Così andai da Najat con Catia e dovetti sudare sette camicie perché la piccola si fidasse, lo sapevo che si sarebbe spaventata.

– È per domani alle undici di sera, giù, verso le fabbriche.

– Chi ci sarà? – chiesi. Conoscevo il posto, brutto e mal frequentato.

– Driss ha paura, credo ci saranno persone importanti.

– Allora, stiamo calme. Per prima cosa tu sparisci, vieni da me, da Emma, vai dalle suore, ma a casa non torni.

– Catia – le sussurrai, – non è una macchina che ha bisogno di un parcheggio, deve decidere lei.

Najat annuì, per strano che potesse sembrare, era d'accordo.

– Noi avvertiamo la polizia – mi zittì Catia con uno sguardo. – Se sono spacciatori di alto bordo è troppo pericoloso fare da sole.

Incredibile, anch'io ero d'accordo.

– Va bene, ma adesso leviamoci da qui che non sono niente tranquilla.

– Confermo – assentì Catia e salimmo tutte e tre sulla sua panda verde.

Le nove.

Guardavo i lampioni dalla finestra di casa mia e mi pareva di essere il negativo di Paddy che, qualche giorno prima, guardava la strada e il sole mentre gli chiedevo cose di cui non gliene importava un emerito niente e pensava a Fuad, ricucito dopo l'autopsia.

Io pensavo ad Andrea e al mio cuore dove c'era poco da ricucire e stavo così male che avrei potuto morire, male anche perché mi sentivo un mostro, visto che fra un paio d'ore la polizia avrebbe arrestato gli assassini di Fuad e a me, quasi quasi, non importava.

Presi il bicchiere in equilibrio tra la violetta africana e il cactus e bevvi un sorso di vino.

Najat era sistemata, io e Catia l'avevano portata al Kissing Pink, da Johana, avevamo concluso che il posto più morale dove potevamo mettere una giovane mussulmana era un covo di spogliarelliste.

Venti minuti prima Johana mi aveva telefonato.

– Ha mangiato e adesso dorme. Ci ha raccontato tutta la storia, dio, stiamo ancora piangendo.

Si piange molto, dietro le quinte del Kissing Pink, lo faccio spesso anch'io, ma dopo la vita va meglio. Non ho mai capito perché.

– È una cara ragazzina, la facciamo studiare, vero?

Bella Johana, che pensa tanto agli altri e poco a sè.

– Come sta Paolo? – le fa piacere se lo chiedo.

– Mi ha detto se vado a trovarlo – e la sento brillare, anche se non la vedo. L'amore più grande che io abbia mai conosciuto.

– Vai, non farlo aspettare.

– Sì, la prossima settimana. Mi accompagni?

– Ma resto fuori.

– Grazie.

Un amore totale. Come il mio.

Le nove e mezza.

Il cellulare si mise a a suonare sul tavolo della cucina.

– Sono Najat – sussurrò, – è successa una cosa.

– Dimmi.

– Hanno anticipato, sempre nello stesso posto, prima però. Alle dieci.

Guardai l'ora. Mezz'ora scarsa.

– Come fai a saperlo?

– Ho detto a un'amica di chiamarmi se succedeva qualcosa.

– Sei matta, è pericoloso.

– Sì, ma adesso cosa facciamo?

Ci pensai su due secondi.

– Tu niente, torna a dormire.

– Stai attenta, vero?

– Certo.

Qualche volta bisogna rischiare, diceva papà mio.

Telefonai a Pablo.

– Riesci a procurarti una macchina in cinque minuti?

– Quella di mio padre, ma domani mi uccide.

– Ti difendo io. Vieni a prendermi.

Niente Catia, niente polizia, erano affari miei, adesso. Mi vidi nello specchio del corridoio.

– Se questo è un suicidio, ti riuscirà a meraviglia – dissi alla mia immagine pallida e livida.

Ma c'era Paddy che aveva solo voglia di morire, c'era Fuad che era già morto e chissà che paura aveva avuto, c'era Najat che voleva studiare. C'era così tanto dolore, che il mio non valeva niente.

Qualche volta bisogna rischiare, diceva papà mio.

Lo disse anche la sera che lo spararono.

Pablo fermò la macchina.

– Eccoci.

Era da un po' che andavamo avanti a fari spenti e lui era tutto sudato, aveva paura di rigare la carrozzeria di papà, sai che urli. Ma forse aveva paura e basta.

– Bene – sospirai, – ora io vado a vedere e tu corri dalla polizia, subito.

– E che gli dico?

– Che hanno anticipato.

– Non potevamo dirglielo prima?

– Si perdeva tempo – sbuffai spazientita – e lo perdiamo anche ora. Vai.

– Qui non ti lascio.

Mi aveva dato del tu, signore, sembrava un rullo di tamburo.

– Vai – gli sorrisi e gli tirai quella ridicola barbetta. Anche la macchina pareva riluttante nel fare retromarcia.

Buio era buio, buio pesto.