che non farò mai più, la tendenza, anzi il bisogno di schematizzare e suddividere in senso ‘morale’ azioni e personaggi è profondamente radicato nella mentalità americana, parte imprescindibile della tradizione culturale statunitense.
In termini concreti, in un genere come il nostro in cui il delitto, la violenza, la sopraffazione e il gesto estremo sono elementi abituali e irrinunciabili di ogni storia, questo impulso moralizzatore e semplificatore si fa sentire e si manifesta con una nitidezza e una perentorietà affatto peculiari. Il criminale è colpevole moralmente prima ancora che penalmente, e per questo motivo deve finire gambe all’aria; questa, sommariamente, l’ideologia di fondo.
Si pensi per esempio al Getaway di Jim Thompson: il romanzo racconta la storia di un rapinatore di banche che con la moglie si dà alla fuga attraverso il Paese, dopo un ultimo colpo. Meta finale, quasi mitico luogo edenico, è ancora una volta il Messico. Doc McCoy e gentile consorte sono dunque due criminali di professione, irredimibili dal punto di vista puritano cui si accennava sopra ma al contempo protagonisti assoluti, e umanissimi, del romanzo. È inevitabile perciò che il lettore prenda istintivamente le loro parti. Ci si viene quindi a trovare in una situazione moralmente ambigua: i protagonisti sono i ‘cattivi’, cioè delinquenti abituali, però noi li percepiamo come ‘buoni’, perché sono gli eroi cui ci affezioniamo seguendo il racconto.
E quindi come terminare, come risolvere questa situazione? La forzatura, per chi ha letto il finale dell’edizione originale (che non so se sia stato mantenuto nella traduzione italiana) è lampante, addirittura fastidioso. I due fuggiaschi approdano finalmente oltre confine, nel tanto agognato Messico. Il romanzo dovrebbe finire qui ma l’autore aggiunge un’appendice totalmente immotivata dal punto di vista narrativo ed evidentemente pleonastica nell’economia generale del romanzo. In pratica, il finale positivo per i due rapinatori viene tramutato in qualcosa di completamente diverso: il Messico non è più il paradiso in cui trascorrere il resto della vita ‘felici e contenti’, bensì una nuova prigione dalle sbarre dorate. Doc e sua moglie diventano vittime di un fiabesco e improbabile supercriminale che li ricatta ed estorce loro tutto il denaro intascato con l’ultimo colpo, riducendoli in miseria. È un ‘lieto fine’ rovesciato in apologo moralizzatore del tipo ‘il crimine non paga’, molto più confacente alla schematizzazione di cui sopra e che probabilmente servì a rendere pubblicabile il romanzo, uscito negli anni Cinquanta.
Foster Wallace scriveva dunque di questo bisogno tutt’ora presente nell’immaginario collettivo americano e che spinge autori, letterari cinematografici televisivi, a scegliere sempre soluzioni moralmente nette e compatibili con l’equazione aprioristica ‘chi semina vento raccoglie tempesta’, cioè a dire: il delinquente finirà ammazzato o ingabbiato o in altro modo fregato dalla sua stessa ’immoralità’. Questo schematismo risulta lampante nell’hard-boiled delle origini ma è saldamente presente anche oggi nei romanzi di autori come George Pelecanos e James Patterson, tanto per fare i primi due nomi che vengono alla mente. Al cinema il fenomeno è ancora più evidente, dal momento che si tratta di un medium che raggiunge un pubblico più ampio e in modo più diretto. Si pensi al finale, forzato e fasullo quanto quello del romanzo di Thompson, di Traffic, film peraltro notevole e veritiero.
Il lungo excursus ci porta ad apprezzare ora meglio l’asciuttezza e la verosimiglianza del protagonista di Arrivederci amore ciao. Il personaggio di Carlotto infatti pur inserendosi in questa tradizione che risale alle origini del genere – o dei suoi antecedenti – non cade nella semplificazione cui la crime fiction americana ci ha abituato. Giorgio Pellegrini non è un malvagio da fiaba o una caricatura, pur essendo una figura senza dubbio estrema e caricata, e la sua vicenda non scade mai nell’artificio e nello schematismo. Questo accade anche in virtù dell’altro merito essenziale di questo romanzo, e cioè la capacità di saldare la storia – per molti versi ‘tipica’ del genere – su una ambientazione realistica che in più punti sfiora il reportage o la descrizione sociologica. È cosa risaputa infatti che il Nordest di Massimo Carlotto è ben più di un fondale scenografico o di una coloritura da cartolina, e questo in virtù dell’esperienza personale dello scrittore.
La scelta di Arrivederci amore ciao come soggetto di questo intervento quasi natalizio della nostra rubrica è dettata, oltre che dalla riuscita del romanzo stesso e dalla sua forza (per la ricostruzione delle quali rimando all’ottima recensione), da questa ‘neutralità etica’ mantenuta dall’autore nel raccontare le imprese del protagonista. Neutralità, e quindi apertura, che contrasta decisamente con la tendenza tanto della crime fiction mainstream quanto del poliziesco-giallo da best seller. Carlotto riesce a scrivere una storia autenticamente noir, secondo la definizione che più volte in queste pagine è stata ribadita, inserendola in un contesto umano e sociale per noi vividissimo e reale, che non scimmiotta i maestri d’oltreoceano (o d’oltralpe) e crea invece una parabola umana e narrativa di grande efficacia.
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