Anche gli agenti di assicurazioni, a volte, hanno un’anima. Jeon Jun-oh (Hwang Jung-Young) è uno di questi. Il fatto di avere un’anima che anela al bene (quello dei clienti per intenderci…) è uno dei motivi per cui Black House, di Shin Terra, assume ben presto le forme della classica discesa all’Inferno da parte di chi poco o nulla intuisce dei pericoli del mondo e che nella fattispecie hanno le fattezze di una giovane donna, claudicante e alquanto misteriosa, che si dedica alla puntuale eliminazione dei mariti per poter incassare il premio assicurativo precedentemente stipulato.
Da che parti siamo? Più sul versante horror, tipo Non aprite quella porta, che su quello noir (che so, La fiamma del peccato…), con la casa dell’assassina, il cui scantinato è una galleria degli orrori, che segue la classica regola per cui l’assetto mentale disturbato della persona si riflette nell’ambiente in cui vive.
Tre finali, “infilati” l’uno dentro l’altro, conferiscono al film un’aura di immortalità che appare un po’ fastidiosa chiedendo allo spettatore più di quello che è disposto a concedere.
Nel bene o nel male Black House un merito ce l’ha: segnare il ritorno nelle sale del cinema coreano, oramai sparito da un bel po’…
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