Parigi 1866
Achille Emperaire entrò nel suo studio imprecando contro tutto e tutti. Erano tre settimane che non riusciva a vendere un solo quadro e non aveva più un soldo. Gli ultimi centesimi li aveva gettati via in un vino schifoso, bevuto a un tavolino de “La Rotonde” di Madame Tapié, da solo, cercando di farsi passare l’angoscia.
Rise, perché adesso, da ubriaco, la situazione gli sembrava addirittura più disperata.
Si scrutò nel grande specchio appoggiato per terra e vide riflesso quello che ci vedeva sempre: un nano, con la testa da idrocefalo, dentro una ridicola giacca di velluto verde, di quelle col bavero.
Si disse da solo quel “Bas de cul ” che gli gridavano sempre dietro i suoi amici artisti giù a Batignolles, per prenderlo in giro, poi sferrò un calcio rabbioso alla scarpa di raso rosso rimasta abbandonata per terra da chissà chi.
Con le guance infuocate e la testa in fiamme, spostò lo scaleo che gli serviva per raggiungere gli sportelli alti della credenza, prese la sedia alla quale aveva dovuto segare le gambe per non saltarci sopra ogni volta, come una scimmia del Circo, e ci appoggiò il “gran dono” che gli aveva appena rifilato il suo amico Paul Cézanne.
Una natura morta: una zuccheriera, delle pere, e una tazza blu.
Era andato a chiedergli un prestito nel primo pomeriggio e quel bastardo di ragazzino glielo aveva rifiutato, giurando di essere rimasto anche lui senza più un franco, quando, proprio il giorno precedente, era riuscito a vendere quattro suoi disegni a Camille Pissarro.
Emperaire l’aveva saputo per caso, dal vecchio Léon, uno dei camerieri che lavoravano al Café Guerbois.
“Menteur !” sbottò, geloso anche del fatto che quell’ebreo lo avesse preso così in simpatia.
Pissarro riteneva Paul Cézanne un “selvaggio raffinato” e intuendone le grandi capacità, si era messo a difenderlo pubblicamente, accusando i collezionisti che lo snobbavano, ma soprattutto quelli che non lo compravano, di essere solo dei “poveri insensibili”.
Paul però se ne fregava. “Non lavoro certo per raggiungere l’ammirazione degli imbecilli!” tuonava, certo del proprio indiscusso valore, calcandosi in testa il ridicolo cappello a cono che usava sempre quando dipingeva.
Achille Emperaire invece non era più certo di nulla, se non di trovarsi sull’orlo di un baratro, e quello stramaledetto ragazzino anziché aiutarlo, prestandogli qualche decina di franchi, gli rifilava un quadro.
“Portalo al negozio di Peré Tanguy “ gli aveva detto con quel suo fare burbero ma tranquillo, non rendendosi conto di quanto la situazione fosse disperata, “vedrai che il vecchio bretone ti darà sicuramente in cambio una o due tele e magari qualche tubetto di colore.”
Il vecchio bretone era Julien Tanguy, chiamato da tutti Papà Tanguy, che possedeva una misera botteguccia in Rue Clauzel a Montmartre ma soprattutto aveva un cuore grande come una casa. Per questo accettava quadri e disegni dai poveri cristi del quartiere, in cambio di tele nuove e di colori ad olio, affinché tutti potessero continuare a dipingere.
“Se no, puoi sempre provare a venderlo per conto tuo.”
Il povero Emperaire aveva evitato di rispondere a quell’orso. Come se fosse una cosa facile riuscire a vendere un suo dipinto.
Si sentì terribilmente confuso: in quel momento odiava a morte Paul ma gli voleva anche un gran bene, erano amici e quello scorbutico signorino di campagna, malgrado in quel momento non avesse capito nulla della sua tragedia, gli era molto affezionato.
“Un giorno di questi, caro il mio Empereur, ti farò un ritratto che ti renderà famoso per l’eternità”.
Paul amava giocare sull’assonanza tra Empereur, imperatore, e il cognome Emperaire.
“Sarai magnifico come Napoleone sul trono imperiale fatto da Ingres!”
Achille, l’Imperatore, prese una bottiglia vuota dalla cesta che usava per la legna, la pulì con la manica della giacca e ne scrutò bene il fondo, poi chiuse gli occhi e dette una sorsata all’aceto che vi era rimasto. Sputò, tossendo e maledicendo la sfortuna che continuava a perseguitarlo: per la prima volta gli si presentava una grande occasione e, per colpa di pochi schifosissimi franchi, rischiava di perderla.
Bestemmiò il cielo perché in tutti i modi, doveva trovare una tela di grande formato e dei tubetti di colore nuovi! In più, aveva bisogno di qualche soldo per tagliarsi i capelli, mettersi a posto barba e baffi, e far lavare i vestiti.
Madame Tusseau lo stava aspettando. Le aveva promesso un grandioso ritratto a olio, assicurandole che glielo avrebbe consegnato lui stesso, di persona, e non poteva rischiare di fallire.
Lei era una delle tante dame dell’alta società che amavano frequentare la bottega di Charles Suisse, in cerca di giovani pittori con i quali potersi trastullare.
Una donna dalla stazza imponente: molto grassa, molto superba e, soprattutto, molto ricca.
La gigantessa era rimasta colpita da alcuni suoi quadri e si era informata su chi fosse quell’artista, lodandone impeto e foga pittorica, chiedendo subito a Charles di poterlo conoscere.
Il nano imperatore era corso immediatamente ma senza farsi troppe illusioni però, immaginando come sarebbe andata a finire appena lei lo avesse visto di persona.
Ormai era abituato a leggere la delusione negli occhi delle donne e ci aveva fatto il callo.
Lei, invece, lo aveva guardato con grande interesse, senza nascondere una certa maliziosa curiosità.
A Emperaire non era sfuggito quel lampo nei suoi occhi verdi e, preso dall’eccitazione, le aveva promesso “Il più grande quadro che avesse mai realizzato!”.
L’avrebbe ritratta nei panni di Astarte, dea della fecondità e del piacere sessuale.
Un’Opera sublime, voluttuosa e spudorata: un quadro “immortale” che avrebbe provveduto a consegnarle lui stesso nella sua residenza di Beaumont.
Lei, con gli occhi socchiusi, il pallore velato di rosa, aveva mormorato: “L’aspetto.”, accennando un sorriso complice.
Il nano imperatore si era infiammato correndo via alla ricerca disperata di un prestito.
Ancora stordito dal vino e in preda all’ansia, adesso stava rovistando tra la spazzatura ammucchiata nel suo studio come un cane affamato. Sentiva che doveva realizzare subito, in quel preciso momento, il suo quadro, anche se le tempie gli pulsavano e la testa vomitava fiamme.
Non ne poteva più della miseria, della fame, di vivere come un topo di fogna, quella vita bohémien andava bene per i giovani come Paul, ma lui aveva già trentasei anni, si sentiva vecchio, e quella gigantessa rappresentava la sua unica salvezza.
Bestemmiò perché in quella stanza maledetta non aveva assolutamente nulla su cui dipingere. Allora, prese a calci tutto quanto e poi urlò, cieco dalla rabbia e dalla disperazione.
*
Arezzo, un giovedì sera di aprile.
Davide Tatorino spense la sigaretta ed entrò dentro la libreria “Il ciliegio”. L’invito che gli aveva spedito Bianca Milani, responsabile degli eventi, lo informava che alle ore 21, per “i giovedì de Il giardino dell’Aiku”, ci sarebbe stata una performance con la poetessa Selma Cunningham.
Raffaella non aveva potuto accompagnarlo, corsa d’urgenza al capezzale della sua amica Marcella che si era appena lasciata col suo uomo.
Tatorino sospirò, guardandosi intorno alla ricerca della testa brizzolata della Bianca Milani.
La vide impigliata in mezzo a un serrato gruppo di fan che stavano circondando l’imponente poetessa americana. Tatorino non l’aveva mai incontrata di persona ma ne conosceva però aspetto gigantesco e grande fama.
Appena gli aironi davano inizio alla loro migrazione stagionale, anche la poetessa lasciava la California per volare nella sua casa colonica di Poggiofiorito, comprata alcuni anni prima, dov’era solita trascorrere tutte le sue estati. Adagiata sulle belle colline intorno al lago di Montedoglio, vicino San Sepolcro, in provincia di Arezzo.
Appena lei entrava in casa e spalancava tutte le finestre, -come allo scoccare dell’ora X-, i giornali locali cominciavano a pubblicare notizie sulla sua vita, riportando le recensioni entusiaste della sua ultima performance di poesia sonora registrata insieme al compositore Bruno Dejarnac, a Parigi, o sulla raccolta di poesie “Ogni nuovo amore è conoscenza”, tradotta e pubblicata in Italia dalla casa editrice Collesereno di Perugia.
Poi veniva il turno del paginone domenicale, in genere riservato a una delle storiche serate di poesia avvenute gli anni precedenti, lì nei dintorni, come quella nel fiabesco Castello di Valenzano, a Subbiano, che aveva richiamato perfino dagli Stati Uniti una troupe inviata dalla NBC TV di San Diego e che ancora e distanza di due anni faceva ribollire il sangue a moltissime persone. Un evento rimasto memorabile anche sotto il punto di vista meteorologico perché mai “Poesia magnetica” era stata così magnetica e immersa in un campo elettrico così intenso, attraversato da continui tuoni lampi fulmini e saette.
Mentre i sei registratori Korg ripetevano all’infinito la parola “für immer”, con i suoni concreti registrati dall’Ensamble Svjatoslav Richter diretti da Gemma Grünager, la poetessa aveva raggiunto il centro del palco e cominciato a elencare una lunga lista di nomi: una specie di Giudizio Universale tutto al femminile. Richiamando lì, per quella serata, una a una tutte le grandi Poetesse che avevano arricchito la nostra Storia.
Saffo… Erinna… Anite… Nosside… Li Quingzhao… Mirabai… Quando alla fine il temporale aveva raggiunto il castello, sovrastando minaccioso il palco e la folla di spettatori, appena erano cominciate le grida e il fuggi fuggi generale, lei, inaspettatamente, ferma al proprio posto, si era tolta l’auricolare e il microfono, chiuso gli occhi e buttata indietro la testa.
La pioggia aveva cominciato a colpirle subito il viso, la massa incredibile di quei suoi capelli fluorescenti, le spalle, ma soprattutto la lunga tunica che goccia dopo goccia si era trasformata in una seconda pelle: una guaina color salmone che aveva immediatamente paralizzato tutta la popolazione maschile. Rivelando un corpo dalle forme più incredibili di quelle immaginate da chiunque: seni spropositati e glutei così enormi e monumentali che tutti smisero all’istante di scappare, di gridare e di spintonarsi, restando immobili sotto quella pioggia fitta e sferzante, con occhi e bocca spalancati.
Una visione talmente potente che li fece precipitare indietro di milioni d’anni d’evoluzione, risvegliando in giovani e vecchi, lo stesso medesimo istinto: un desiderio primordiale e famelico, per tutta quella quantità di carne.
Una voglia animale mille volte più intensa e profonda di una semplice attrazione fisica.
Anche le televisioni presenti e tutte le prime pagine dei giornali, l’indomani, scelsero come apertura proprio quell’immagine incredibile di lei, la Grande Madre, arcaica dea dell’amore e della fecondità, in grado di partorire l’intera discendenza umana.
Tatorino si riebbe. Cercò aiuto in tutta la sua capacità raziocinante: convenne che la gigantessa possedeva indubbiamente qualcosa di speciale, e fosse in grado di produrre una magia.
Avvolta nel bagliore di quella massa di capelli arancioni, investiti dalla luce dei suoi occhi verdi, intrappolati dal magnetismo di quel suo modo intenso di sorridere, venivi prima stordito dal vigore di quei seni ancora così pieni e gonfi, e poi cotto a puntino dal calore che emanava quella sua pelle ambrata, adornata di un’intera galassia di efelidi.
Malgrado che le sue tanto decantate rotondità, viste così dal vivo, risultassero ben diverse da quelle trasmesse in mondovisione, forse perché non più tonificate dalla pioggia gelida di quella sera, Tatorino, incuriosito, rimase a osservarla discutere: ora turbinante ed esplosiva, ora fraterna e Sacerdotale poi, quieta e rilassata, senza mai smarrire di pienezza e intensità.
Un essere in continua e perenne trasformazione: leggera, effervescente, eccitata come una ragazzina, con gli occhi rilucenti e traboccanti di vita. Di fronte a lei, ogni uomo doveva sentirsi come davanti a Medusa, vittima di un fascino mortale!
Tatorino si guardò intorno preoccupato: constatò, con lieve sgomento, di essere l’unico essere umano presente in quella libreria, a possedere un cromosoma Y.
“Grazie di essere venuto” gli belò accanto la Bianca Milani, richiamandolo alla realtà.
Avvolta in un golfettino leggero color prugna e pantaloni beige, gli sorrise inclinando di lato il capo incorniciato da un taglio di capelli corti e di uno strano color piccione.
“Mi dispiace tanto che Raffaella non sia potuta venire ” disse, dolente, poi gli sistemò la cravatta di Emilio Pucci con tocco da farfalla indecisa.
“Ho dovuto mandare a prendere altre sedie ” sussurrò, turbata per tutta quell’affluenza che invece avrebbe dovuto rallegrarla, e si guardò intorno con preoccupazione.
“Vedrai che sarà una bellissima serata” disse Tatorino sfoderando tutto il suo ottimismo.
La Poetessa rise in quel momento, ancora una risata gioiosa, potente, stracolma di vita.
La Bianca Milani però non ne restò contagiata, anzi, dondolò più sommessamente il capo, arresa al fatto che malgrado le molte precauzioni prese, come quella l’aver organizzato la serata per sole donne, nel tentativo di fermare i galli e galletti che sarebbero tutti corsi lì e non certo perché amanti della poesia, e piazzata all’ingresso un Cerbero come la Elisabetta Weber, qualcosa di terribile sarebbe ugualmente successo
Ormai c’era baruffa nell’aria, e questo fin dal giovedì precedente, quando sul Corriere di Arezzo era comparso all’improvviso un titolo che strepitava: “Selma Cunningham lascia per sempre la Toscana!”.
L’articolo, a firma di Ivan Ceccarelli, rivelava che un destino infame e senza cuore, aveva voluto che le venisse assegnata in forma definitiva, la Cattedra di Vocalità al Centro di Musica Sperimentale “John Cage”, presso l’Università di San Diego. Quindi, anche se a malincuore, quell’estate sarebbe stata l’ultima che avrebbe trascorso nella sua bella casa di Poggiofiorito.
Selma, visibilmente turbata, confidò al povero cronista -stordito anch’esso per quella notizia-, che l’Italia le sarebbe mancata immensamente e ammise, quasi con le lacrime agli occhi, che il segreto della sua grande vitalità e giovinezza risiedeva proprio in questi lunghi mesi trascorsi così felicemente in Toscana… “Cosa bella e mortal passa e non dura” disse, citando uno dei suoi poeti preferiti, il Petrarca.
Manifestò al Ceccarelli l’intenzione di trascorrere quell’ultima estate appartata e tranne la serata promessa alla libreria “Il ciliegio”, non avrebbe più fatto né spettacoli né performance.
“Vorrei restare quassù, dedicandomi a questo luogo…”
Cercando di assorbirne tutti gli odori che rendevano così unica quella terra: il cerfoglio, la lavanda, il timo, la salvia e il rosmarino, il profumo intenso delle ginestre fiorite e dei glicini, quello pieno e rotondo delle sue belle rose rampicanti.
Avrebbe trascorso questi ultimi mesi così, accumulando ricordi, fermandoli nel proprio cuore, scrivendo e pensando a cosa avrebbe potuto portar via con sé per ricordare questo pezzo d’Italia che aveva così tanto amato.
Ivan Ceccarelli confessò spudoratamente nel suo articolo, di averle chiesto se poteva essere lui quella cosa da portarsi via per sempre. La poetessa era scoppiata in una risata riconoscendo che: “Solo gli italiani sono capaci di pensare simili follie”.
Tatorino tornò sul volto della Bianca Milani e su quello sguardo da piccola fiammiferaia bastonata dalla vita, socchiuse le palpebre in segno di muto incoraggiamento, e la licenziò. Lei frusciò via: “Vado a salutare la Marta Verdelli” disse, e trotterellò raggiungendo la giornalista de La Repubblica, in cerca di un ulteriore conforto.
Lui, prima di iniziare il valzer delle Public Relations, preferì concedersi una breve pausa per indagare su cosa venisse servito da bere quella sera. Sul tavolino vide tre brocche di vetro contenenti tutte la stessa identica bevanda color sabbia al sole che, un biglietto scritto a mano con inchiostro lilla, informava essere una: bibita rinfrescante ai fiori di sambuco (acqua, sambuco, limone, aceto, riso integrale, zucchero di canna).
La ragazza che stava servendo gli versò subito un bicchiere di quell’ambrosia dissetante. “Vuole che le metta anche una fogliolina di menta?”. Tatorino esitò, non sapendo bene cosa risponderle. Ricambiò intanto il sorriso che lei interpretò come un: sì, grazie, una foglia di Mentha Arvensis, sarebbe perfetta, e mentre gli guarniva la bevanda con tre foglioline color verde Veronese, da dietro, una voce maschile lo raggelò:
“Hai visto che petto gonfio? Sembra il fegato di un’oca di Strasburgo”
Tatorino si voltò sapendo già che si sarebbe trovato davanti la faccia da locusta di Ivan Ceccarelli.
Aveva i soliti occhialini rotondi appannati per la pressione sanguigna già alle stelle.
“Che roba, eh? Ogni volta che la vedo mi diventa duro come il sasso spicco de La Verna!”
Tatorino, imbarazzato, guardò in direzione della ragazza che gli aveva appena servito da bere ma lei, per fortuna, si era voltata e stava raccontando a una sua amica delle proprietà miracolose della sommità fiorita dell’Iperico.
Il Ceccarelli seguitò a ragliare scrutando la gigantessa. Disse che aveva promesso un bell’articolo alla Bianca Milani, barattandolo con un ingresso a quella serata per sole streghe.
“Ormai è diventata un’ossessione” si lamentò, surriscaldato, “la sogno giorno e notte”. Incapace di toglierle gli occhi di dosso.
Si fece servire anche lui un bicchiere di quella roba, cercando di calmare i bollori. La bevve tutta d’un fiato ma fece una faccia schifata: “Non sarà mica diuretica?” si lamentò, guardando storto la ragazza, maledicendo tutti quegli intrugli d’erbe. Si aggiustò la camicia verdolina che portava infilzata dentro i jeans, allentò il nodo di una cravatta così dozzinale che non l’avrebbe comprata neanche l’ingegner Carlo Emilio Gadda e, dopo averlo salutato, partì verso la poetessa a capo basso, col testosterone oltre i limiti consentiti dalla legge.
Tatorino, a disagio come un biscotto in una pasticceria, attese qualche minuto poi si decise ad avvicinarsi anche lui, alla poetessa.
“Vorrei farle conoscere un amico e anche un bravo Critico d’Arte” disse la Bianca Milani, presentandolo.
La gigantessa, che lo sovrastava di almeno 9 centimetri, gli sorrise stirando quelle sue labbra sensuali color rosso Alkermes, e gli strinse forte la mano, facendo tintinnare i braccialetti che l’adornavano come la regina di un caravanserraglio.
“Mi dica, per favore, che almeno lei conosce Demetrio Stratos” esordì subito, “perché qui sembra che non lo ricordi più nessuno!”
Tatorino sorrise imbarazzato. Rammentò vagamente quel nome, associandolo a un vecchio gruppo musicale degli anni ’70 chiamato Area, uno di quelli che ascoltava suo fratello Umberto.
“Il suo disco Metrodora resta ancora uno dei più stupefacenti studi sulla vocalità” continuò lei, sinceramente sbigottita di constatare che nessuno aveva minimamente idea di cosa stesse parlando.
Delusa, prese sottobraccio i due unici maschi presenti e se li portò via di peso, diretta al tavolo delle conferenze, situato in fondo alla sala.
Ivan Ceccarelli si abbandonò molto volentieri a quel fiume in piena, immaginando tutta quella forza e vigore trasformati in energia sessuale.
Si sedette vicino a lei, completamente succube e frastornato dal profumo che lei gli confidò in un orecchio, essere il Black Orchid di Tom Ford.
“Mi piace perché è selvaggio” gli bisbigliò, porgendogli lo sterminato decolté affinché lui lo odorasse meglio. “Dolce ma fortissimo… non sente l’orchidea? E il tartufo?”
Tatorino si sedette dall’altro lato, stordito anche lui da quell’effluvio.
Bianca Milani guardò l’orologino che le sguazzava al braccio e, con la solita voce spaurita, chiese gentilmente a tutte le presenti di mettersi sedute e di fare silenzio, poi, come recitando una litania, cominciò a illustrare la sterminata biografia di Selma Cunningham,dai suoi esordi con la poesia concreta, fino al tentativo di dar vita a “una nuova poesia carnale”.
“Il sogno di Selma”, terminò con tono tremulo, “è di far parlare quelli che lei chiama i luoghi dell’accoglienza femminile: il ventre e la vagina”. Poi informò che la piccola conferenza sul tema: mogli, madri, etere e sirene, immagini femminili nell’iconografia greca su dipinti, sculture e vasi in ceramica, a causa di un’imprevista indisponibilità della Dottoressa Cristina Agostini, sarebbe stata tenuta dal Dottor Davide Tatorino.
Lo ringraziò pubblicamente, la platea applaudì, la gigantessa si alzò e ringraziò a sua volta la Bianca Milani, sorridendo alla sala incredibilmente gremita.
“Della voce” cominciò, nel suo italiano quasi senza inflessioni, “se ne parla spesso come di uno strumento, ma uno strumento si può chiudere in una custodia e metter via, addirittura dimenticarlo in un armadio, mentre la nostra voce, al contrario, nasce, vive e si modifica insieme a noi… è noi…”
La ragazza, seduta dietro il tavolo della conferenza, mise la cuffia e accese la consolle che comandava un piccolo registratore digitale e tre proiettori di diapositive, posizionati su un lato della sala.
“C’è stato un tempo in cui sapevamo creare suoni così complessi da possedere anche noi un canto d’amore come quello delle balene…”
Le luci si abbassarono fino a spengersi del tutto. “Pensate al pianto di un bambino appena nato, a quante cose può contenere: fame, sete, paura, dolore, voglia di essere abbracciato e consolato…“
“Per le nostre orecchie quel pianto è un semplice vagito ma, per una madre attenta, racchiude un mondo infinito di emozioni, di messaggi, di piccoli segnali indispensabili alla sopravvivenza del bambino”.
In quel momento iniziò la performance: un lungo e melodioso suono come quello di un flauto, uscì dalla bocca della poetessa, un canto che sembrava provenire da un tempo molto lontano, una melodia comune a tutti i popoli della terra, composta di tre note soltanto.
A questo suono se ne aggiunse un altro, in un tono più acuto che tutti, lì sul momento, pensarono fosse registrato: com’era possibile che due suoni così diversi potessero nascere, nello stesso istante, dall’ugola di un’unica persona?
Quando ne sopraggiunse un terzo: un sibilo, il canto di un uccello sconosciuto, che andò a sommarsi agli altri due, la platea rimasta fino a quel momento in silenzio, si lasciò sfuggire un: oh… di autentica meraviglia.
Le sorprese però non erano ancora terminate: un quarto suono, una nota bassa, un tono greve che sembrava contenere in sé una specie di frequenza magica, come una chiave incantata aprì una porta liberando un’incredibile cascata di armonici, un coro rarefatto e Celeste che avvolse tutta quanta la sala.
Sulle pareti della libreria apparvero proiettate delle immagini: diapositive di paesaggi, piante, animali… Un fluxus ininterrotto di informazioni trasportate a valle da quella ninna nanna che sembrava nascere dal luogo più dolce e sereno della terra: il grembo materno, e avvolgere tutti quanti in un abbraccio caldo e liquido.
In quella sala si ripeté il miracolo eterno di una madre che, con il canto, trasferisce nel proprio figlioletto serenità e conoscenza del mondo. Tutti quanti la percepirono: era lei, mentre lo metteva in guardia, era lei che lo aiutava e lo consolava, confortando anche se stessa del fatto che presto lui avrebbe dovuto allontanarsi, separarsi da quelle sue cure amorevoli e incamminarsi.
Per circa venti minuti, l’intera platea rimase rapita e assorta.
Tatorino, immerso anche lui in quell’oceano, venne richiamato in superficie da un bisogno altrettanto primordiale: la voglia di fumare e, a rischio di passare per un insensibile, con passo lesto ma silenzioso da vecchio giaguaro, si alzò dal tavolo e approfittando della penombra raggiunse velocemente il fondo della sala.
Una signora ritta in piedi contro il muro, dopo l’ultima fila di sedie, con una buffa pettinatura anni ’60, ritrovandoselo davanti all’improvviso ebbe un sussulto, spaventata. Abbassò il capo e si asciugò gli occhi con un fazzolettino, come vergognandosi della sua commozione.
Tatorino borbottò delle scuse e tirò in lungo, entrando velocemente in bagno, e chiudendosi dentro. Si accese la sigaretta e sospirò, mettendosi a fissare le mattonelle rosa, come davanti al più meraviglioso dei tramonti.
Oltre la porta, Selma Cunningham continuò con i suoi vocalizzi e poi lesse alcuni versi, tratti dal suo ultimo libro, fino a quando tutti i suoni s’interruppero e la voce flebile della Bianca Milani, riuscendo incredibilmente a oltrepassare la porta del bagno, informò le Gentili Spettatrici che la poetessa avrebbe patto una breve pausa al fine di far riposare la voce.
Si sentirono le sedie smuoversi, qualche colpo di tosse. Tatorino finì in fretta la sua sigaretta, aerò bene la stanza aprendo la piccola finestrella con la grata e, quando il fumo se ne fu andato, uscì, cercando di avere un’aria disinvolta.
In quel momento un grido improvviso lacerò l’aria provocando prima un silenzio attonito e poi un immediato effetto valanga che generò altre urla, grida e frasi concitate, come se una nuova performance fosse appena iniziata.
Tatorino si affacciò preoccupato alla saletta: le spettatrici erano tutte in piedi ai lati della stanza, atterrite, con gli occhi fissi sul corpo di una donna riverso di lato, in una delle ultime sedie.
La Bianca Milani gli corse subito incontro:
“Ma dov’eri finito?” disse, sconvolta, afferrando e tirandogli una manica della giacca. “La Cinzia Torrigiani era… era seduta accanto a lei” balbettò, “ha pensato che si fosse sentita male ma… ma…” si mise a tartagliare incapace di terminare quella frase.
Anche la gigantessa era sbiancata. Ivan Ceccarelli si fece avanti e disse: “Chiamate la Polizia e che nessuno tocchi niente!”, incredulo per la botta di culo che gli stava capitando, pregustando già l’articolone che l’indomani, a titoli cubitali, avrebbe campeggiato in prima pagina.
La gigantessa fu colta in quel momento da un malore. Lui, prontamente, l’agguantò per tentare in qualche modo di sorreggerla, come se quella cosa fosse umanamente possibile.
Arezzo, venerdì mattina.
Il commissario Pontano lo svegliò.
“Mi ascolti.” disse, sempre ruvido come la pelle di uno squalo. “L’aspetto nel mio ufficio a mezzogiorno.” e buttò giù.
Tatorino biascicò qualcosa come: non sono ancora le sette, e pensò che quell’uomo era matto.
La Polizia aveva trattenuto tutti quanti nella libreria fino alle due di notte, impedendo qualsiasi telefonata e, quando lui finalmente era riuscito a tornare a casa di Raffaella, lei era ancora sveglia ad aspettarlo. Ovviamente preoccupata.
Solo verso le quattro aveva preso sonno, con lo stomaco che gli rumoreggiava per le sigarette e l’agitazione. Riappoggiò il cellulare sul comodino e nel limbo sentì il corpo di Raffaella avvicinarsi.
“Devo alzarmi…” le disse.
“Anch’io.” fece lei, in tono molto più deciso, abbracciandolo da dietro. Quell’improvviso contatto con un corpo così morbido, caldo e fresco nei punti giusti, fece precipitare Tatorino in un sonno ancora più profondo. Fu risvegliato solo dal suono insistente di un clacson che proveniva dalla strada. Si accorse allora che Raffaella non era più a letto. La chiamò, pensandola in bagno, ma poi vide l’ora e subito si alzò.
Vagò per qualche minuto assonnato, impedendosi di accendere una sigaretta. Sul tavolo di cucina notò un biglietto: se dopo aver fumato, dimentichi un’altra volta la portafinestra del terrazzo spalancata, mi arrabbio.
Decise che avrebbe preso il caffè al bar, malgrado che sul fornello ci fosse appoggiata la Moka già pronta.
Pensò che se mai avesse dovuto cambiare idea, quella, era la donna giusta.
Sicuramente non la più facile e accomodante, ma la più adatta.
Le campane della Cattedrale di San Donato erano sul punto di rintoccare mezzogiorno e una bella brezza primaverile accompagnò l’ingresso di Tatorino nel corridoio che portava all’ufficio del commissario Pontano.
L’agente Mattei stava sgranocchiando un quarto di finocchio crudo, seduto a una scrivania nel corridoio. Tatorino lo salutò sorridendogli, lui sollevò le sopracciglia aspettandosi qualche battuta, ma Tatorino gli chiese soltanto se il commissario era libero.
“E’ il mio pranzo” si giustificò ugualmente Mattei, “mia moglie è a dieta e ha messo a dieta anche me” e fece una smorfia arresa. Lo informò che il commissario era occupato: “Sta interrogando una signora” e riprese diligentemente a sgranocchiare con occhi tristi.
Tatorino si sedette su una delle vecchie sedie di legno appoggiate contro il muro e tirò fuori di tasca un foglio, una e-mail che gli avevano inviato i tre figli del defunto notaio Barbantini di Bibbiena, per finire di leggerla con attenzione, ma la porta del commissario si aprì in quel momento e ne uscì una donna, con il viso tirato e l’espressione triste.
Lui si alzò, mise via l’e-mail, attese educatamente che la donna richiudesse la porta, e le accennò un piccolo sorriso per tutto quel dispiacere così evidente. Lei mosse il capo per ringraziarlo di quella gentilezza, sospirò, poi si avviò a capo basso verso l’uscita.
Era la donna che Tatorino aveva visto in piedi in fondo alla sala della libreria, quella con la pettinatura anni ’60, una delle due o tre fuggiasche che appena scoperto il corpo della donna morta dovevano essere fuggite via terrorizzate. Durante l’interrogatorio notturno dell’Ispettore Nardi non aveva più visto né lei, né una bella signora di carnagione olivastra che vestiva degl’incredibili leggings color fuxia, una maglietta bianca lunga quasi fino alle ginocchia, e degli stivaletti bassi, come se fossimo ritornati in pieni anni ’80.
Guardò la donna con la stramba pettinatura alla Mary Quant, percorrere il corridoio e scendere le scale. Se non fosse stato per quel taglio assolutamente impossibile da dimenticare avrebbe detto di conoscerla già. A quanto sembrava, con l’alba, svanito il terrore, aveva deciso di ritornare sui propri passi e venire a testimoniare…
Bussò alla porta del commissario pensando ancora alla donna.
“Avanti! Prego!”, vociò Pontano, esattamente come lo avrebbe fatto Polifemo da dentro la propria caverna.
Tatorino fece capolino. Il commissario Pontano stava in piedi, con le spalle alla grande finestra, e la sua mole massiccia ne oscurava quasi tutta la luce.
Fine prima puntata
© 2008 - Massimo Cavezzali e Sauro Ciantini
http://davidetatorino.blogspot.com
I libri “I casi di Davide Tatorino” intitolati:
Una busta per Grace e La collana di pulcini d’oro,
sono editi in Italia da Neftasia Editore.
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