La cosa nera
Guardò quella cosa nera. Non sempre conosceva il nome delle cose e non le dette un nome. Lei l'aveva tirata fuori da un cassetto. Il fatto la tenesse in mano lei, gli dette calma. Le sorrise e sentì uno strano benessere che gli capitava di avvertire sempre, ogni volta che la guardava. L'amore era difficile da nominare per lui. Era più una cosa che sentiva, o che vedeva. Certi colori gli davano quella sensazione. Per esempio il colore delle pareti della camera. Lui la sapeva chiamare "camera" e sapeva anche che lei era contenta quando lo sentiva pronunciare quel nome. Quella cosa nera luccicava e gli venne voglia di afferrarla, ma non la poteva prendere da quella distanza. Sorrise ancora e guardò le mani di lei. Non sapeva che fra quelle dita scorrevano giorno dopo giorno catene di dispiaceri e non sapeva dei tanti dolori che lastricavano la strada dove lei muoveva incerta i suoi passi. Conoscere le parole è importante perché ogni cosa, ogni sensazione e anche ogni oggetto, per essere capito fino in fondo deve essere nominato. Lui, a modo suo, la felicità la nominava.
La camera, i colori, il riverbero di luce che arrivava ogni tanto dall'orologio posto sulla mensola. Il suono che faceva un paio di volte al giorno quell'orologio era festoso e tutti ridevano. Ogni tanto, lei lo rimetteva a posto sulla mensola e aveva un tremito lieve alle mani. Lui se n'era accorto, ma non era riuscito a darsi una spiegazione. In verità nemmeno l'aveva cercata. Aveva solo notato il fatto ed era restato a lungo a fissare quelle mani che ora stringevano quella cosa nera. Non era un gioco. Si capiva dall'espressione seria di lei e dal silenzio che regnava intorno. Lei appoggiò quella cosa sul letto, si sedette e si tolse le scarpe. La stanza si riempì d'un tratto di calma, o almeno a lui sembrò così. Lei riprese la cosa e si alzò. Camminò scalza. Tutti quei piedi sul pavimento erano suoi. A un tratto si voltò e puntò verso di lui la cosa nera. Lui avrebbe voluto sorridere,ma lei continuava ad essere seria. Non avrebbe potuto dire quanto tempo passò. Fuori il vento agitava i rami degli alberi e le tende bianche si muovevano impercettibilmente. Con loro cominciarono a muoversi le ombre nella stanza. Ogni tanto quelle ombre lo intimorivano, forse lo riportavano a qualche brutto pensiero, ma non sarebbe stato in grado di ricordarselo. Il tempo si era come dilatato. Attimi che sembravano più o meno lunghi a seconda del momento e lui ogni tanto si scopriva a fissare quella cosa nera rivolta verso di lui. In quell'istante si accorse che sentiva il battito del cuore nel pugno che stringeva la coperta. Il suo pensiero correva da una cosa all'altra e non ci stette troppo a pensare. Lei gli sembrò più triste, ma le sue mani non tremavano. Dalle tende mosse dal vento vide il merlo nero che zampettava sulla ringhiera del terrazzo, mentre le nuvole bianche si muovevano veloci. Per un attimo un riverbero di luce lo accecò. Quando tornò a guardare davanti, si accorse che ora lei era più vicina. Gli venne voglia di abbracciarla e le sorrise un'altra volta. Lui non capì perché lei restasse seria, senza contraccambiare il sorriso e senza dire una parola. Una lingua di fuoco uscì ad un tratto da quella cosa nera. Non sentì lo sparo. I suoi occhi se ne andarono subito. Non vide lei che lasciava andare a terra la cosa nera. Non la vide avvicinarsi e prenderlo fra le braccia, sollevarlo e portarlo con sé in mezzo alla stanza. Non la sentì dire con lo sguardo perso lontano: “Sono la tua mamma che ti vuole bene”. Una frase che lui amava sempre sentirsi dire, anche se aveva già tre anni ed era grande, come gli diceva il papà.
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