– E allora?

Non le risposi che, visto il suo peso specifico, se gli si sedeva addosso il poveretto avrebbe scontato tutte le supposte malefatte, le allungai solo un altro fazzoletto.

– Intanto vediamo se la tradisce.

– Certo che mi tradisce, non sono mica scema!

– Non ho detto questo, voglio solo che lei abbia la certezza.

– Ce l'ho già, cosa crede? – si soffiò con vigore il naso – Non vedo perché mio marito preferisca passare le sue serate in laboratorio, invece di tornare a casa. Ovvio che c'è una donna.

Se io fossi una persona sincera avrei spiegato alla signora Pecchioli che una serata a costruire armadi era senz'altro più stimolante che guardare la legittima consorte impegnata a ingoiare torte e soap, ma io non sono una persona sincera.

Impara a dire balle, coccola, diceva papà mio, i clienti le adorano.

Lanciai un'occhiata discreta al mio orologio. Erano quasi le otto e mezza e la signora Pecchioli mi stava stressando da quarantacinque minuti, anche cinquanta e io mi ripromisi che questo era l'ultimo caso passato da Catia che accettavo, Catia che se ne stava, con aria di nulla, trincerata dietro le sue impenetrabili carte e faceva finta di essere da un'altra parte.

– Ovvio che c'è una donna – continuò la signora Pecchioli rinfrancata dall'essersi soffiata il naso, – una donna c'è sempre.

Stavo per sbadigliare, ne ero sicura e avevo fame ed era stata una giornata schifosa. Decisi che avrei potuto raccontare i miei guai alla signora Pecchioli, così, tanto per scambiarci opinioni, ma un bussare gagliardo alla porta mi distrasse e fece cascare dalla scrivania di Catia mezzo chilo di fogli inutili. Palmiro Pecchioli entrò nel mio ufficio con tutta l'imponenza dei suoi duecentocinquanta chili.

– Sei ancora qui, ciccia? – tuonò – Ma quanto avete da parlare, voi donne?

– Abbiamo finito, ciccio – cinguettò la signora Pecchioli, – adesso vengo. E si ricordi quello che le ho detto.

L'ultima frase l'aveva rivolta a me insieme a una penosa strizzata d'occhio.

– Come va la sua porta, signorina Emma? – chiese lui, molto professionale.

– Bene, Palmiro.

– Se le da ancora qualche problema, vengo lì e la piallo.

– Non credo ce ne sarà bisogno – lo rassicurai, – una sua visita è bastata a riportarla alla ragione.

Con qualche sforzo, visti il tonnellaggio e la cordialità, riuscii a spingerli con gentilezza sul pianerottolo, giusto in tempo per bloccare Catia che, raccolti borsa e soprabito, tentava di tagliare la corda in silenzio.

– Questa è l'ultima volta.

– Ma paga – tentò di giustificarsi lei.

– Anche Hitler pagherebbe, ma non credo che mi vorresti far lavorare per lui.

– Insomma, se fai tanto la difficile, da oggi in poi non mi preoccuperò più di nulla – concluse offesa, e se ne andò sbattendo la porta.

Splendido, ora ero sola con il vuoto dell'ufficio.

C'è qualcosa nelle otto e tre quarti di sera che ammazza chiunque. Non è la solitudine che piomba addosso e ti appiccica al muro, non è il silenzio che ti riempie le orecchie e brontola come un terremoto in arrivo, no, niente di così facile. È la consapevolezza che quel silenzio e quella solitudine te li trascini dietro da tanto tempo, forse troppo; è la sicurezza che saranno gli unici e i soli compagni della tua vita che oltretutto, vista la fortuna che ti contraddistingue, sarà una vita lunga.

Prima di spegnere il computer guardai con un ultimo lampo di speranza la posta elettronica, tanto lo sapevo che non c'era niente, cioè, niente a parte Roxanna e Devlin che vendevano viagra e la signora Adetokumbo che mi voleva socia per la sua miniera di diamanti in Sud Africa. Splendido.

Cercai di consolarmi col pensiero del lavoro, dei vestiti carini, i film belli, tutta la vita davanti, cose così fantastiche che mi veniva quasi da piangere.

Fatti un bicchiere di qualcosa, diceva papà mio e domani avrai altro di cui preoccuparti, tipo la nausea e il mal di testa.

Decisi che un irish coffee era la soluzione e avrei anche chiesto a Paddy se mi dava la ricetta, sai che figurone con Catia?

Chiusi a chiave e uscii.

Era una bella serata di inizio primavera, ancora freddina, ma con il cielo trasparente e i primi alberi fioriti. Per un momento mi aspettai di veder spuntare da dietro l'angolo una sagoma familiare, magari per farmi una sorpresa. Sì, certo, lasciamo perdere.

Mi diressi verso il locale di Paddy dove sembrava convergere tutta la vita della strada, con le finestre illuminate e la porta che si apriva e chiudeva di continuo, inghiottendo e sputando gente, parole e musica folk.