Tre piccioni con una fava…
Di solito con una fava si prendono due piccioni ma con L’isola dei delitti di Agatha Christie, Hake Talbot e Roy Vickers, Mondadori 2008, se ne prendono addirittura tre: due romanzi ed un racconto. E a poco prezzo. Di isole la nostra (e l’altrui) letteratura è piena. Di tutte le specie. Che sia quella del tesoro o misteriosa o di Arturo (grazie Morante) non importa. Sempre isola è. E di isole è pieno il giallo (inteso in senso lato). E qui ne abbiamo una riprova.
Più precisamente in Dieci piccoli indiani della divina Agatha. Un mito. Non sto a farla lunga. Otto persone che non si conoscono fra loro sono invitate a trascorrere l’estate in una villa di Nigger Island (ecco la nostra isola) non lontana dalle coste del Devon in Inghilterra. Qui trovano il maggiordomo e la cuoca ma non il padrone che manca per motivi poco chiari. Sopra il camino delle camere c’è la famosa filastrocca “Dieci poveri negretti…”. Infine una voce registrata su un disco accusa tutti di essere degli assassini impuniti. E da qui inizia l’altrettanto famosa sequenza di morti.
L’isola “A nord ovest, verso la costa, le rocce piombavano a picco sul mare, con la superficie perfettamente liscia. Sul resto dell’isola, non c’erano alberi e c’era ben poco che potesse servire da riparo”. “Un mondo, forse, dal quale non si poteva tornare indietro” scrive la Christie. Se a questo si aggiunge lo scoppio di una tempesta…
Continuiamo con Terrore nell’isola di Hake Talbot. E anche in questo caso si fa presto perché è un classico ben conosciuto. E dunque c’è Nancy che si sveglia e non si ricorda di niente. O meglio si ricorda di essere nella casa di Frant, il padrone, ma che gli ospiti ed i domestici sono tutti scomparsi. E allora incomincia a cercarli insieme a Rogan Kincaid, una vecchia conoscenza apparsa improvvisamente. Inizio alla grande. Il problema è che Frant è morto dopo una maledizione del fratello Evan. Così in un secondo. Nascono i dubbi. Morto per la maledizione o avvelenato? E in che modo può essere stato avvelenato? E perché non pensare al suicidio? Ma il corpo del morto al quale è stata tolta la pelle dei polpastrelli è proprio quello di Frant? E perché è in evidente stato di putrefazione? E così di seguito fino allo spappolamento del cervello del lettore.
Sull’isola chiamata Kraken, non c’è molto da dire. A parte il fatto che il nome si riferisce all’antica leggenda di un mostro enorme che poteva ingoiare navi per intero e trascinarle nella sua tana (e già questo non tranquillizza affatto). Ha un “profilo bizzarramente roccioso contro la linea bassa della costa, distante meno di mezzo chilometro”. E fuori infuria il solito uragano…
E così si passa al lungo racconto di Roy Vickers L’unico superstite che ricalca un po’ il romanzo dell’Agatha con l’eccezione del naufragio. Sempre su un’isola, si capisce. Chi racconta la storia attraverso un “affidavit” è il prof. William Edward Clovering. Il naufragio è della Marigonda con carico e cinquanta passeggeri provenienti dal Capo di Buona Speranza e diretti a Londra. Si salvano sette uomini su una scialuppa e, come era già capitato al nostro Robinson Crusoe, possono ricavare da vivere per un bel po’ attraverso carico di viveri e attrezzi tratti dalla Marigonda non completamente affondata.
Si salvano per modo di dire che uno dopo l’altro ci lasciano le penne, colpiti in testa da un arnese che può benissimo essere un martello. Angoscia, paura, sospetto. Chi è l’assassino? Uno di loro o un estraneo che si aggira sull’isola?
La quale isola è a forma di triangolo scaleno, piccola ma scorbutica, nel senso che ha i lati più o meno scoscesi sul mare, vasche di cemento in rovina, un massone alto tre metri detto il “Bernoccolo” e macigni e crateri a volontà. Insomma un’isola “orribile” a detta del nostro illustratore. Che può tranquillamente nascondere un selvaggio…
Alla fine del discorso un fatto è certo. L’isola, almeno nella fantasia letteraria, porta davvero sfiga!
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