Arezzo, domenica mattina.
La radio stava trasmettendo una canzone di un gruppo di Montepulciano, i Baustelle. Tatorino andò alla portafinestra del terrazzo e la spalancò. Raffaella stava facendosi la doccia e poi si sarebbe dovuta asciugare i capelli, quindi, c’era tutto il tempo di fumarsi in pace una sigaretta.
Cercò nella tasca il suo accendino arancione e sentì che aveva ancora l’invito della Bianca Milani dimenticato in tasca. Si mise seduto, accese prima la sigaretta e poi il computer portatile di Raffaella, e mentre aspettava che tutte quelle scritte oscure sfarfallassero via dal monitor e Windows finalmente si avviasse, aprì di nuovo l’invito per leggersi la scheda allegata alla serata:
“ (…) Fosco Maraini dopo Sapporo, nel Hokkaido, e Kyōto, nel Kansai, con l’incarico di lettore di lingua italiana per la celebre università locale.
L'8 settembre 1943 mentre si trovava nella capitale, gli venne chiesto dal Comando Giapponese di aderire ufficialmente alla Repubblica di Salò, ma lui rifiutò, insieme a sua moglie. Venne quindi trasferito e internato in un campo di concentramento a Nagoya con tutta quanta la sua famiglia. Durante la prigionia, per far cessare le umiliazioni ma soprattutto la fame nella quale erano tenuti i suoi figli, compì un gesto d'altissimo significato simbolico per la cultura giapponese: alla presenza dei comandanti del campo di concentramento si tagliò il mignolo della mano sinistra con una scure. Fosco Maraini non ottenne la libertà, ma ”. In quel momento a Tatorino suonò il cellulare.
“Non ci crederà ma sotto quel quadro ce n’è un altro” gridò Pontano, ansimando. “Addirittura un Cézanne! Autentico!” A Tatorino schizzò subito il cuore in gola.
“Vengo subito da lei.” disse, si alzò, andò a bussare alla porta a vetri della doccia e gridò a Raffaella: “Devo correre immediatamente dal commissario!”. Lei chiuse l’acqua per capire cosa diavolo stesse dicendo ma lui era già uscito. Come impazzito.
“Ma non dovevamo andare a Bibbiena?” fece lei, con la testa fuori dalla doccia, ma ormai non c’era più nessuno ad ascoltarla.
Solo il ronzio del computer rimasto acceso e la porta finestra tutta spalancata.
“Entri” disse il magistrato Cossu. Tatorino non poté fare a meno di notare che sfoggiava due orecchini piccolissimi, nascosti sotto dai lunghi capelli neri da Imperatrice Cinese, ma che lanciavano bagliori per centinaia di miglia tutt’intorno.
Lei, dotata di buone antenne, fece subito la solita smorfia infastidita per tutta quell’attenzione. L’essere guardata così, le aveva sempre dato fastidio, e fin da adolescente sognava un anello magico che potesse renderla invisibile.
Andò a sedersi alla sua scrivania e gli porse dodici stampe del quadro di Emperaire, riprese agli infrarossi. Tatorino le afferrò subito agitato, salutò la signora Elsa Calamai, il suo avvocato, il commissario Pontano, e si rifugiò in un angolo per studiarsele.
Sotto il quadro della cicciona, che sembrava aspirare indegnamente al ruolo di Astarte la dea della fecondità, si vedeva con chiarezza il dipinto originale: una natura morta: una zuccheriera, tre pere e una tazza. Tatorino sentì un brivido scorrergli lungo tutta la schiena. Era uguale al quadro sempre realizzato da Cézanne, conservato al Musée d’Orsay a Parigi.
Doveva trattarsi di una prima prova risultata poco soddisfacente, che poi l’artista doveva aver dato a Achille Emperaire, per farci sopra il suo brutto quadro…
“Sapeva che sotto quel ritratto c’era un dipinto autentico di Cézanne?” domandò Pontano alla signora Calamai, “è per questo motivo che l’avevate messo in cassetta di sicurezza?”
Lei spalancò gli occhi sorpresa:
“Sta scherzando, vero?” disse e si voltò disorientata, verso l’avvocato.
“La pregherei di rispondere al commissario.” la sollecitò il magistrato. Decisa ad arrivare in fondo, e alla svelta, a tutta quella storia. “La sua situazione sta diventando molto seria.”
Elsa Calamai si voltò verso di lei, la guardò, e fece la sua prima faccia dura:
“Perché? Io non ho ucciso proprio nessuno.”
“Le ripeto la domanda” disse il magistrato, rimanendo tranquilla ma sempre risoluta. “Lei sapeva che sotto quel quadro c’era un Cézanne autentico?”
“Ma no! No, no, no!” strillò lei.
“E chi poteva saperlo?”
“Ma nessuno!” scattò la signora Calamai, a un passo dal mettersi a piangere. “E nemmeno mio fratello se è a questo che state tutti pensando”
“Béh…” borbottò Pontano, “non è che sia proprio uno stinco di Santo”
“Dovreste vergognarvi! Non potete torturarci così, cosa c’entra adesso mio fratello?”
Il magistrato impose alla signora Calamai di rimettersi subito seduta e di calmarsi, e lei ubbidì. Il suo avvocato si scusò chiedendo comprensione.
“A Carla non importava più nulla se Achille avesse o no, qualche scappatella” mormorò Elsa Calami, a capo basso. “A lei interessava soltanto che potessimo aprire quel negozio insieme”
“Spero che abbiate qualcosa di più di queste semplici supposizioni a carico della mia cliente” intervenne finalmente l’avvocato Braganti. “Qui si sta parlando di un omicidio perpetrato con arma bianca, un’esecuzione a sangue freddo. Mi sembra ovvio, che sia opera di un professionista, trattandosi poi di un quadro stramilionario”
Tutti lo guardano sorpresi di quell’uscita davvero improvvisa.
“Forse Carla, senza dirlo alla mia cliente, avrà fatto esaminare quel dipinto e, incautamente, può averne parlato con qualcuno del giro dell’antiquariato: un conoscente, un amico, magari fidandosi, che poi avrà commissionato l’omicidio a un killer…”
“Inoltre” continuò l’avvocato, imperterrito, “è stato appurato che in quella libreria, durante tutta la performance, la porta d’ingresso è rimasta praticamente sempre aperta e chiunque avrebbe potuto entrare e uscire indisturbato, dopo aver ammazzato in quel modo la povera Carla. L’assassino, poi, con calma, quando le acque si fossero calmate, contava di acquistare quel dipinto dal marito sapendolo all’oscuro di tutto, perfino che quel quadro fosse depositato in una cassetta di sicurezza…”
Riprese fiato tutto soddisfatto. “Non voglio dire che Achille Calamai fosse un fesso, no, questo no, ma, diciamo: poco attento a queste cose e molto attratto dal denaro contante…gliel’ho avrebbe venduto di corsa senza porsi nessuna domanda…” Tossì, imbarazzato guardando la sua cliente.
”Ritengo la signora Calamai non solo innocente ma addirittura estranea a questo delitto! E non capisco su cosa si basano tutte le vostre accuse”
Fu Pontano a rispondergli:
“Intanto abbiamo un… testimone“, e lanciò un’occhiata storta a Tatorino che continuava ad amoreggiare con quelle lastre ai raggi infrarossi, del Cézanne.
“Commissario!” sbottò l’avvocato, alzando una mano. ”Mi scusi ma questo suo testimone non mi sembra né attendibile né molto sicuro di quello che afferma!”
Pontano grugnì: era vero.
“Allora diciamo che ieri è stata rintracciata una ripresa video fatta dalla telecamera del negozio di un orafo che, esattamente alle 21 e 27, mostra la sua assistita camminare sul marciapiede distante pochi metri dalla libreria”.
L’avvocato, preso di contropiede, guardò la signora Calamai che subito scosse la testa, smarrita.
“Voglio vedere subito questo filmato!” disse, inalberandosi di nuovo.
“Lo vedrete quando sarà il momento.” ribatté il magistrato. Stizzita per tutta quella cagnara.
“E’ una videoripresa in bianco e nero, di bassa qualità e l’inquadratura dura soltanto 9 secondi, ma sono più che sufficienti per riconoscere la signora Calamai.”
L’avvocato strinse le mascelle, irrigidendosi sulla sedia. La signora Calamai si lasciò andare alla spalliera, come se l’anima avesse già abbandonato il suo corpo.
“Visti gli elementi che gravano sulla sua cliente” disse il magistrato Cossu, “credo che esistano i presupposti per emettere un ordine di immediata carcerazione.”
La signora Calamai cominciò a piangere.
“Non ero io“ disse, “ci deve essere un equivoco, perché non volete credermi?”
L’avvocato si preparò a un altro assalto quando bussarono alla porta.
“Avanti.” disse il magistrato. S’affacciò l’agente Mattei seguito da un Achille Calamai che sembrava perfettamente ristabilitosi. Indossava dei bei pantaloni di velluto verde a coste fini e una camicia leggera Velvet brown, con sotto il solito foulard in seta, questa volta di un intenso rosso-mattone.
Vedendola piangere, corse immediatamente ad abbracciare la sorella.
“Va tutto bene?” le domandò, dedicando però una lunga occhiata al magistrato.
L’avvocato Braganti si alzò.
“Achille, ci sono delle novità” disse, tutto bianco in viso.
Fosco Calamai lo guardò, e subito diventò bianco anche lui.
“Hanno scoperto che sotto il quadro di Elsa e della povera Carla, béh, ce n’é un altro…”
…
“Un Cézanne autentico… che vale milioni di euro”
Achille Calamai non capì subito di cosa diavolo stesse parlando ma nel sentire quella cifra esorbitante, venne fulminato da una scarica elettrica. Fece prima un’espressione terribilmente stupida poi, strabuzzò gli occhi:
“Avete trovato un Cézanne autentico? Ma siete delle vere diavole!” sbottò, entusiasta, guardando la sorella. Quasi gli venne di cercare sua moglie lì, nella stanza, per farle i complimenti, ma poi, chissà perché, non trovandola, abbracciò di nuovo sua sorella e la strinse forte. “E’ una notizia bellissima”
Il magistrato cercò di controllarsi.
“Lei non si rende conto della gravità della posizione di sua sorella, vero?” gli domandò, inorridita da quel comportamento davvero inconcepibile. Lui la guardò spalancando la bocca.
“No… Ma cosa c’entra? Io dicevo soltanto… Un quadro milionario! Capirà che...”
Finalmente Achille Calamai sembrò cominciare a preoccuparsi.
“Sua sorella è stata incriminata ufficialmente per omicidio e”. Fosco cadde improvvisamente per terra come una pera matura.
“Il cuore…”, balbettò, portandosi la mano destra sul petto. L’agente Mattei lo soccorse. Il magistrato Cossu chiamò subito il 118.
Mentre tutti cercavano di dare soccorso al povero Calamai, chi sbottonandogli la camicia, chi correndo fuori nel corridoio, per far strada ai portantini, Tatorino se ne restò immobile, quasi sconcertato, fissando la mano di Fosco. Quella rimasta irrigidita sul cuore.
Si sarebbe tanto volentieri dato un bel calcio nel sedere!
Ricordò perché tutti quanti lo chiamassero Fosco. Una storiella che gli aveva raccontato mille volte il Santi che al mercato di Arezzo, aveva il banco accanto a quello dei Calamai.
“Modestamente gliel’ho messo io quel soprannome!” si vantava sempre, divertito. “Quel filibustiere mi raccontò che da ragazzo aveva fatto una sfida con un suo amico, mentre stavano aiutando suo nonno a tagliare la legna…”
Una stupida prova di coraggio. Achille aveva messo la mano destra su un pezzo di legno dicendo al suo amico: “Guardiamo chi è più veloce: se tu a colpirmi con l’accetta o io a togliere la mano…”. L’amico, stupido quanto lui, gli aveva risposto subito: “Non avresti mai il coraggio di startene lì fermo!”. Lui, invece, quel coraggio ce l’aveva avuto ma l’altro era stato troppo veloce.
“Per questo gli manca l’ultima falange al dito mignolo, a quel bischeraccio!”
E gli aveva affibbiato subito quel soprannome: Fosco. Come Fosco Maraini.
Umorismo sprecato: “Come dar perle ai porci!”. Il perché di quel soprannome il Calamai non l’aveva mai capito.
“Diciamocelo: quello, tranne che di passera, non s’intende più di nulla!” aveva sentenziato il Santi. Arreso davanti a quell’abisso d’ignoranza. “Figuriamoci se può conoscere uno come Fosco Maraini!”.
Tatorino marciò diretto come un asteroide verso il magistrato Cossu.
“La donna che ho visto in libreria non era la signora Calamai.” le disse, all’improvviso, e stavolta con fare deciso.
Lei sgranò gli occhi e anche così indispettita, spiazzata, addirittura inviperita, restava sempre e comunque bellissima.
Anche il rosso che le aveva infiammato il viso era della sfumatura più perfetta.
“Sapevo che c’era qualcosa che mi sfuggiva ma non riuscivo ad afferrarlo“ continuò lui, mettendo finalmente a fuoco, perfettamente, l’immagine della donna che aveva visto in piedi, in fondo alla libreria.
Le disse di quella mano che reggeva il fazzoletto, di quel dito mignolo al quale mancava una falange.
Il medico finì di visitare Achille Calamai. Dopo avergli auscultato il cuore si alzò e si avvicinò al commissario Pontano per dirgli qualcosa.
Pontano ascoltò e andò a comunicare subito con il magistrato.
“Il medico afferma che si tratta di un semplice malore, si riprenderà subito“ disse, sollevato. “Niente di preoccupante.”
Lei lo guardò seria. “Lo faccia trasportare lo stesso in ospedale” disse, “ma metta un uomo a sorvegliarlo, ci sono delle novità.”
Pontano dette un’occhiataccia a Tatorino, per essere stato tenuto fuori da quelle loro confidenze.
“E chieda immediatamente al dottor De Vezze, della scientifica, di effettuare un tampone sul viso del signor Calamai. Voglio però un prelievo molto accurato, perché il Dottor. Tatorino è più che sicuro che ci troveremo tracce di cerone e rossetto.”
*
Martedì, stazione ferroviaria di Arezzo.
Il corriere di Arezzo uscì con il titolo: Uccide sua moglie per amore della poetessa Selma Cunningham!
L’articolo in copertina, come le due pagine successive, era ovviamente firmato da Ivan Ceccarelli.
Tatorino, fermo al binario 4 in attesa del treno per Firenze, mise via i quotidiani nella sua borsa da viaggio.
Arezzo era stata completamente invasa da radio e televisioni locali, nazionali, e anche internazionali. Quello era il momento giusto per allontanarsi.
Un caso che aveva tutte le carte in regola per fare impazzire il mondo: una famosa poetessa, grande artista e performer, figlia del vecchio e popolare avvocato americano Ehsan Cunningham e vedova di Raymond Lang, analista militare del Governo Americano, e poi un antiquario italiano. Un uomo sposato, innamorato pazzo di lei, ex paracadutista, ancora in una smagliante forma fisica tranne che dentro la testa.
Poi un vecchio coltello da combattimento, arrugginito, usato un tempo dal corpo speciale degli Arditi. Un’arma rinvenuta dalla Polizia avvolta in un panno di velluto rosso, dentro una scatola: un pegno, una prova d’amore, pronta per essere recapitata a casa della poetessa.
Lei, si trovava in quel momento seduta nell’ufficio di Pontano e stava piangendo. Lacrimava e faceva sobbalzare il seno spropositato proprio sotto gli occhi del povero commissario.
Fuori, nel corridoio, almeno dieci tra giornalisti e fotografi erano in attesa delle sue dichiarazioni.
Il suo avvocato, in quelle ore, stava volando da San Diego per assisterla, anche se al momento, il Magistrato Alice Cossu non l’aveva fatta iscrivere in nessun registro.
Selma Cunningham si era presentata di sua spontanea volontà, piangendo e indossando un caftano ampio come una tenda Berbera e, fra le lacrime, aveva ammesso di aver conosciuto Fosco -come lo chiamava anche lei-, a San Sepolcro, in occasione de La domenica del tarlo, quando aveva acquistato al suo banco un’angoliera in ciliegio, che poi gli aveva chiesto di portarle a casa, a fine giornata, mentre la moglie di quell’uomo: “bello come il sole”, era restata in angolo a contare i soldi in contanti, al settimo cielo anche lei.
La loro era stata fin da subito un’attrazione fatale: dal primo istante Fosco le era piaciuto, le aveva fatto: sangue, ammise, riacquistando subito forza e vigore, mentre Pontano si lasciava sfuggire una smorfia, trovando quell’espressione abbastanza fuori luogo.
Lei affermò che quello che scrivevano i giornali erano tutte bugie, inventate solo per vendere qualche copia in più! Lei non aveva mai cercato avventure:
“E’ la vita che ci fa incontrare ed è la vita che ci chiede di essere vissuta!” ansimò, guardando intensamente il commissario, con occhi davvero spudorati.
Pontano ascoltò in silenzio tutta la storia di lei e di Fosco, con particolare attenzione a quando lui, alla fine dell’estate, aveva dato in escandescenze due giorni prima che lei se ne ritornasse negli Stati Uniti.
Lui, impazzito di gelosia, incapace di arrendersi a quella cosa, si era messo a gridare che avrebbe lasciato sua moglie, urlando di volerla seguire in capo al mondo, giurando che per lei avrebbe attraversato anche l’oceano a nuoto!
Pontano alzò le folte sopracciglia perché sembravano frasi pronunciate da un adolescente.
Poi Achille Calamai si era dovuto arrendere a quella loro lunga separazione.
“Ha iniziato a scrivermi e-mail tutti i giorni: messaggini, lettere e bigliettini, come un ragazzino innamorato”
L’anno seguente, avevano trascorso di nuovo tutta quanta l’estate assieme, cercando di tenere nascosta ai giornali quella loro storia. Lui le portava grandi mazzi di rose rosse, mentre lei organizzava cenette a lume di candela sull’aia, che finivano tutte come sempre, facendo l’amore in ogni posto, perfino sugli scalini di casa.
Pontano tossì. Fece un’altra lunga serie di smorfie per far capire alla signora Cunninghan che non importava fosse così precisa, specie in quei dettagli.
“Credo che questi siano… elementi poco rilevanti per la chiusura dell’ inchiesta”
Lei si scusò, agitata, mettendosi una mano sul petto e allungando l’altra mano, fino a raggiungere l’avambraccio di Pontano, che rimase immobile come un geco sul muro.
“Sento in questo momento un grandissimo bisogno di ricordare solo i bellissimi momenti trascorsi con lui ” disse, respirando a pieni polmoni. “Per questo anche oggi mi sono messa il profumo che gli piaceva tanto…”
Pontano avrebbe tanto volentieri spalancato la finestra perché certi profumi femminili gli toglievano letteralmente il respiro e, mentre si malediva per il fatto di non aver passato quell’interrogatorio all’ispettore Nardi, lei si portò in avanti con le spalle, quasi sollevandosi dalla sedia, e facendo leva sul suo potente avambraccio che gli stava stringendo con forza.
“Sente l’odore di orchidea?” gli domandò, socchiudendo gli occhi. “E quello di tartufo?”
In quel momento si aprì la porta e l’agente Mattei mise dentro il capo:
“Se ha bisogno di noi Commissario, io e Lobosco siamo…”. Rimase con quella frase a mezz’aria poi, imbarazzato, concluse velocemente: “Insomma: siamo qui fuori.”
L’occhiata di Pontano lo convinse a richiudere immediatamente quella porta. Selma sorrise, anche per l’improvviso rossore del commissario che lo rendeva ancor più interessante.
Lui, in modo burbero, la invitò seccamente a sedersi e a continuare la sua deposizione, e lei, ubbidiente, riprese a raccontargli di lei e di Fosco.
Gli raccontò dell’ultima sua sfuriata.
“Purtroppo quel giornalista, il Ceccarelli” si lamentò, dispiaciuta, “mi aveva assicurato che avrebbe atteso qualche giorno prima di far pubblicare la mia intervista”
Il tempo necessario affinché lei, con calma, scegliendo il momento più adatto, avrebbe comunicato a Fosco dell’assegnazione della Cattedra di vocalità, a San Diego, ma soprattutto che quella sarebbe stata l’ultima estate che avrebbero potuto trascorrere insieme.
“Invece, già la mattina dopo, il Corriere di Arezzo era già uscito con quel titolo così esagerato!”
Fosco, appena vista la locandina davanti all’edicola, aveva dato fuori di testa. L’aveva raggiunta al casolare e, comportandosi come un ladro, era entrato di nascosto dalla portafinestra della cucina, convinto che l’avrebbe colta sul fatto con il suo nuovo amante americano.
Immaginava che la storiella della cattedra all’università californiana fosse solo una balla per liberarsi di lui.
Era entrato in salotto silenzioso come un gatto. Le era saltato addosso all’improvviso, da dietro, immobilizzandola con un abbraccio, facendole una paura terribile, poi aveva cominciato a baciarle il collo, le spalle, i capelli.
“Un tornado!” esclamò lei, accaldata. “Le giuro che ho fatto fatica a farlo ragionare”
Pontano, vista la mole della poetessa, la guardò, scettico.
“Ci siamo amati intensamente per tutto il pomeriggio” disse lei, come se ne fosse ancora stordita. Solo verso sera era riuscita a convincerlo a ritornarsene ad Arezzo, ma subito dopo cena lui le aveva ritelefonato, intenzionato ad andarla a trovare di nuovo.
Le disse che era già per strada, che aveva ancora bisogno di vederla, di parlarle. Si lamentò del fatto che aveva appena litigato con sua moglie e che lei lo aveva trattato malissimo, per un motivo assolutamente stupido: si era dimenticato di andare a ritirare il coperchio di una zuppiera dal restauratore.
Urlò che non ne poteva più di quelle cianfrusaglie, che si sentiva ancora giovane e che non voleva continuare a sprecare la sua vita in quel modo.
Lei cercò di calmarlo. Gli disse che non gli aveva mai chiesto di lasciare sua moglie e di stravolgere tutta quanta la sua vita, non era quello che lei desiderava da lui. Sapevano entrambi che prima o poi quella loro storia sarebbe finita, perché è nella natura delle cose, e lei, nel tempo, aveva imparato ad accettarlo. Ora toccava a lui.
Fosco si arrabbiò, pianse, l’accusò di essere un’egoista, addirittura una troia. E solo un’ora dopo, quando quella loro telefonata finalmente terminò, lei, sfinita e terribilmente scossa, chiuse bene tutte le finestre, staccò il telefono, e spense il cellulare.
“Le giuro, commissario, che mi sono sentita soffocare come in una prigione” gli confessò, cercando di tenere sotto controllo il proprio respiro. “Non capisco perché tutte le più belle storie d’amore debbano sempre finire così!”
Il mattino dopo lei ricevette una rosa rossa e un biglietto che le prometteva un gesto in suo Onore.
Ovviamente si era subito preoccupata che lui non avesse in mente di fare qualche sciocchezza.
“Non sarebbe la prima volta che mi succede…” ammise, e frugò nella borsa, posando il biglietto di Fosco sulla scrivania.
“Agli uomini piace quando pensano di essere loro a condurre il gioco, li fa sentire sicuri, forti e tranquilli”.
Solo in questo caso accettano che la loro avventura abbia prima o poi un termine, che ovviamente devono stabilire loro stessi, ma quando è la donna a volersi riprendere la propria libertà, come per il mio “vecchio guerriero innamorato pazzo”, -lo chiamò proprio in quel modo-, tutto si tramuta rapidamente in una tragedia.
“Io ho terrore dei drammi” disse, di nuovo sottosopra. “Le storie d’amore quando sfuggono di mano, hanno la caratteristica di trasformarsi da inni romantici alla vita, al più grande degli incubi!”
Raccontò al commissario che la sera della sua performance in libreria, riconoscendo nella morta la moglie di Fosco, aveva capito subito, inorridita, che le cose si erano spinte troppo oltre.
“Sono sicura che ha ucciso sua moglie non perché fosse un ostacolo, ma perché pensava che questo suo dono mi avrebbe dato un immenso piacere”.
Pontano rimase basito. Lei fece un grandissimo respiro. “Per questo sono venuta subito da lei, commissario”, e chinò il capo.
“Béh, proprio subito no.” puntualizzò lui, schiarendosi la gola.
“Ero sconvolta… Mi creda, Dottor Pontano, dovevo prima ritrovare il mio equilibrio”. Inspirò ed espirò, poi tornò a guardarlo intensamente. A voce bassa gli sussurrò: “Non sono più una ragazzina… quanti anni crede che abbia?”
La storia dei due amanti riuscì a offuscare perfino il ritrovamento del Cézanne autentico. Tre giorni dopo, Monsieur François Pillon, rinomato studioso francese ed esperto d’Impressionismo, telefonò da Parigi a Davide Tatorino per ricevere maggiori dettagli da questo suo “Autorevole Collega”.
Il quadro che misurava 30x38 cm, risultò a un esame più approfondito quello che Tatorino aveva immaginato: una prova eseguita da Cézanne, di media fattura, realizzata prima di dar vita a quel: “Zuccheriera, pere e tazza blu” conosciuto da tutto il mondo.
In mezzo a tutto quel trambusto di amore, morte, e quadri famosi, il nome di Achille Emperaire non apparve che un paio di volte su qualche giornale francese. Poi, ricadde nell’oblio.
*
Parigi, 1866.
Achille Emperaire prese la sua scatola dei colori, la maggioranza dei quali erano secchi o finiti. Gli erano rimasti soltanto tre colori che da quando erano saltati fuori gli Impressionisti, nessuno sembrava usar più.
Il nero, il terra di Siena bruciata, il giallo di marte, e quel poco di bianco che gli rimaneva.
Trovò anche un vecchio tubetto della ditta Lefranc & Bourgeois, per fare il color carne. Un “rose doré”.
Con la testa ancora offuscata dal vino prese una decisione repentina: il ritratto di Madame Tusseau, l’avrebbe realizzato sopra al quadro del suo amico Cézanne.
Gli dette un’ultima occhiata dubbioso perché il formato era terribilmente piccolo per un grandioso pegno d’amore che avrebbe dovuto impressionare la gigantessa, ma sentiva che quello era il momento giusto, l’attimo che non poteva lasciarsi sfuggire.
Guardò quelle pere e la tazza blu:
“Gli farò soltanto del bene a coprire questa schifezza” disse, barcollando. “Sembra che quel ragazzino non abbia mai preso il pennello in mano!”
Rabbioso, com’era anche il suo stile di pittura, ci dipinse sopra la gigantessa, nuda, distesa su un lenzuolo.
Un’ora dopo il quadro era terminato.
Seduto per terra, sudato, sporco di colore, e ancora mezzo-ubriaco, lo guardò e lo giudicò come tutte le opere da lui fatte fino a quel momento: mediocre.
La donna aveva la testa piccola e le cosce gigantesche, e se ne stava distesa su un lenzuolo che sembrava sporco…
Lo firmò tutto di sbieco. Sapendo che non sarebbe mai interessato a nessuno.
FINE.
© 2008 - Massimo Cavezzali e Sauro Ciantini
http://davidetatorino.blogspot.com
I libri “I casi di Davide Tatorino” intitolati:
Una busta per Grace e La collana di pulcini d’oro,
sono editi in Italia da Neftasia Editore.
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