Il focolare
Quando scende la sera sulla città, e i rumori della strada si diradano come gatti impauriti al sopraggiungere dell'uomo, una fitta mi torce il cuore al pensiero che tu non sei più qui. Il ricordo di sere come queste, in cui tornavo a casa con l'amaro in bocca di una giornata trascorsa nel mondo, e ritrovavo il conforto luminoso del tuo sorriso, la premura discreta dei tuoi gesti... Se ripenso a quello che è stato una lingua di ghiaccio mi si posa sul collo, bloccandomi in un terrore così profondo da negare anche le lacrime. Eppure ricordo: quando tutte le persone che si agitavano intorno a me, come uccelli impazziti nell'orribile voliera metropolitana, erano tanti nemici, tanti ostacoli da fronteggiare e abbattere per garantirmi il diritto di rivedere i tuoi grandi occhi, intenti a sorvegliare amorosamente i bambini che studiavano sul tavolo della cucina; quando alzarsi dal letto nell'alba gelida, con la faccia rappresa dal poco riposo, voleva dire tornare al lavoro e guadagnare il denaro che vi avrebbe nutrito e riscaldato; quando la vita dimidiata e offesa a cui siamo condannati aveva ancora un senso, perché c'eri tu a darglielo, io ricordo – la penna trema nella mano solo a pensarlo – di essere stato felice.
Quando la sera scendeva sulla città, coprendo pietosa la nostra immedicabile vergogna, la colpa mortale di essere nati, tu aprivi il grande portone metallico con le buste della spesa sottobraccio e la piccola Giulia aggrappata alla mano, mentre Paolo gridava per richiamare la tua attenzione e mostrarti come riusciva a salire le scale tre gradini alla volta. Ti ritrovavo nel globo di luce dorata della cucina – fragile bolla di ostinato tepore nel deserto minaccioso della notte – tra il mormorio delle pentole e la voce smorzata del televisore. Avevi il viso stanco ma felice di chi ancora una volta ha compiuto il suo dovere, e lo ha fatto di buon grado perché ad obbligarlo è solo l'amore. La gioia che provavo, mentre tu finivi di asciugare i piatti, mettevi a letto i bambini e ti preparavi per la notte, mi riempiva l'animo fino a farmi singhiozzare. Avrei passato ore, ogni sera, assistendo al complicato rituale della tua svestizione, quando il tuo corpo di luna morbida appariva a poco a poco dalla china discendente dei vestiti, per risplendere in un momento di nudità accecante ed avvolgersi rapido nella nebbia leggera della sottoveste. Migliaia di volte, guardandoti dormire, dovevo fare forza a me stesso per convincermi a chiudere gli occhi. Privato della tua vista, ti sentivo però ancora più forte accanto a me, e sapevo che tu eri il diamante, il dono che la vita mi aveva fatto senza motivo, come senza motivo mi aveva precipitato nell'abisso, e mi assopivo cullato dalla sicurezza che ti avrei avuto sempre con me. Dio rende folli coloro che vuole perdere.
Quando scese la sera sulla città, quella sera, la pioggia cadeva ininterrottamente da ore, come un discorso sempre uguale. Tu non avevi l'ombrello, e corresti all'impazzata dalla fermata del bus al portone, coprendoti la testa con un giornale. Giulia e Paolo dormivano dai tuoi. Avevi pensato di tornare a casa a piedi, godendoti l'inizio della primavera, ma non c'era stato verso. Nella cassetta della posta ti aspettava il solito assegno mensile, troppo misterioso per parlarne a qualcuno, troppo necessario per chiedersi da chi venisse. Quando apristi la porta di casa, quella sera, io non potei far altro che guardare. Guardare i due uomini che erano dentro da qualche minuto smettere di rovistare nei cassetti, balzarti addosso e immobilizzarti. Guardarli mentre ti strappavano i vestiti, ti violentavano, e ti riempivano di calci fino a farti vomitare sangue sul pavimento bianchissimo della cucina. Guardarli andare via scherzando tra di loro, lasciando in terra come spazzatura quello che restava del tuo corpo, della mia anima.
Indietreggiai, allontanandomi dalla finestra che dava sul tuo appartamento. Chiusi la tenda, certo che non l'avrei riaperta mai più.
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