Il primo martedì di marzo toccò a me.
Quando arrivai al Bar Colla, Renato detto Speedy Gonzales per i suoi trascorsi chicani stava già facendo le carte, ma nell’aria scevra di fumo (anche questo, si deve sopportare) vibrava una tensione niente male.
“Che razza di tempo”, dissi. “ Quasi quasi me ne stavo a casa a guardare Ballarò.”
I dodici occhi e le tre barbe dei quattro Moschettieri mi fissavano in silenzio. A dire il vero non ho mai sentito né di occhi né di barbe che facessero altrimenti. Solo le mani di Speedy si muovevano su e giù, nella masturbazione rituale di ogni primo sacrosanto martedì del mese, mescolando carte dal dorso blu con carte dal dorso rosso.
Fu Fulvio detto Fulvio o, in occasioni più rare, Fu perchè una volta, a quindici anni, era scappato di casa con la ragazzina che adesso è sua moglie e Chi l’ha visto? lo era andato a cercare...
Sorry, ho perso il filo. Comunque fu Fu a puntare il suo ditone da contadino sulla busta in mezzo al tavolo.
Un rettangolo di carta bianca sul marmo color vomito del tavolo (mi domando perché hanno eliminato i vecchi tavoli di quercia scurita dalle mezzelune di bicchieri di vino rosso sempre vuoti, per sostituirli con queste superfici da ospedale, dove anche il miglior ghirigoro disegnato da seti ataviche è effimero come una farfalla).
Scusate la disgressione. La busta era una normale americana, cm 11 x 22. Normale si fa per dire, ché sulla sua bella faccia bianca si stagliava la scritta “per Zarkov”. Che sarei io, Bernardo Zardini, nice to meet you.
Quando il gioco si fa duro, a me vengono le gambe molli. Così mi diressi verso il bancone e, dandomi un minimo di contegno, dissi a Mario, barista precario perché in prova:
“Mi sono rotto, adesso devi dirci chi l’ha portata.”
Il tipo strabuzzò gli occhi: “Non ho mica il tempo di guardare chi entra e chi esce, sono nove ore che sto in piedi...”
Non aveva tutti i torti, così tornai al tavolo e, con finta indifferenza, mi impossessai della busta.
“per Zarkov” erano due parole... okay, lo so che lo sapete anche voi, intendo che erano proprio due parole. Stampate in corpo 12, carattere graziato, ritagliate da una rivista e appiccicate con lo stick.
Lo stesso per la lettera, stesso corpo, stesso carattere. Mentre la estraevo, con l’aria di Mike Bongiorno che apre la busta con le domande, tutti quegli occhi e quelle barbe puntavano nella mia direzione. Feci quello che dovevo fare. Lessi ad alta voce... abbastanza alta, ché non mi sentissero ai tavoli vicini:
| Zarkov | si | è fatto | Alice | l’anno scorso |.
Oltre ai due occhi azzurri e alla nessuna barba di Alice c’erano solo dodici occhi e tre barbe che potevano sapere dell’unica scappatella della mia vita recente, e le avevo davanti a me. Maledetti Moschettieri, me la pagherete, pensai.
Da gennaio, ad ogni riunione mensile dei Moschettieri, era apparsa una lettera con rivelazioni che sarebbero state sconvolgenti per tutti, soprattutto per le nostre compagne, i nostri colleghi, i nostri datori di lavoro. Ma non per noi cinque.
Per noi quelle indiscrezioni erano segreti di Pulcinella. I nostri incontri periodici, ogni primo martedì del mese al Bar Colla, erano sì dedicati a intense partite di briscola chiamata, ma anche all’autogossip. Come vent’anni prima, quand’eravamo anime libere e il solo problema era cosa-si-farà-da-grandi, piccole vanterie e grandi minchionate davano colore al nostro esistere in questo cul de sac ai confini dell’impero che è Guerceto.
Il primo a ricevere la lettera era stato Sandro detto Esse-esse, il perché è che la naja l’ha fatta nei carabinieri e un giorno ha avuto la spudoratezza di farsi una licenza in divisa. Diceva:
| SS | ha | fregato | la ditta | non era | malato | ma | in ferie | a Londra |.
In febbraio fu la volta di Marco detto Ipocondria, immaginate voi il motivo. Non vi dico cosa c’era scritto ché poi verba volant e non vorrei gli venisse la febbre. Certe cose è meglio che restino nel gruppo. Quella sera di marzo a briscola vinse Fulvio, 6 euro e 50. Tornai da Elena sorprendentemente lucido, per quello che avevo bevuto. Ma lei dormiva.
Il colpevole è tra noi, pensai quel primo martedì di marzo, mentre tentavo di prendere sonno.
Solo noi cinque avevamo la chiave degli armadi altrui, solo noi conoscevamo i miseri scheletri che vi si nascondevano.
E solo uno di loro quattro poteva essere l’autore delle missive.
Di Speedy ho già detto qualcosa, dopo qualche anno di scorrerie in giro per il globo terracqueo era tornato tranquillo tranquillo da mammà che tutte i giovedì gli faceva gli gnocchi più buoni del mondo. Dai suoi viaggi si era portato un’arietta da guru saputello che sfoggiava nelle grandi occasioni.
Fulvio lavorava nella vigna di famiglia fin da quando lo conoscevo, cioè dalle elementari. Quand’era scappato con Carmen ragazzina era già uno e novanta ma mi ricordo con quanta grazia le sue dita callose che avevano aperto due libri in tutta la vita le sfioravano collo, guance e quant’altro durante le festicciole della domenica. Fu è uno che se vede una soap si mette a piangere, ma è capace anche di incredibili cattiverie, formiche abbrustolite e rane gonfiate e cose così.
Esse-Esse fa il mezzemaniche in una ditta di trasporti, è uno tosto che solo Irene e le due piccole, che adesso sono quasi maggiorenni, riescono a tenere a bada. E i libri: se non ha qualcosa da leggere è capace di sbattere la testa contro il muro. La tua, non la sua. Tanto che una volta accusò Fulvio di non avergli restituito un Segretissimo e dovemmo tenerlo in quattro per evitare che si facesse male.
Ipocondria legge solo bugiardini, anche nelle ore che passa dietro lo sportello della banca cooperativa sotto casa. Conosce nomi e sintomi di tutte le malattie umane, animali e perfino vegetali, dalla spondilite anchilosante alla peronospora, dalla diverticolosi alla petecchia.
Elena era ancora sotto le coperte, ma io mi ero svegliato con un tarlo che mi tarlava dentro e non ero stato capace di riprendere sonno; l’unica cosa che avevo ripreso era una seconda aspirina. Non per fare pubblicità, ma l’avete mai provata, dopo una notte di bevute?
Se qualcuno dice di non aver mai fatto una notte di bevute prendo un’Urania e un paio di forbici e ritaglio: | bugiardo |...
Urania?
Mi sembrava che ci fosse qualcosa di familiare, nel carattere tipografico delle strip! Erano i vecchi bei caratteri di Urania, di Segretissimo, del Giallo Mondadori, quelli con in copertina le illustrazioni di Jacono, tutte uguali e tutte diverse e inserite in un cerchio, quei caratteri facili da mandar giù, che sopportavano le due colonne per pagina tanto che riuscivo a leggere due o tre libri per sera, altro che adesso che quando apro un libro è come la coperta corta, mi si chiudono gli occhi in automatico.
Nell’atrio estrassi dalla tasca del cappotto la lettera anonima e con la punta del coltello sporco della squisita marmellata all’ananas di Elena sollevai delicatamente un angolo della tessera più lunga, | l’anno scorso |, e la staccai.
Sotto c’era scritto: |rdir entrò nel |.
..rdir, parte di un nome. Entrò, verbo. Nel, preposizione. Chi è.. rdir? O meglio, quale nome finisce per rdir? Urdir? Kawalardir? Ibn El Mordir? Nomi da elfi, nomi da extraterrestri... ragazzi, sono trent’anni che mi nutro di fantascienza & fantasy, non per niente mi chiamano Zarkov, che sarebbe l’amico di Flash Gordon.
Le parole non erano state ritagliate da una rivista, ma da un libro di fantascienza. E c’è un solo.. rdir, nella fantascienza, o meglio tanti, un’intera popolazione di alieni: i Dirdir di Vance nel ciclo di Tschai.
In quel momento seppi chi era il colpevole.
Venne aprile, mese pazzerello più di marzo e comunque non ci sono più le mezze stagioni e questo dà la possibilità di scambiarsi opinioni cretine anche a certe vecchie mummie acide e incartapecorite che conosco.
Comunque era un freddo della madonna anche il primo mercoledì di aprile. Mario barista precario l’avevano sbattuto fuori e al posto suo c’era una fanciulla che somigliava a Elena, solo più giovane e con più tette.
I quattro, come al solito, erano arrivati prima di me, e Ipocondria stava smazzando le carte. E, come al solito, sul marmo del tavolo spiccava una busta bianca.
Mi sporsi e lessi l’indirizzo: | per | Gonzalez |.
“L’hai già aperta?”, chiesi al guru.
Speedy scosse la testa: “No, aspettavamo te”.
“Scommetto che con le tue doti divinatorie sei in grado di leggere quello che c’è scritto”, dissi.
Speedy in Mexico aveva conosciuto sciamani e stregoni e si piccava di possedere “la conoscenza”, anche perché non disdegnava qualche canna di tanto in tanto.
Si alzò in tutto il suo metro e settantasei e allargò le braccia, chiuse gli occhi e trattenne il fiato per cinque secondi.
Poi lo lasciò uscire dalla bocca a cuore e con voce rauca mormorò: “Du... uomo biango... di poga fede... du avere sdrisciato macchina di tuo vicino di casa ber vendedda gondro sua moglie che gira in casa gon dagghi a spillo”. Presi la lettera e l’aprii, ma non mi andava di fare il Mike Bongiorno, incazzato com’ero.
I caratteri di Urania dicevano:
| Gonzales | con | chiavi | striscia | automobile | di | vicino.
Mi girai e guardai l’autore delle lettere negli occhi. Ammiccavano, dentro c’erano pagliuzze che sapevano di presa per il culo.
Gli sparai un pugno dritto in faccia, e i suoi baffi si macchiarono di sangue. Barcollò ma non cadde, mentre mi sporgevo sul tavolo tentando di afferrarlo per la gola.
“Che cazzo fai...” disse il colpevole tamponandosi il naso, mentre gli altri tre mi saltavano addosso.
“Esse-esse...” sibilai. Ero fuori di me. “Tu sei l’unico che legge fantascienza, oltre a me. Tu sei quello a cui ho prestato Naufragio sul pianeta Tschai. E non me l’hai mai restituito!”.
Accuse pesanti.
Esse-esse tentò una miserevole difesa: “Cosa c’entra... Speedy sapeva cosa c’era scritto, nella lettera”.
“Tutti lo sapevano cosa c’era scritto, anch’io... è l’unica cretinata che ha fatto negli ultimi vent’anni! Oltre a questa!”
“Dai, è tutto uno scherzo”, tentò di minimizzare Esse-esse.
“Uno scherzo? Come cazzo ti è saltato di fare questi scherzi?”. Urlavo. Singhiozzavo. Non capivo più niente.
“In gennaio... mi è ricapitato in mano quel vecchio libro di Asimov, quello sul club dei Vedovi Neri. Ho pensato a noi, ai Moschettieri... siamo come loro, ci troviamo ogni mese...”.
“Che vuoi dire?”, chiesi quasi balbettando.
“Irene voleva che buttassi via i libri vecchi, in casa non c’è più posto, con le ragazze che crescono. Allora mi è venuto in mente di mettervi alla prova, come facevano i vedovi... vedere chi avrebbe scoperto l’autore delle lettere.”.
Era affannato e ansante, ma lo disse quasi con orgoglio. In fondo il suo esperimento era riuscito.
Mi divincolai con rabbia. Poi mi girai e raggiunsi l’auto parcheggiata nel piazzale del bar. Accesi il motore e mi diressi verso casa. Verso una casa vuota.
Elena aveva scoperto la lettera con la storia di Alice dieci giorni prima e se n’era tornata da sua madre.
L’unico vero vedovo ero io.
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