Per cinque anni hai gestito una libreria. Hai pubblicato poesia, narrativa per adulti e per ragazzi, hai scritto un radio-documentario per il programma “Spazio 100 lire”, scrivi sceneggiature per il cinema e la televisione. Sei editor, docente di scrittura creativa, fondatore di Story-first (che non ho mai capito completamente cosa tratti) e altre cose che passo sotto silenzio. Quale tra queste attività è quella che senti più tua?

Story First, la mia società, si occupa di pre-produzione e sviluppo progetti per editoria, televisione e cinema. Collaboriamo con Mondadori, Rizzoli, Nauta film, Coloradofilm, Emme produzioni, Overlook production e vari altri. Attualmente abbiamo iniziato la nostra prima vera produzione autonoma. Non posso dire molto perché per varie ragioni tutto deve restare segreto ancora per po’. Posso anticipare che ha a che fare con il genere, e che farà discutere. Ciò detto, è facile intuire la mia risposta: al momento l’attività che sento più mia è il cinema. Non a caso è da due anni che sto scrivendo il nuovo romanzo, ma avanzo lentamente perché il cinema mi occupa tempo, energia e testa.

 

Qual è la grande differenza tra la scrittura per il cinema e quella narrativa?

Che nel cinema ogni cosa che scrivi si deve “vedere”. Non so, non puoi scrivere “Marco è triste”, come faresti in un romanzo, e volendo cavartela così. Devi scrivere: “Marco è triste. Tiene la testa leggermente inclinata, ha gli occhi umidi, lo sguardo perso nel vuoto. Ogni tanto sospira rumorosamente…”. Nella scrittura per il cinema conta “l’immagine”, nella narrativa conta “la parola”. Differenza semplice, ma fondamentale, che stabilisce due categorie vicine ma profondamente diverse.

 

Cosa c’è, nel cinema, che non si può trasporre in narrativa?

Per quanto uno possa essere un mago nelle descrizioni, per quanto la sua scrittura sia “visiva”, nella narrativa manca il movimento della camera. La possibilità di “narrare attraverso le immagini”. Un buon film potrebbe anche essere muto, se la forza delle immagini è sufficiente.

La buona narrativa, secondo me, dovrebbe sempre tendere verso questo risultato – pur sapendo che è impossibile arrivarci. Un romanzo, infatti, per vivere e respirare ha bisogno dei dialoghi. Però dovrebbe aspirare al “mutismo” del cinema.

 

Tu hai firmato la sceneggiatura per il film “Un gioco da ragazze”, tratto dal tuo omonimo libro. La storia ha il merito, a mio avviso, di aver colto nel segno una tendenza purtroppo dilagante ai giorni nostri: la fashion addiction, l’esasperazione per l’immagine esteriore. Perchè molte (e sottolineo il femminile) cascano nella trappola?

Perché se una non sa chi è, allora si identifica con ciò che ha. E forse al giorno d’oggi per una donna è più complicato trovare un’identità e capire cosa fare di se stessa.

 

In  “Un gioco da ragazze” una delle protagoniste astratte è la superficialità. Cos’è per te la superficialità?

Mancanza di attenzione per le cose e per gli altri. Mancanza di “interazione” con ciò che ci circonda. La superficialità è una forma di egoismo, di autismo, e spesso produce più danni di una cattiva intenzione, di un atto malvagio deliberato.

 

Cosa ne pensi del fatto che il film sia stato, in un primo momento, vietato ai minori di 18 anni?

La battuta è: "Matteo Rovere fa il Bertolucci di Ultimo tango a Parigi e io faccio l'Hernry Miller di Tropico del Cancro... regista proibito e autore maledetto... ce la giochiamo da gran fighi".

Insomma, sostanzialmente, sorrido.

Più seriamente: il film l'ho visto e confermo di essere felicissimo di avere firmato la sceneggiatura come forma di "partecipazione" al progetto.

Anzi, sono orgoglioso di farne parte.

È un film ambizioso (che non è un difetto), duro, diretto, con tantissimi pregi, tanta forza, e forse qualche debolezza. Ma Matteo Rovere ha fatto un esordio pazzesco, e può stare assieme agli esordi - per dire - di Sorrentino o Garrone. Chi ora contesta Matteo, si vada a rivedere il primo lungo degli altri due registi. 

Il divieto ai minori di 18 anni mi ha sorpreso, ma in realtà nemmeno tanto. 

I crimini commessi da adolescenti in Italia ammontano a cifre impressionanti, ma la prima ad avere voluto una censura è L'Associazione dei Genitori, cioè l'associazione che raduna quei genitori i cui figli - indisturbati e inosservati - commettono delitti.

Viene contestato il fatto che la protagonista principale alla fine del film non si redima e/o non paghi per ciò che ha fatto.

Che è esattamente ciò che vediamo - e che pure gli adolescenti vedono - accadere ogni giorno.

Io credo che questo film tiri fuori la cattiva coscienza di un paese cattivo, vigliacco, impaurito e bigotto.

E se io fossi un genitore, a mio figlio o mia figlia - indicando la protagonista del film Elena Chiantini - chiederei: "Ma tu davvero vorresti essere così? Davvero vorresti vivere una vita così?"

Perchè quello che esce dal film è che la ragazza - Elena Chiantini - in teoria vincente, cattiva e impunita, in realtà vive una vita tristissima, solitaria, disperata, nella quale non gode mai di nulla.

Per dirla semplice: una vita di merda!

Altro che elogio del male!

Allora, se mia figlia mi dicesse: "Sì, anche io voglio essere come Elena Chiantini", io genitore forse penserei che qualcosa l'ho sbagliato io.

O no?

 

Tiziano, il protagonista del romanzo “Stupido”, è un diciassettenne difficile. Vive in un contesto differente rispetto alle protagoniste di “Un gioco da ragazze” però, come loro, è portavoce di un’adolescenza sfuggente. Ma trova una sua via di riscatto...

Anche da “Stupido” è in lavorazione un film. Si intitolerà “Mare Piccolo”, per la regia di Alessandro di Robilant. L’ambientazione è a Taranto, quartiere Paolo VI. Ovviamente, anche in questo caso, ci sono cambiamenti rispetto al romanzo (ma stavolta la sceneggiatura l’ho scritta io, assieme a Leonardo Fasoli). Una cosa però non cambia. Volevamo dare a Tiziano una possibilità. Perché vive in un posto da incubo, con dietro una famiglia a pezzi, con zero prospettive. Ma se la meritava, questa possibilità, perché anche se perde quasi tutto, non perde mai il cuore.

 

In cosa consiste il tuo shining di scrittore?

Se per Shining intendiamo un mio piccolo talento, allora credo (spero) sia quello di accompagnare i miei personaggi. Resto con loro, li seguo, li ascolto, ci discuto e non li abbandono, anche quando sono spregevoli.

 

Il tuo poetare è frutto di meditazione o è scintilla spontanea?

Per la poesia, per me, vale lo stesso principio della narrativa. Scrivere una poesia significa “riscriverla”. Cioè, c’è un momento, un attimo, un’idea, e la butti giù. Poi tagli, sposti, cambi, cancelli. E riscrivi, riscrivi, riscrivi.

 

Quali sono i tuoi poeti preferiti?

Uno in assoluto, Giorgio Caproni. Perché è riuscito ad affrontare le stesse complessità filosofiche di Montale, ma a differenza di Montale, scriveva anche straordinarie poesie d’amore.

“Il mare come materiale” è per me la più bella lirica italiana di sempre.

 

“Male al cuore” è un racconto dell’antologia “Anime nere – Reloaded”. Cosa ti fa scattare, metaforicamente parlando, il male al cuore?

Il male al cuore vero lo sento quanto sento il male al cuore degli altri. Avere “senso degli altri” è necessario per chi scrive, e porta gioia, vicinanza, piacere, ma anche dolore.  E quando si scrive, spesso si scrive proprio per tentare di sanare un dolore, una frattura, una frizione. Con “Un gioco da ragazze” è stato questo. Mi interessava il dolore delle vittime, ma anche il dolore degli assassini.

 

Bibliografia

Poesia: Da quale fuoco – Book editore, 1996, La fede del poco e del meno – Book editore, 2000.

http://www.andreacotti.eu/