“Questa fede mi muove ad affrontarlo io stesso: e chi altro ne avrebbe diritto maggiore?"
Eschilo, I sette contro Tebe
Mio fratello ha sempre avuto un’intelligenza spaventosa.
Io sono più grande di un anno, ma lui si è messo avanti con la “primina”, per cui abbiamo fatto le scuole insieme: elementari, medie, il liceo classico. Sempre insieme appassionatamente: lui, piccolo e magro, il leader; io, robusto e alto come una colonna, il gregario.
Ma non ho mai provato invidia. Mio fratello era il leader ovunque: nello studio, in classe, nelle assemblee roventi dei primi anni settanta, quando si urlava di arpionare la balena bianca, di strappare il cuore al sistema borghese, di non limitarsi a manifestare ma agire; e “l’ultima tesi su Feuerbach” saettava nei vecchi locali del Liceo come una scarica elettrica: “Finora i filosofi si sono limitati a contemplare il mondo, ora è venuto il tempo di cambiarlo!”.
Mio fratello era formidabile nel tradurre una versione di Polibio o di Livio, ma sapeva interpretare alla perfezione il ruolo del tribuno, quando se ne presentava l’occasione. Mi ricordo il tono di voce sicuro, senza la minima inflessione vernacolare, impostato ma privo di ingessature fastidiose. Affascinante. Di un fascino che catturava soprattutto le ragazze (e la storia con Lisa è nata proprio in quei giorni incandescenti), ma che si imponeva alla fine su chiunque lo ascoltasse.
Non ho mai capito dove attingesse tutta quella sua cultura, le argomentazioni affilate, le citazioni che spaziavano da Benjamin a Lukàcs, a Marcuse. E sì che, in quegli anni, il nostro professore di filosofia si limitava a riempirci i coglioni raccontandoci dei presocratici e dei sofisti. Certo, mio fratello leggeva un sacco di roba per conto suo, ma soprattutto si guardava intorno, ragionava con gente più grande, respirava l’aria di rivoluzione, si spostava in continuazione per la città partecipando a dibattiti infiniti. Ed era in grado di rielaborare con incredibile velocità tutte queste esperienze, di distillarle come se dovesse preparare una grappa dalle vinacce. E a diciotto anni, nel ’72, aveva già una personalità forte e aggressiva, simile proprio a un liquore ad alta gradazione, capace di suscitare euforia in chi lo avvicinava. O di ubriacarlo di discorsi.
Mio fratello scelse di iscriversi alla facoltà di Lettere; io preferii Architettura, ma gettai la spugna dopo pochi mesi e trovai lavoro in una tipografia.
Lui seguiva imperterrito le lezione, ma quello che gli dava più soddisfazione (oltre a fare all’amore con Lisa) era partecipare a ristrettissimi seminari – quasi delle riunioni ‘carbonare’ – organizzate da un noto docente, traduttore dei principali esponenti della Scuola di Francoforte e amico addirittura di Althusser. Molti di questi incontri furono registrati e mio fratello mi passava le cassette chiedendomi cosa ne pensavo.
Ho riascoltato quei nastri a lungo anche quando mio fratello si è volatilizzato e mi hanno fatto un’enorme impressione, come camminare all’indietro lungo un sentiero, fino a scoprire con stupore i contorni del punto di partenza, dell’origine di tutto.
In quei seminari mio fratello riusciva a sovrastare persino il docente. Quando prendeva la parola enunciava, con perentoria sicurezza, un progetto politico che sembrava dovesse dispiegarsi per forza, passare dalla potenza all’atto per necessità. Sosteneva convinzioni e concetti che sarebbero poi comparsi, declinate in mille modi, in tanti volantini, “risoluzioni”, comunicazioni. Ma li sosteneva con una veemenza che cancellava qualsiasi forma di perplessità e di dubbio. Credo che le sue idee abbiano fatto subito presa su un bel po’ di compagni: “lo stato borghese è in crisi, invischiato in mille contraddizioni, lo sfruttamento delle classi subalterne ha raggiunto un punto di non-ritorno”, “la strategia calcolata dei licenziamenti, della cassa integrazione, dei reparti-ghetto nelle fabbriche ha aperto un solco incolmabile tra padronato e operai”, “la scelta tra un socialismo utopistico, falso e consolatorio, e un socialismo scientifico esattamente già definito da Engels non può più essere rimandata, e non può che imboccare la via dell’azione rivoluzionaria”. Ripeto: si tratta di frasi che sarebbero state ripetute all’infinito da chi militava nell’Autonomia, saturando l’aria, riempiendo ogni spazio ideologico. Ma mio fratello ci credeva fino in fondo, percepiva che era giunta l’ora dell’azione, dello scontro diretto contro i simboli del sistema: insomma, l’ora della lotta armata.
Entrò in clandestinità nel marzo del 1975.
I poliziotti della Digos divennero una presenza assillante in casa nostra. Mio padre era un impiegato delle Poste, da sempre un socialista nenniano che guardava con spavento al P.C.I di Longo; mia madre copriva il ruolo di sarta-casalinga, desiderosa solo che i figli si laureassero, trovassero un buon posto e le dessero qualche nipote. Dopo il ’75 uscirono semplicemente di senno, schiacciati da quella che avvertirono come un’incomprensibile valanga di vergogna e di infamia, una valanga che aveva scompaginato la loro routine familiare. Si rifiutarono, a un certo punto, di leggere i giornali e di accendere la televisione.
E in effetti la foto di mio fratello campeggiava spesso nei telegiornali di quel periodo. Come sempre si era ritagliato una posizione di leader, questa volta all’interno dei Nuclei Armati, progettando ed eseguendo rapimenti e attentati.
Dopo la ‘gambizzazione’ del giornalista Terracina, eseguita freddamente da un appartenente al gruppo rivoluzionario in cui militava mio fratello, mi sono immaginato più volte come potevano essere andati i fatti: vedevo una persona minuta che avanzava lungo il marciapiede di via Marconi con indosso giubbotto e passamontagna. All’improvviso, estraeva una pistola e sparava due colpi alle gambe di un signore che camminava a pochi metri di distanza; quindi si allontanava a passo svelto, senza correre, e saliva su una Renault parcheggiata dall’altra parte della strada.
La scena mi martellava nella testa, il terrorista che aveva eseguito la sentenza contro Terracina doveva essere mio fratello; nei racconti dei giornalisti dei Tg, riconoscevo la sua figura esile, il suo sangue freddo, la sua sprezzatura, la sua scioltezza nell’eseguire la ‘gambizzazione’: sembra strano ma, per associazione di idee, pensavo all’agile eleganza con cui giocava a calcio da piccolo, come ala destra. Un prodigio di carisma anche in campo, tanto che era stato ribattezzato dall’allenatore “Kurt Hamrin”.
Ma Hamrin aveva ormai abbandonato da tempo il pallone e percorreva, con micidiale, implacabile coerenza, la strada della lotta rivoluzionaria.
Con gli omicidi del Procuratore Generale della Corte di Appello di Genova Francesco Coco, del sua autista e del suo agente di scorta, avvenuti l’8 giugno 1976, si aprì la stagione di sangue dei terroristi di matrice rossa. Con una telefonata alla redazione genovese del “Secolo XIX” la sigla terrorista, che rispondeva al nome di “Brigate Rosse”, rivendicava la paternità dell’ ‘esecuzione’ del magistrato. In una cabina telefonica di Genova venne fatto ritrovare un messaggio nascosto nell’elenco degli abbonati: “Un nemico del popolo ha pagato. Ora tocca ai politici. Attenti Canaglie”. Mi sembra che fosse la prima volta che compariva su un messaggio terrorista una grossa stella a cinque punte. Il ministro dell’interno Francesco Cossiga dichiarò: “È questo un altro doloroso e tragico anello di una catena di violenza che insanguina il nostro paese in un momento che dovrebbe essere tutto riservato alla civile competizione elettorale. Questo orrendo delitto che possiamo considerare un massacro, si presenta con caratteri suoi propri: le forze dell’ordine e, ne sono certo, anche la magistratura, faranno tutto il possibile per scoprire gli autori del barbaro delitto e rendere giustizia non soltanto alle vittime, ma al popolo italiano, anch’esso offeso da questo omicidio”.
In quel momento ho temuto seriamente per l’integrità mentale di mio fratello: non sopportavo l’idea di aver condiviso la mia infanzia, i miei sogni di bambino con un assassino. Avevo accettato che per le sue idee mettesse in atto rapimenti, sequestri e ‘tollerato’ persino le ‘gambizzazioni’ ma mi rifiutavo fermamente di avere un fratello assassino. Cominciavo a vederlo sotto una luce diversa.
Mio padre morì per un infarto due mesi dopo il giudice Coco: sono sicuro che alla sua morte abbiano contribuito in modo determinante le scelte di mio fratello. Negli ultimi anni si era fatto taciturno, più cupo in volto, come ho detto non guardava più la televisione e non leggeva più i giornali: forse voleva allontanare da sé il più possibile le ‘gesta’ di suo figlio minore.
In seguito alla morte di mio padre mia madre, che si imbottiva già da alcuni anni di psicofarmaci, era diventata quasi assente: stava seduta per ore davanti alla finestra di sala, fissando un punto laggiù lontano oltre l’orizzonte. Come provavo ad avvicinarmi a lei per stringerla fra le braccia, mi guardava e si metteva a piangere.
Mio fratello non venne al funerale di mio padre: potrà sembrare normale perché, essendo braccato da tutte le forze dell’ordine, sarebbe stato facilmente catturabile. Ho capito il motivo della sua assenza alla cerimonia funebre ma non sono riuscito a giustificare il fatto che non abbia telefonato, scritto, provato un qualsiasi contatto. In fin dei conti era pur sempre suo padre! Di sua madre poi nemmeno a parlarne: cosa volete che possa interessare a un combattente del suo calibro, che ha in mente di modificare il destino della nazione, il misero destino di una povera donna che per lui rischia la pazzia?
Basta! Non ci ho visto più: sarò stato un gregario quando eravamo ragazzi ma ora era venuto il momento che anch’io scegliessi la mia strada, senza di lui… contro di lui. Una rabbia feroce mi stava devastando lo stomaco; mi riaffiorava alla mente una citazione di qualche versione del liceo: “Questa fede mi muove ad affrontarlo io stesso: e chi altro ne avrebbe diritto maggiore”. Non mi ricordavo da quale opera fosse tratta quella frase: mi sembrava però che appartenesse a una tragedia che narrava la resa dei conti tra due fratelli.
Quella frase l’avrò ripetuta come un mantra in quei giorni, e ogni volta mi faceva l’effetto di un ago infilzato in un nervo scoperto. Perché, al punto a cui ero arrivato, la questione era semplice, spaventosamente semplice: Chi altro ne avrebbe avuto maggiore diritto?
Fu così che decisi di diventare un agente di Polizia. Dovevo fermarlo!
Purtroppo però fra le mie note caratteristiche c’era quella di essere fratello di mio fratello e avrei rischiato di non essere ammesso al concorso se non fosse intervenuto in mio favore un parente di mia madre, maresciallo dei Carabinieri.
Vinsi il concorso e superai i test di valutazione pisico-fisici e attitudinali avendo sempre in mente quella frase e la faccia di mio fratello, quelle sue battute tranchant che ti lasciavano di stucco e ti facevano sentire inadeguato, mai all’altezza. Subito dopo fui ammesso a un corso di formazione e l’anno succesivo fui assegnato a un Reparto di Bologna. Ma era Genova la mia meta: era lì che mio fratello portava avanti la sua battaglia armata contro i “servi dello Stato”.
Per farla breve, dopo alcuni mesi passati all’ombra delle torri della Garisenda e degli Asinelli, per un sonoro colpo di culo mi ritrovai di servizio alla questura della città della Lanterna.
In quel periodo Genova era il cuore della lotta armata. Non passava giorno che non arrivasse in questura una segnalazione di un probabile attentato contro qualche rappresentante politico o qualche magistrato. Io e i miei compagni eravamo sempre all’erta.
Frattanto, tramite nostri infiltrati nei gruppi terroristi, ero venuto a sapere che Lisa, la donna di mio fratello, era rimasta incinta e gli aveva dato un figlio. Avevo anche saputo che questa nuova condizione non lo aveva minimamente invogliato ad abbandonare la vita clandestina, il castello di convinzioni fondato tanto tempo addietro non si era affatto sgretolato. La coscienza (la coscienza?) non gli diceva di abbandonare la scia di sangue che lui e i suoi compagni avevano prodotto in tutti quegli anni. Anzi era diventato molto più crudele e intollerante, anche nei confronti dei suoi accoliti. Ero venuto a sapere che aveva freddato senza pietà un ragazzo che aveva manifestato dei dubbi sulla bontà della lotta armata. Mentre gli scaricava addosso l’intero caricatore della sua P38 lo aveva accusato di voler fare i nomi di chi gli era stato accanto e di essere un infame.
Quelle atroci notizie aumentavano sempre di più la rabbia che provavo nei suoi confronti. Rivedevo mia madre con lo sguardo ebete davanti alla finestra e pensavo, rodendomi il fegato, di aver rinunciato al ruolo di fratello maggiore rimpicciolendo la mia esistenza, viaggiando a rimorchio… e perché? Per nulla? Per permettere a quel piccolo narciso di giocare al combattente, di baloccarsi alla guerra.
Avrei voluto catturarlo, farlo confessare… Avrei voluto riempirlo di botte, in modo che rinsavisse, che venisse a casa ad abbracciare nostra madre e poi fosse rinchiuso in carcere per scontare le sue pene. Magari dalla galera avrebbe potuto riagganciare i rapporti con l’università, ricrearsi una facciata di rispettabilità, tirando su “la sacra famiglia” tanto sbeffeggiata da Marx (e da lui, quando era adolescente)… Tutte stronzate! Ero sicuro che avrebbe preferito morire piuttosto che rinunciare ai suoi fottuti ideali… Era sempre stato tutto d’un pezzo, lui.
Mi fermavo spesso a pensare che cosa sarebbe successo quando l’avessi avuto davanti… Ma quando l’avrei avuto davanti? L’indomani? Dopo una settimana? Dopo un mese? Chissà!
Finalmente l’attesa è finita: sono passati quasi due anni dal mio arrivo a Genova. I nostri informatori ci hanno appena riferito che fra un’ora ci sarà un attentato al giudice Incardone e nel commando sarà presente anche mio fratello.
In questo giorno torrido di luglio la città è deserta. Sono le 13,00 e il magistrato ha iniziato a scendere la scalinata del palazzo di giustizia in via Pammatone, accompagnato da due guardie del corpo. Incardone è stato preso di mira dai terroristi perché, come ha fatto in precedenza il giudice Coco, ha esercitato il diritto di avocazione su molte indagini: in particolare gli hanno procurato pessima fama negli ambienti della lotta armata proprio quelle contro alcuni terroristi che sono stati catturati negli ultimi anni. Insomma, per farla breve, ha ricevuto reiterate minacce scritte nelle quali lo si appella come “schifoso servo del potere”, “lurido servitore dello Stato” ecc. ecc.. Proprio per queste minacce gli è stata assegnata una guardia del corpo, che oggi sono salite a due.
Ai piedi della scalinata lo attende un auto blu del servizio di Stato. Il magistrato, corpulento e con un’evidente stempiatura, scende piano piano i gradini in mezzo ai suoi due accompagnatori, che guardano con fare circospetto intorno a loro: sia Incardone che la sua scorta sono stati avvertiti dell’attentato che dovranno subire. Il giudice, in giacca e cravatta, sembra sicuro di sé: nella sinistra tiene stretta una cartella in pelle mentre nella destra ha un fazzoletto con il quale si deterge di tanto in tanto il sudore.
Giunti alla base della scalinata del palazzo, uno dei due agenti di scorta gli apre la portiera posteriore sinistra, lo fa salire e poi, guardandosi ripetutamente intorno, sale a sua volta sul sedile posteriore destro mentre l’altro affianca l’autista sul sedile anteriore.
Immediatamente due nostre macchine si dispongono una davanti e l’altra dietro all’auto blu (io sono nella posteriore) e, a sirene spiegate, ci dirigiamo verso l’abitazione del giudice, che si trova in via Balbi.
Arrivati a destinazione stranamente incolumi, il giudice e la scorta scendono per entrare nell’androne del palazzo. Frattanto la Giulia che precedeva il corteo se ne va e l’auto blu aspetta il ritorno della scorta del magistrato mentre la nostra auto si prepara a ripartire superandola.
Mentre, ormai più rilassati, ci accingiamo ad affiancare la macchina dello Stato si odono dei colpi di mitraglietta provenire dall’androne del palazzo, ai quali fanno eco alcuni spari di rivoltella. Il mio collega alla guida inchioda immediatamente la nostra Giulia mentre io mi precipito di corsa verso l’abitazione di Incardone.
Mi sporgo con cautela e la pistola in pugno dal portone d’ingresso dell’ampio androne, e vedo una scena a dir poco apocalittica: il giudice si trova a terra in una pozza di sangue sotto i corpi esanimi dei due uomini della scorta che, evidentemente, hanno cercato di fargli scudo durante l’agguato terrorista. A un tratto scorgo qualcuno che corre via, zoppicando, verso l’ampio giardino interno al palazzo con un Kalashnikov in mano, la stessa mano con la quale si regge la spalla destra, evidentemente offesa nello scontro armato. Gli corro dietro e lo prendo di mira con la mia rivoltella ma, improvvisamente, il fuggiasco si volta… davanti a me si materializza una persona minuta, con uno sguardo sprezzante che mi guarda e… mi riconosce: è mio fratello.
“Questa fede mi muove ad affrontarlo io stesso: e chi altro ne avrebbe diritto maggiore”: improvvisamente mi ritorna in mente la frase del liceo che mi aveva assillato quando ancora facevo il tipografo.
Ho la pistola puntata contro di lui…
Che faccio? Gli sparo?
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