Ero sempre stato un bambino tranquillo e riflessivo. In paese mi chiamavano “El pacioco”, ma questo l’ho saputo tanti anni dopo. Ogni anno, appena finita la scuola, mi trasferivo in montagna, a casa dei nonni. Passavo quasi tutta la giornata in giardino che ricordo molto grande. Mi nascondevo sotto a piante altissime, come quelle della giungla. Là immaginavo grandi avventure. Una lucertola diventava un temibile coccodrillo, una rondine un mostro alato che mi voleva portare nel suo nido sulle cime dei monti che vedevo da casa. In quel giardino, nell’estate, c’era sempre un grande tavolo di legno, proprio davanti alla finestra di cucina. Rimanevo lì interi pomeriggi a pasticciare con i colori, senza che nessuno mi dicesse niente. La nonna mi vestiva con un grembiule che mi arrivava fino ai piedi, arrotolava le maniche fino al gomito, apparecchiava il tavolo con i barattoli di tempere e fogli, un secchio d’acqua e spariva in cucina.
Quelli furono gli anni della mia preistoria pittorica. Immergevo la mano in un colore e riportavo la mia impronta sul foglio bianco. In seguito imparai a riportare tutti e due i palmi intinti in colori diversi, uno sull’altro. Fu così che scoprii i colori secondari. La terza scoperta furono le sfumature: intingevo il palmo in un colore e le dita in un altro. Nella parte mediana, dove i colori si confondevano e uno finiva per lasciare il posto all’altro, si formavano strisce di colore casuali che mi affascinavano.
Via via che crescevo sperimentai nuove tecniche pittoriche. Ero partito dalla tempera inondando di colore anche i muri di casa, poi passai, con grande gioia dei miei nonni, alla matita a cera. Approdai all’acquerello che diventò la mia vera passione. Mi affascinava il colore acquoso più di quello netto, come mi piacevano più le foschie e le nebbie delle mie terre rispetto ai colori violenti dei paesaggi del sud, che ho visto molto tempo dopo. Allora, se me lo avessero chiesto, non avrei saputo dire il motivo della mia preferenza. Guardavo il colore che si disperdeva, si trasformava, prendeva nuove forme dai contorni variabili. Ritornai alla tempera manipolando il colore come se fosse Pongo: ci intingevo la punta delle dita e quindi le appoggiavo sul foglio e subito le staccava con l’effetto di punti giganteschi e rilevati. I supporti di carta non facevano più al caso mio, il foglio s’imbarcava subito, piegandosi miseramente sotto il peso dell’acqua. A dieci anni dipingevo paesaggi, veri e immaginati. Quando mi chiedevano perché non ritraevo mai di persone li guardavo stupefatto. Semplicemente non m’incuriosivano.
Quello che mi interessava davvero era il colore, non il disegno e le linee che non avevo ancora studiato.
Riconoscevo i fiori dal loro colore, non dalla forma o dal profumo; del resto non tutti i fiori sono profumati. Sapevo che le ortensie del giardino erano rosa, il lillà lilla, la ginestra gialla. Una rivelazione fu vedere il fiore del melograno. Avevo studiato a scuola la poesia di Carducci e chiesi al nonno come era il vermiglio. Il nonno non aveva mai sentito la parola vermiglio ma sapeva dove trovare un melograno. Una domenica di primavera mi portò da un suo conoscente che aveva un melograno fiorito. In più, mi regalò un campionario di colori. Bellissimo, di cartone duro che si apriva in tre parti e lì c’erano tutte le tonalità con i loro nomi scritti sotto. Mi concentrai sui rossi.
Un giorno il nonno mi disse che ormai avevo dodici anni e dovevo imparare a conoscere i vini.
”Non si è mai visto nessun Bettin astemio!” La nonna lo guardava con disapprovazione e credo che abbiano anche litigato per questa faccenda. Una sera sentii che diceva “Tu e le tue idee. Ha visto il Piero che fine ha fatto?” Il Piero era mio padre che vedevo pochissimo. La mamma mi raccontava che era all’estero per lavoro, ma in quel momento capii che mi aveva sempre raccontato una balla.
Nonno cominciò comunque le sue lezioni di enologia, e devo dire che era piuttosto bravo. Partì a descrivere il gusto del vino. Le lezioni furono lunghe e dettagliate, completate da dimostrazioni pratiche e assaggi. Una volta si riempì il bicchiere con il vino rosso che era in tavola.
“Vedi, questo è un rosso giovane, abboccato, di colore rubino.”
Andò in cantina e tornò con una bottiglia polverosa. L’aprì con grande lentezza, l’annusò prima di versarlo, lo agitò nel bicchiere che l’alzò verso la luce. Un rito che durò diversi minuti.
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