Eccolo, nell’angolo più buio, in quello più lontano. La sua figura, la sua mano sembrano emergere dall’ombra come da una sostanza liquida che lo abbia tenuto nascosto sotto la sua superficie piatta e senza movimenti. La Walther silenziata si alza lentamente fino ad incontrare il profilo del poliziotto… No, no… è banale; chissà quante volte l’hanno già scritta ‘sta scena qui; chissà quanti poliziotti sono stati ammazzati da diabolici sicari che trasudano malvagità, chissà quanti l’hanno scritta meglio di così ‘sta scena, perché è vero che non si riesce a scrivere più niente di nuovo e pure a mescolarle le cose, le situazioni, i personaggi, i generi, alla fine scrivi sempre le stesse cose, perché in fondo è che siamo sempre gli stessi noi, che calpestiamo questa terra, sempre gli stessi… un po’ più vili o un po’ più coraggiosi, orgogliosi o servili, generosi o egoisti, ma in fondo siamo sempre gli stessi, da quando abbiamo seguito Odisseo perdendoci in mare, perché mica siamo bravi come lui, mica siamo come gli eroi dei libri noialtri.
Pessimo, pessimo. Un briciolo di sana depressione giova alla scrittura, ma quando si supera il “dosaggio” si finisce a fare i conti con gli effetti indesiderati: e allora ti sembra che tutto sia assolutamente inutile, compresa quella cosa che ti piace tanto, imbrattare di segni neri una pagina. Forse mi conviene leggere un collega bravo e famoso; di solito leggere mi fa tornare la voglia di scrivere, sperando di riuscire a imbrattare carte con un minimo di stile.
Bisogna anche muoversi, alzarsi ogni tanto da questa sedia ergonomica, farsi un giretto, prima di sentirsi come un marinaio messo ai ferri per ammutinamento. Uhm… alzarsi, ma per fare cosa?
Mangiare! Ma che ora è? Si, perché mangiare va bene ma bisogna anche rispettare gli orari, che per esempio adesso, alle dieci e mezza del mattino, non ci si può far venire la voglia di aringhe affumicate, col pane tostato e il burro spalmato sulla superficie croccante, no che non si può, perché adesso sarebbe ora di cappuccino e sfogliatine, cornetto, qualche pasticcino di pasta frolla va’… al bar adesso mica chiedono birra e aringa… però a me andrebbe. Mai passare davanti agli specchi quando ti viene fame: l’aringa nuota via veloce come un siluro; il burro e il pane scompaiono in un gorgo buio. Non è che i pasticcini facciano una fine migliore, perché lo specchio è peggio di una di quelle trappole tropicali col fondo irto di canne di bambù appuntite; ci rimani infilzato e ti giri e ti rigiri, ma l’immagine non migliora cambiando lato. Ma porca… e le tre lezioni di Aikido a settimana? Tre intense lezioni di un paio d’ore l’una… sì ma evidentemente a un fisico “tosto” come il mio, non gli bastano mica per bruciare tutto; ci vorrebbe un super lavoro in palestra, oppure basterebbe anche alzare il sedere dalla macchina e muovere i piedi tutte le volte che devi raggiungere un posto, anche semplicemente per arrivare al bancomat. In fondo Viterbo, il centro, lo attraversi in venti minuti se hai fretta; se invece hai tempo da perdere, a bighellonare per i vicoli scuri di marmo impepato di San Pellegrino ci metti un po’ di più, sotto i lampioni gialli e le mura oblique che ti stringono la vista del cielo, che comunque è un cielo stretto, come è stretto dappertutto qui da noi, mica come in Francia, dove s’allarga e cambia luce o come a Londra, dove sembra finto, una copertura costruita apposta e discreta, tanto che te ne dimentichi che esiste un cielo anche da quelle parti.
‘Sto schermo certi giorni sembra una condanna; una scatola enorme che non si riempie mai, che hai voglia a scrivere, ma stai sempre lì e guai, guai se vai all’improvviso, se avanzi a lume di naso. L’agenda è un’amica: sta lì e aspetta che tu l’apra, aspetta anche dei mesi, prima che tu la riempia di scrittura minuta e fitta, che tu le dica, in via confidenziale e riservata, chi sono i tuoi personaggi, che faranno, che destino gli hai deciso; non si lamenta nemmeno quando cambi idea e quello che le hai confidato non vale più, perché pestando i tasti, qualche altra idea ti ha attraversato la testa.
Ci sono date vecchie sull’agenda; ci sono appunti che ti dicono che quella storia lì, quella che ti sembra aver finito in un lampo di tempo, invece è carica d’anni, che te la porti appresso chissà da quanto; come le storie che ho sentito da mia nonna, storie talmente vere che meriterebbero un romanzo che da anni dovrei scrivere ma che probabilmente rimarranno lì a farmi compagnia, fino a quando non spariranno con me. Uhmmm… giornataccia oggi, davvero una giornataccia. Manca solo che mi metta lì a misurarmi la frequenza cardiaca e a chiedermi se alla mia età è normale o sto per incontrarmi con la fatidica “toccatina”. Ma non è questione di pressione, colesterolo, colite o chissà che altro, è che vedi calare la sabbia nella clessidra e l’idea disturba un po’. A forza di scrivere noir, finirò per parlare come Lemmy Caution… mi ci vorrebbe la battuta magnifica di quel film con De Sica e Tina Pica: lui con quel tono stupendamente finto aristocratico che le recita il motto dei Trappisti “Fratello… ricordati che devi morire” e lei a rispondergli con quella voce impossibile “Fratello… vatte a cucca’”. Ecco, forse dovrei andare a dormire prima la sera, invece di tirare tardi fino allo stremo; dovrei riposare coscienziosamente le mie sette, otto ore per notte, così da essere efficiente e produttivo nelle ore diurne; così da non maledire la sveglia che bercia la mattina, mentre tiro su le ossa dal letto, agognando l’estate quando potrò dormire fino a tardi. Che poi non è vero che riesco a dormire così tanto, perché mi sveglia la fame, la fame peggiore del giorno, la fame del mattino, quella che sarebbe capace di far fuori l’aringa di cui sopra.
Devo rispettare i tempi: se continuo a divagare dovrò smettere di scrivere e passare alla correzione dei compiti in classe. Tempi certi, sono necessari, soprattutto se hai a che fare con la scuola e gli studenti, ché non sono mica scartoffie i ragazzi che puoi lasciare su una scrivania ad aspettarti; loro sono qualcosa che ti richiede tempo, rabbia e risate, progetti e programmi che poi lasci a dormire dentro la borsa e il cassetto, perché loro hanno l’imprevedibile capacità di far deragliare il tuo treno didattico, perché hanno una vita da raccontarti ogni giorno, buffa o irritante, seria o balzana che sia.
E’ che mi è sempre piaciuto stare a sentire le storie che mi raccontavano; mi deve essere venuta voglia di scrivere per questo, per sentire storie che mi piacessero, anche se poi le storie ho cercato di raccontarle anche agli altri, a chi mi conosceva, perché a chi non mi conosce personalmente, a chi abita a Torino, oppure a Palermo, ci sono arrivato per caso, per “colpa” di Giuseppe, del mio amico Giuseppe (Joe) Giustini, che una mattina di qualche anno fa, mi buttò lì quella frase “Ma perché non lo mandi al Premio Calvino ‘sto romanzo?” e la “colpa” va estesa ai giurati che mi hanno scelto, che hanno dato la menzione speciale al mio L’età dell’acqua. Ricade la “colpa”, anche sulle spalle di Luigi Bernardi, che mi pubblicò e continua a pubblicarmi, come ha fatto adesso con Lungo la stessa strada. E una fetta di “colpa” se la merita anche Jacopo De Michelis, che ha pubblicato Anche una sola lacrima nel catalogo Marsilio e mi pubblicherà ancora il prossimo anno. E porzioni di questa “colpa” dovrei distribuirle tra le tante persone a cui voglio bene, che mi sopportano e mi ricambiano. Qualcuno di loro è citato nei ringraziamenti dei miei libri, qualcuno no, ma hanno tutti la mia profonda riconoscenza.
Non ti puoi distrarre un attimo: come allenti la tensione, ecco che cominci a pensare all’universo mondo, alle aringhe e al senso della vita, al tuo ruolo nella società e a Tina Pica, mentre ‘sto foglio elettronico e bianco se ne sta lì a fissarti, in attesa delle tue parole.
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