La professoressa Olga Spinelli passeggiava sul lungomare con il bassotto al guinzaglio. Oltre la tenda verde, che separava la spiaggia dagli stabilimenti balneari, il sole morente inondava di arancione l'orizzonte lontano.
Mentre osservava la scia di un aereo che infilzava una nuvola, Olga non poté fare a meno di vagare con l'immaginazione, evocando dentro di sé il languore della Versilia dannunziana.
Ma il suo momentaneo abbandono letterario, frutto di anni di studio alimentati da un'indole sostanzialmente misantropa, fu bruscamente turbato dalle note di un altoparlante che, dalla piazza vicina, strillava una canzone con sguaiata allegria.
Un nugolo di ragazzini in maschera la sorpassò urtandola .
“Accidenti al Carnevale e a chi lo festeggia!”, si disse fra sé e sé e alla malinconia si unì una sorta di aspro rancore nei confronti di chi aveva ancora in mano le carte giuste da giocare nella partita della vita.
La professoressa Spinelli era troppo intelligente per non rendersi conto di avere sbagliato a non calare la briscola quando era ancora in tempo. Aveva preferito continuare a ricordare e a recriminare, e , invece di abbandonare quell' odioso atteggiamento di superiore distacco che la rendeva tanto invisa agli studenti e ai colleghi, si era chiusa nella sua solitudine. Una solitudine penosamente condivisa solo da Ugo, il bassotto che portava il nome di un poeta famoso, il quale, quanto a caratteraccio, non doveva essere stato da meno di lei. Ma almeno lui se l'era spassata e aveva vissuto abbandonandosi alle passioni più voluttuose.
Già, le passioni...
Una folata di vento le ferì gli occhi, senza riuscire a scompigliarle i capelli neri, imprigionati nel caschetto fuori moda, immobile come il suo impenetrabile sguardo da miope introversa.
Quel pomeriggio di febbraio, naturalmente avvolto in un'aura di declino, era in perfetta sintonia con il suo spirito pervaso da un’ acida mestizia . Nemmeno le pagine più struggenti dei suoi romanzi preferiti riuscivano a consolarla . Né tanto meno avevano il potere di stemperare la rabbia che la invadeva nei momenti in cui i ricordi tornavano a galla come vecchie boe mangiate dalla ruggine e abbandonate sulla spiaggia.
Eppure a vent'anni anche lei aveva assaporato il gusto degli appuntamenti furtivi. Anche lei aveva avvertito sotto la pelle il rimescolio dei sensi, fra un esame di filologia romanza e uno di glottologia.
In quei pigri pomeriggi fiorentini, nel calore insano di un treno stipato di pendolari o nel fervore giacobino di una manifestazione non autorizzata, Lui era apparso all'improvviso come un dio greco. Solo che, invece di una candida tunica, indossava un paio di pantaloni alla pescatora e una camicia rosa pastello, perfettamente intonata al foulard di seta, annodato intorno al collo.
Ad essere sinceri, la sua eleganza volutamente dissimulata, più che ad Apollo lo faceva assomigliare ad un cugino minore di Dorian Gray , ad un provinciale cultore di inutili sofismi, ad un esteta pallido e non ancora contaminato dalla prosaicità della vita quotidiana.
A lei, condannata dal Fato ad essere sempre la prima della classe e ad ignorare la trepida emozione di un compito copiato, Lui era sembrato un dono del cielo, speditole direttamente da qualche pietosa divinità perché infrangesse finalmente la sua algida perfezione.
Ma, dopo che i suoi sensi si erano risvegliati dall’innaturale torpore, una mattina di marzo, Olga era entrata, senza preavviso, nella camera ammobiliata del suo idolo...
Il sogno era improvvisamente svanito, quando lo aveva colto in atteggiamento affettuoso con un anziano scultore di Pontassieve.
Da allora aveva giurato a se stessa che non si sarebbe più fatta contaminare da nessun essere umano: si sarebbe rinchiusa nella sua torre d’avorio, concedendosi solo qualche fuga emotiva nelle pagine dei romanzi che tanto amava.
Ogni mattina, quando saliva metodicamente le scale del liceo classico nel quale insegnava da venticinque anni, il suo sguardo non poteva fare a meno di soffermarsi sul brutto quadro dipinto da un oscuro pittore del ventennio. La tela rappresentava una scena del “Trionfo della morte” Giorgio Aurispa, ossessionato dalla passione per l’amante Ippolita, la trascinava con sé nel precipizio, obbedendo ad un perverso impulso di morte.
La scena più che erotica era ridicola, tanto che uno studente aveva pensato di commentarla sul muro con il ritornello di una canzone in voga molti anni prima: “Stasera mi butto…stasera mi butto…mi butto con te…”
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